Alfabeta - anno IX - n. 92 - gennaio 1987

- t - ConversaziocnoenR1coeur A bbiamo incontrato Paul Ricoeur di passaggio a Milano (ave'Vatenuto una relazione al convegno Uomini e tecnologie organizzato dalla Breda) e gli abbiamo posto degli interrogativi sul suo libro Tempo e racconto, che è stato oggetto di una serie di interventi pubblicati nello scorso numero di «Alfabeta». Il testo che pubblichiamo è la sintesi della lunga conversazione che ne è seguita. Desideriamo qui ringraziare Paul Ricoeur per la disponibilità con cui ha voluto contribuire alla iniziativa di «Alfabeta». Dalla metafora al racconto Nel 1975, prima di affrontare il tema del racconto, lei aveva pubblicato un libro sulla metafora, La métaphore vive. Questa successione non pare estrinseca, c'è un nesso, e lei per primo lo sottolinea in Temps et récit, fra metafora e racconto. In che cosa consiste questo legame? Metafora e racconto hanno in comune un certo potere del linguaggio di creare nuovi significati. Mi spiego: nel libro sulla metafora sostenevo che essa non è un semplice ornamento del linguaggio, ma una vera e propria creazione di senso, anzitutto perché comporta l'intersezione di due campi semantici. Prendiamo per esempio la poesia di Baudelaire in cui la natura è definita come un tempio; qui si intrecciano palesemente due campi semantici, quello della natura, e quello dell'architettura: e ciò comporta la creazione di un terzo senso, che esiste solo grazie alla tensione fra due sensi metaforici. Ora, il racconto è la creazione di un intreccio, e anche qui, come nella metafora, si mettono insieme degli eventi che creano qualcosa di nuovo: una storia. Con due parole riunite si fa una metafora, con due eventi un racconto. E in entrambi i casi si mette in luce una delle funzioni centrali del linguaggio, e cioè la costruzione del senso. Una funzione che va anche oltre il linguaggio, sotto di esso, perché ha a che fare con la immaginazione. Sul piano di una teoria della storia, questo significa ovviamente che non è possibile un resoconto neutrale, e che ogni ricostruzione crea del nuovo. Ci sono qiolti intrecci, e molti modi per raccontare una storia. Per esempio, oggi c'è una concorrenza molto forte tra vari racconti relativi alla rivoluzione francese; non si può dire che uno sia più vero dell'altro: non sono gli stessi eventi che si sono selezionati, non è lo stesso intreccio che viene narrato. Questo pone ovviamente molti problemi rispetto alla «verità» del •passato. Il racconto ricorre a facoltà eterogenee: alla immaginazione creativa in senso kantiano, e d'altra parte alla interpretazione, t--- perché si possono dare più inter- .s pretazioni di uno stesso evento. ~ Ma non per questo si è autorizzati ;:: a.dire qualunque cosa: ci sono re- ~ gole imposte dal metodo, dai do- ....., cumenti che si possiedono, ecc. -~ Certo, però, all'interno di un de- ~ terminato insieme di documenti, ~ft ......,ci sono più percorsi, più «itinera- ~ ri», come li chiamava Raymond s::! Aron. s ~ Ì D'accordo sul parallelismo. Ma ~ lei sarebbe disposto a sostenere che il racconto è una metafora? Sì e no. Bisogna intendersi sul significato di «racconto». Sono partito da una ipotesi semantica, secondo cui la parola racconto indica sia il mito, sia l'epopea, sia il romanzo moderno, sia la storia. In realtà qui non mi rifacevo tanto al campo semantico del francese récit, che è piuttosto ristretto e che si è esteso per opera degli studi di narratologia di Barthes e di Genette, ma piuttosto a ciò che è designato in inglese dall'aggettivo narrative, che copre adeguatamente l'insieme che ho indicato più sopra. Non dimenticare è dire la verità Racconto storico e racconto romanzesco. Se i due livelli sono assimilati dalla narratività, che ne è della intenzione di verità dello storico? Affrontando il problema della A cura di Maurizio Ferraris monde méditerranéen à l'époque de Philippe II di Braudel. In fin dei conti, è il racconto della morte del Mediterraneo come eroe storico: Spagna e Turchia cessano di fronteggiarsi, la Turchia si volge verso Oriente, la Spagna verso Occidente, e il mare muore; l'eroe non è Filippo II, ma il Mediterraneo come quasi-person~ggio e eroe collettivo. La narratologia ci ha insegnato che l'eroe non è necessariamente un uomo: può essere un animale parlante, un semidio, un elemento naturale. Braudel costruisce un eroe collettivo, che è insieme una realtà geografica, una entità sociologica, e una realtà storica; che il Mediterraneo sia un quasi-personaggio e la sua morte un quasi-evento non esclude però la realtà geografica, sociale, storica: il quasi ha un ruolo centrale. Quanto alla intenzione di verità dello storico noi non abbiamo un solo modello di verità. Certo la ri; qui concordo appieno con uno dei massimi esegeti dell'Antico Testamento, James Darr, per il quale i racconti biblici hanno rapporti complessi con ciò che noi chiamiamo storia. Si tratta quindi di distinguere: ci sono miti, come nel caso dei racconti della Genesi; leggende, come in quello dei Patriarchi; novelle, come nella storia di Giuseppe, o anche narrazioni quasi-storiche nel senso moderno del termine, come per esempio la storia di Davide (in cui probabilmente chi narrava aveva avuto accesso all'archivio reale). Dunque il nome storia sacra è decisamente troppo generico. In secondo luogo, il narrativo biblico nel suo insieme è caratterizzato dal fatto di non funzionare mai autonomamente: è sempre legato a leggi (i comandamenti), a profezie che volgono la storia verso il futuro, a scritti di saggezza intemporali o trans-temporali (per esempio la storia di Giobbe), a inIl bacio al diavolo, in Guaccino, Compendium maleficarum scientificità della storia, ho cercato di tenermi equidistante da una concezione ingenuamente narrativista della storia e da coloro che vorrebbero eliminare l'elemento narrativo, e in sostanza l'elemento temporale_,come nelle teorie neopositivistiche. Perciò ho tentato una analisi un po' husserliana; pensiamo a quando Husserl sostiene che la frattura epistemologica rappresentata da Galileo non toglie che tutti i nostri modelli di spazio dipendano innanzitutto da uno spazio primario, quello in cui viviamo: allo stesso modo cerco di sostenere che c'è un filo ininterrotto fra il racconto ingenuo e il racconto scientifico, dello storico, senza di che la storia sarebbe divorata dalla sociologia. Così la differenza irriducibile tra la storia e le altre scienze umane consiste appunto nel preservare la dimensione temporale; e il racconto, come sostengo all'inizio del mio lavoro, è il guardiano del tempo. Il rapporto fra la storia e il , racconto letterario è indiretto, di derivazione, ma non di inclusione. La storia, rispetto alla narrazione letteraria, è un quasi-racconto con dei quasi-personaggi. Prendiamo per esempio La Méditerranée et le storia è racconto; ma non si può raccontare qualsiasi cosa, ci sono problemi di coerenza rispetto ai documenti, e di coerenza interna del racconto. Inoltre~ nel terzo volume, per chiarire meglio la differenza tra narrazione e semplice finzione nella storia ho sottolineato un elemento che ho in comune con de Certeau e forse con Lacan, il problema del debito verso i morti: che lo si chiami o no «verità», il problema è rendere giustizia agli uomini del passato. E se c'è una rivoluzione nella storia contemporanea, sta tutta nell'aver smesso di scrivere la storia dei vincitori, per incominciare a fare la storia delle vittime. C'è un radicamento della storia non solo nelle tracce costituite dai documenti, ma anche in ciò che non è più: già per gli storici greci bisognava che la fama degli uomini del passato fosse preservata dall'oblio. In questo senso, non dimenticare significa dire la verità . Che rapporto c'è fra la storia secolare di cui lei parla in Temps et récit e la storia sacra? In Temps et récit, parlo soltanto di storia profana. Perché la storia sacra ha problemi del tutto peculiani, come i salmi, che non sono narrativi. Tre anni fa, a Oxford, ho tenuto delle conferenze ancora inedite sul narrativo biblico, che muovono dalla ipotesi secondo cui la Bibbia è caratterizzata da una intersezione di generi letterari, narrativi, prescrittivi, profetici, sapienziali e lirici. Questo incrocio comporta livelli temporali differenti, perché il narrativo riferisce l'accaduto, la profezia è rivolta verso il futuro, la legge è transtemporale, l'inno si svolge sempre nel presente. E non è possibile unificare questi generi sotto la categoria di storia sacra; né sotto quella di storia della salvezza, che è solo un aspetto. In terzo luogo, questa storia composta da molti generi ha un ruolo di referenza per una comunità ecclesiale che si definisce come lettrice e interprete di questa storia. È un tipo di rapporto che noi non abbiamo più con i testi letterari: esisteva, come ha mostrato Werner Jaeger, nella Grecia antica in relazione ai poemi omerici, costitutivi per la paideia della comunità; e lo si ritrova nel ruolo della Bibbia all'interno delle comunità protestanti tedesche e inglesi. Il testo, in questi casi, è il testo di referenza di una comunità; il che è molto specifico, lo ha sottolineato recentemente Northrop Frye in un libro che ammiro moltissimo, Thè Great Code. Testo e comunità Ma questo non pone forse un rapporto esplicito fra l'ermeneutica biblica e l'ermeneutica filosofica e letteraria? Anche per l'ermeneutica «profana» i testi non sono mai testi qualsiasi, ma sempre documenti canonici e vincolanti per una comunità di interpreti. Fra testo e comunità si forma una sorta di circolo: il testo è canonico perché genera una comunità, una comunità è tale eerché si riconosce in quel testo. E in questo senso che Hegel sosteneva che la terza persona della trinità è la Gemeinschaft, la comunità. Ma questo non ha più a che fare con il racconto così come l'ho analizzato in Temps et récit: tutta la teoria della lettura che ho sviluppato nel terzo volume suppone un rapporto individuale, cioè una lettura solitaria, e non una ecclesia raccolta intorno a dei testi. Ma certo è difficile separare nettamente ermeneutica filosofica e ermeneutica biblica. (È uscita da poco in Francia una raccolta di miei scritti, Du texte à l'action, pubblicata da Seui!; uno dei saggi si intitola Herméneutique philosophique et herméneutique biblique, e affronta il problema della loro fondazione reciproca, del loro appoggiarsi l'una all'altra). In Temps et récit, sul finire del terzo volume, lei scrive: «Una éerta iconoclastia rispetto alla storia [. . .] costituisce [. .. J una condizione necessaria per il suo potere di ri-figurare il tempo» (p. 346). Può chiarire il senso di questa iconoclastia? È la storia critica di cui parla Nietzsche nella Seconda Inattuale. Siamo molto distanti dalle questioni epistemologiche implicate dal rapporto fra storia e racconto: qui si riflette, come suona il titolo della Inattuale, Sull'utilità e il danno della storia per la vita. Dunque non si collega a una problematica di epistemologia della storiografia ma a una questione di ri-figurazione della storia: come la storia entra nella nostra vita. Nietzsche scrive in un'epoca in cui la cultura tedesca è completamente sommersa dallo storicismo (per quanto il nome non esista ancora: nascerà dieci o quindici anni dopo, con Troeltsch e Meinecke), al punto che la vita sembra paralizzata dal peso della storia, e impossibilitata a creare del nuovo. Allora Nietzsche pone un problema importante: come riuscire a non essere paralizzati dalle proprie tradizioni? Per capire questo testo, bisogna compararlo alla filosofia della storia di Hegel. Hegel distingue una storia originaria, quella degli eventi; una storia critica, alla maniera della Aufkliirung; e poi una storia speculativa come storia della libertà. Ora è interessante notare cqme la storia critica,. che è la penultima in Hegel, divenga l'ultima in Nietzsche: per Hegel il sapere assoluto nella storia speculativa creava un eterno 'presente, e comportava una emancipazione dalla storia condotta attraverso la storia. Nietzsche non intravvede più

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