se riusciamo ad attingere, per le nostre vedute morali, un grado superiore di «unità organica», di capacità di unificare una più ampia e ricca diversità e varietà di ragioni, giustificazioni e valori. Ciò può aver luogo in più direzioni: 1. con l'estensione di ciò che è nel dominio della moralità, del tipo di esseri inclusi; 2. con l'approfondimento del grado di «impersonalità» del nostro punto di vista; 3. con una migliore comprensione della natura pluralista delle nostre concezioni e dell'informazione pertinente in etica. Le tre direzioni indicate non sono poi così indipendenti fra loro. Consideriamole sommariamente, nei loro nessi. L'adozione di un punto di vista impersonale o, come dire, da lontano o esterno alle nostre vite è in ogni caso un ingrediente essenziale per l'etica (un ingrediente che noi abbiamo già appreso essere essenziale, in forme appena un po' più sofisticate rispetto alla regola mosaica: «sii gentile con lo straniero ... »). Esso richiede che noi facciamo, per dir così, un passo indietro rispetto alle nostre vite e le guardiamo dal punto di vista del!'«universo», cioè d.a nessun luogo, rispetto ai luoghi e ai punti di vista dall'interno delle nostre vite (Nagel). Questo è anche alla base del fatto che io posso vedere me, SV, come «chiunque» e in questa prospettiva posso comprendere ragioni impersonali o neutrali, rispetto all'agente: in questo caso, a SV. L'estensione e l'approfondimento di questo punto di vista può andare a sua volta in due direzioni connesse tra loro strettamente. La prima è quella di allargare il dominio di ciò che è oggetto di questo punto di vista; o, se si preferisce, di estendere la nostra rispondenza morale rispetto a caratteristiche di esseri prima ritenute neutre e ora, o domani, degne di essere valutate come moralmente pertinenti. «Nel fare il catalogo delle caratteristiche rispetto a cui abbiamo rispondenza morale, una prospettiva morale è aperta alla crescita, allo sviluppo e a nuove visioni» (Nozick). (Si pensi ai casi dei diritti animali e dello specismo, come estensione negativa in termini di valore del sessismo o del razzismo e in generale alle questioni delle responsabilità morali verso la natura). La seconda implica una ridescrizione di quanto è oggetto della moralità, nel senso di chi è il suo cliente. La nozione di persona può apparire, in questa prospettiva, psicologicamente e culturalmente attraente ma metafisicamente o moralmente non sembra essere così indispensabile. Ciò che conta potrebbero essere alla fin fine le esperienze - gli stati di esperienza nel mondo - e non le persone - gli ego cartesiani - che li avrebbero, secondo l'argomento di D. Parfit. (La mia congettura è che l'aumento della rispondenza morale sia connesso alla crescita delle nostre credenze vere e della nostra informazione sull'insieme delle nostre responsabilità causali nel mondo e alle ridescrizioni di noi nel mondo che sono connesse a una maggiore complessità dell'informazione. Noi apprendiamo che il sistema degli effetti di ciò che possiamo fare nel mondo è più ampio e questo, a sua volta, induce un ridisegno della nostra immagine stessa del mondo, e di noi nel mondo.) I n questo modo, sembra che l'approfondimento di un punto di vista impersonale e la tensione verso la «oggettività» ci inducano a ritenere che anche il nostro è un punto di vista, come tanti altri e fra tanti altri reali e possibili, nel mondo. Questo non vuol dire naturalmente togliere il rilievo appropriato alla nostra prospettiva sull'universo, a come esso appare a noi e a che cosa proviamo noi a essere noi, in esso; vuol dire riconoscere «oggettivamente» le nostre prospettive familiari e, al tempo stesso, essere o riconoscerci rispondenti moralmente alla varietà di prospettive non umane (o anche semplicemente, umane ma non personali) sul mondo. Non credo sia utopistico guardare a uno sviluppo graduale di una «maggiore universalità di rispetto morale e a un'interiorizzazione della oggettività morale». Credo piuttosto che questa capacità di distacco sia connessa al variare della nostra immagine scientifica del mondo. D'altra parte, se noi non avessimo questa capacità di distacco, lo stato della nostra etica assomiglierebbe al mondo post-.satastrofico di Maclntyre. Né, in tal caso, avrebbe senso alcuno l'idea di progresso in etica. Fortunatamente, il semplice fatto che noi comprendiamo che cosa vuol dire adottare un punto di vista impersonale, all'esterno delle nostre vite, che trascenda le prospettive particolari e il tempo e lo spazio di ciascuno, ci assicura che le cose non sono così disastrose, anche se possono non essere brillanti come desidereremmo (ma se fosse così, ancora una volta, come spiegare l'idea di un'etica migliore?). Per questo, l'idea di qualcosa di meglio e di una moralità più ricca e· profonda fa parte del nostro corredo di competenze morali. Ora, le due direzioni indicate, estensione e approfondimento, rendono possibile l'idea di qualcosa che noi riconosceremmo come progresso in etica. Esse configurano i tratti di un'etica della convergenza. L'idea sembra essere quella di una sorta di minima moralia per la specie (in una prospettiva più esigente: minima moralia interspecifici). Una maggiore impersonalità tende a trascendere le forme di vita entro cui abbiamo punti di vista, ragioni, valori e giustificazioFirenze-Physis ni; una maggiore estensione include una varietà di esseri presi come punti di vista sul mondo e perciò degni di rispetto morale. Tuttavia, non c'è ragione di aspettarsi che il progresso in etica sia riduttivo e semplificante, anche se·qui, come altrove, siamo indotti troppo precipitosamente a identificare il progresso con la riduzione e con la semplificazione. «Individui distinti e separati continuano a essere clienti dell'etica e la loro varietà garantisce che il pluralismo sarà un aspetto essenziale di ogni moralità adeguata.» Qui ci soccorre la terza direzione in cui si abbozza la nozione di progresso in etica: una più ricca e migliore comprensione della natura pluralista delle nostre teorie e dell'informazione pertinente in etica. Essa è naturalmente un'estensione di una linea caratteristica già presente nello stato corrente delle nostre idee su cosa sia una moralità (come potrebbe essere diversamente, d'altra parte, se vogliamo che qualcosa sia tale per come è riconoscibile per noi?). In· essa, ragioni impersonali e neutrali sono in tensione con ragioni relative all'agente o alla sua posizione o al suo punto di vista sul mondo; giustificazioni da nessun punto di vista sono in tensione con giustificazioni entro una particolare forma di vita; informazione relativa al benessere con informazione relativa ai diritti. Spesso, queste tensioni inducono a ona semplificazione: alla identificazione della moralità con l'una o l'altra delle caratteristiche polari in conflitto. Un progresso in etica è possibile se questa tensione è mantenuta in modo pluralista e non cancellata a favore di un solo tipo di ragioni o di un solo tipÒ di informazione. Così, si ritiene che il monismo non sia un ingrediente interessante dell'evoluzione della nostra moralità. L'etica della convergenza non è una •moralità completa e non pretende di coprire l'intera gamma dell'esperienza morale. I minima moralia implicano la trasformazione di alcune ragioni relative all'agente in ragioni neutrali, ma lasciano spazio a una larga fioritura di varietà e diversità. Così, sembra debbano esservi principi della ragione pratica che ci consentano di tener conto di valori che noi non condividiamo ma la cui forza per altri siamo tenuti a riconoscere. È naturalmente un compito terribilmente difficile convivere con una pluralità di ragioni e disporre di un metodo che ci consenta di agire e scegliere nel mondo. Ma non è detto che un progresso che è possibile sia anche facile; né, ovviamente, che esso sia necessario. Tuttavia, una delle condizioni della sua possibilità risiede nella direzione del pluralismo che sia in tensione con le tendenze alla convergenza. Anzi, si potrebbe sostenere che un progresso in etica è reso possibile esattamente dal fatto che resti aperta la tensione, e il dialogo, fra le ragioni della convergenza e le ragioni della pluralità. Forse, bisogna imparare a prendere sul serio l'inevitabilità di entrambi i tipi di ragioni. L'idea è che vi sia qualcosa come un equilibrio riflessivo - e provvisorio - fra i due tipi di ragioni. In ogni caso, vi è in questo modo di affrontare l'intera, difficile, questione qualcosa come l'eco del recente passato (europeo) del progetto dell'Illuminismo. Ha scritto Kant: «Il costante progresso del genere umano verso il meglio è possibile; perché è un dovere dell'uomo agire in questo senso nella serie indefinita delle generazioni e in tutto l'ambito dei rapporti sociali della nostra terra». Versione provvisoria non rivista dall'autore. Lapoesia Gi@alj perico e hi parla deve sempre dire, in qualche modo, il luogo da cui parla. lo parlo da un luogo in qualche modo singolare, e cioè dal luogo della poesia. Il titolo di questo mio intervento è, se volete, provocatorio: la poesia è il pericolo. Qual è il pericolo? Se ci richiamiamo al titolo di questo incontro, un titolo duplice, Physis, nome greco, per dire realtà per intero, e Abitare la Terra, ci troviamo di fronte a due parole che i poeti adoperano spesso. C'è anzi un poeta, come tutti sappiamo, Holderlin, che ha scritto due versi che fanno per noi: «Pieno di meriti, ma poeticamente abita l'uomo su questa terra». Questi versi di Holderlin hanno dato lo spunto anche ad un grande filosofo, Martin Heidegger, per scrivere un saggio straordinario. Quelle poche semplici cose che vi dirò, non sono ispirate se non da un saggio di Heidegger, da cui sviluppano alcuni pensieri. La questione suprema dell'uomo sembra a Holderlin quella dell'abitare la terra e, in particolare, abitarla poeticamente? Se parliamo di Physis, parliamo della realtà per intero. C'è un'antica sentenza greca che diceva: «Meleto to pan», prenditi cura, abbi cura della realtà, di ciò che è nel suo intero. Abitare la terra, essere al mondo, è la prima esperienza, l'esperienza originaria che ciascuno di noi fa, abitare appunto su questa terra e non altrove. La natura è conosciuta dai filosofi, dagli scienziati e anche dai poeti. La conoscenza che i poeti hanno della natura forse è diversa, o non è solo la natura come oggetto di conoscenza nel dominio, nella rappresentazione, nel progetto del soggetto. Curare, preoccuparsi dell'ente per intero è quindi preoccuparsi, per un poeta, del destino, del rapporto tra uomo e natura. Un destino che è comune. Il rapporto uomonatura è, per un poeta, costituito da due termini che sono indissociabili. Il destino dell'uomo è il destino della natura e viceversa. Ma come dice un antico filosofo greco: «La natura ama nascondersi». Il nascondersi della natura è nel suo stesso rivelarsi. Rivelarsi e nascondersi sono, per così dire, un movimento unico.· Questo pensiero della natura che chiameremo quindi Physis, realtà per intero, natura fisica, vivente e umana, è un pensiero della differenza tra ciò che ci appare, ci si rivela, viene alla presenza, e ciò che noi rappresentiamo e progettiamo. L'uomo vive su questa 'terra pieno di meriti, dice Holderlin. E il suo coltivare, il suo costruire, il suo progettare, insomma: le opere e i giorni, le istituzioni, le attività dell'uomo. Ma il pensiero della differenza è insieme pensiero della appartenenza, è un pensiero che pensa la realtà per intero, non più e non solo nei termini del dominio sulla natura. Non possiamo non abitare questa terra, ma possiamo non riconoscere la nostra appartenenza ad essa. Possiamo abitare questa terra contrapponendoci alla Physis, pensando ed agendo come dominatori, secondo la famosa frase di Descartes «Maitres et possesseurs» della natura. Non come abitanti quindi, ma come dominatori. Cosa vuol dire allora per un poeta, per un poeta come Holderlin, abitare la terra? Vuol dire appartenere a ciò che si abita, appartenere a ciò che ci appartiene. Ciò che si abita ci è dato, non è solo costruito. Abitare la terra è quindi appartenere a ciò in cui si abita, appartenere a ciò che crediamo e vogliamo ci appartenga. Custodire, proteggere, avere cura, salvaguardare ciò a cui apparteniamo e che ci appartiene, nella verità (e forse un senso di verità è appunto questo custodire e proteggere). Infine, abitare la terra, per un poeta, vuol dire anche preservare la terra, in un certo senso consegnarla al futuro. È una domanda che ci facciamo spesso. Qual è, quale sarà il futuro della terra? Certo, l'uomo è pieno di meriti. La sua storia è la storia delle sue costruzioni. Ma il senso, e direi anche il fine, è quello per cui abitare la terra è più originario e più profondo, nella nostra esperienza di essere al mondo, del costruire. Noi costruiamo se comprendiamo il nostro abitare la terra. Se non comprendiamo il nostro abitare la terra, noi costruiamo da dominatori. N on dobbiamo mai dimenticare, credo, che viviamo nell'epoca della tecnica. Non possiamo dire in poche parole che cos'è la tecnica, l'essenza della tecnica. Sentiamo però che nell'epoca della tecnica viviamo un pericolo, anzi, forse, il pericolo che riguarda appunto l'abitare la terra. Nell'epoca della tecnica siamo nel pericolo della possibilità reale della distruzione della terra, quindi, di quella comunità di destino a cui apparteni~mo. Nell'epoca della tecnica si pone il problema, forse per la prima volta, del rapporto fra scienza e tecnica, non solo nel senso di conoscenza e azione, teoria e pratica, ma nel senso che la tecnica porta la scienza al suo limite, pone alla scienza della Physis, quindi anche del Bios, il problema del limite della scienza. La scienza non ha limite, nel senso che non si possono porre limiti alla conoscenza dell'uomo, ma l'epoca della tecnica pone alla scienza il problema del suo limite, cioè della sua responsabilità per quanto riguarda l'abitare la terra. Continuamente ci interroghiamo sulla responsabilità della scienza. lo non credo, che si possa dedurre dalla scienza una morale, un'etica, una politica, un'ideologia, cioè non credo che il limite della scienza sia esterno alla scienza. Il limite della scienza è la responsabilità della scienza di fronte a se stessa. La responsabilità della scienza diventa oggi, nell'epoca della tecnica, per la prima volta, la responsabilità dell'abitare la terra. ·L'abitare la terra e la comunità di destino di uomo e natura sono la responsabilità, il limite della scienza. La tecnica, di fronte alla scienza, non è soltanto l'applicazione pratica della scienza. Non mi sembra questo. Mi sembra che il problema della tecnica nella sua essenza e non nel suo aspetto solo strumentale o «umanistico» ponga oggi alla scienza il problema del limite. Il cosiddetto progresso tecnico è fondato sul concetto di illimitato, indefinito, indifferenziato. La terra come riserva, sfruttamento indefinito, calcolo, 1mp1ego, utilizzabilità, dominio. La scienza, di fronte alla tecnica, non è la responsabilità della teoria di fronte alla pratica, ma è la responsabilità di fronte alla finitezza, al limite, al niente. Credo che le questioni e le domande che forse dal luogo della poesia si fanno alla scienza dell'uomo e della natura, siano tre: il problema del limite'; della finitezza e della mortalità; il problema del niente, un problema filosofico
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