Alfabeta - anno IX - n. 92 - gennaio 1987

menti, Enzo Tiezzi; gli atti saranno pronti nel febbraio 1987, per cura della Federazione Università Verdi che ha organizzato il convegno). Il punto di vista di questo grande pensatore e scienziato contemporaneo consente di criticare la prospettiva di una sintesi teorica delle due culture, sia che la si interpreti nel senso di una sostituzione dell'immaginario delle scienze biologiche a quello delle scienze fisiche, sia che essa venga al contrario tentata come reintegrazione della fenomenologia del vivente in una nuova concezione della legalità chimico-fisica. Un esempio particolarmente radicale di un approccio del primo tipo è rappresentato dalle teorie di Fritjof Capra (approccio riscontrabile in parte anche nell'intervento di James Lovelock, di cui presentiamo qui un estratto): il nuovo paradigma consente di considerare la materia come se fosse «viva», di attribuirle le stesse proprietà e gli stessi comportamenti che riconosciamo al mondo vivente; vista con gli occhi dell'eternità, la distinzione fra l'universo della necessità e l'universo che prevede la novità, che contiene la funzione creatrice del caso, non ha più ragione di esistere: tutte le sequenze di eventi diventano stocastiche. Ma, contro questa prospettiva, Bateson difende la specificità di un discorso scientifico che non può confondersi con l'esperienza del mistico, dell'infinito, che si fonda necessariamente sull'esperienza del limite. L a nuova immagine del cosmo non più come meccanismo perfetto, regolato da leggi semplici e universali, ma semmai come «motore» che procede per esplosioni, catastrofi, adattamenti; i recenti sviluppi delle scienze della natura e dell'uomo; le nuove concezioni e t nuovi paradigmi cui è approdata la riflessione scientifica ed epistemologica contemporanea, hanno implicazioni - lo abbiamo sentito al convegno Physis - Abitare la Terra - che non riguardano soltanto gli scienziati, gli specialisti, i ricercatori, ma tutti noi: il nostro modo di concepire il rapporto col mondo, con la natura, con l'ambiente. Per cogliere il senso profondo, del convegno, occorre mettere in relazione le due espressioni che ne compongono il titolo: Physis e Abitare la Terra. Nel loro rapporto, infatti, è implicita la domanda: in che modo e per quali vie la «scienza della physis» può aiutarci ad affrontare il problema cruciale di «come abitare la Terra»?In che modo può aiutarci a ritrovare un rapporto con la vita che non sia di pura e semplice manipolazione, ma alluda invece alla nostra appartenenza alla natura? a quell'abitare «poeticamente», per dirla con Holderlin («Pieno di meriti, ma poeticamente I abita l'uomo su questa terra»), dal quale l'espressione era stata tratta? Ormai la ferita, la lesione che la società umana e lo sviluppo tecnologico hanno inferto alla vita, alla natura, ali'ambiente, appaiono così profonde da risultare quasi insanabili. E le forze che inducono nell'uomo questo comportamento distruttivo sembrano così inestricabilmente legate alla più intima natura della specie, che nessun aggiustamento pare più possibile, nessuna scelta semplicemente «razionalizzatrice» sembra adeguata a salvare il salvabile, a interrompere la spirale... Bateson non è tuttavia meno lontano dalla prospettiva di una ragione scientifica unificata nei suoi principi, arricchita di temi e contenuti provenienti da altre modalità della conoscenza, di una riunificazione fra le due culture intesa come «riappropriazione» dell'immaginario del vivente da parte della fisica; prospettiva che egli critica in nome dell'autonomo valore euristico ed epistemologico di altri linguaggi: l'arte, la religione, la poesia. La barriera fra la «creatura» e il «pleroma» (termini che Bateson riprende da Jung per definire la differenza fra mondo del vivente e mondo fisico) non è di tipo sostanzialistico, non è contrapposizione di essenze, e tuttavia mantiene la sua ragione d'essere nell'esistenza di diversi tipi di livelli logici immanenti ai fenomeni: la scienza non si interroga sull'essenza del reale, sul «territorio», si occupa di «mappe», del mondo limitato delle relazioni di senso, delle differenze che producono significato; l'interrogazione sul territorio, il compito di enunciare le metafore che «sono dette in verità» spetta ad altri linguaggi. Al dualismo cartesiano Bateson non contrappone una sintesi monistica, ma una visione dualistica di tipo nuovo, analoga a quella che Miche! Serres esprime con la sua immagine del «Passaggio a Nord-Ovest»: il passaggio non è sintesi, ricerca di un nuovo paradigma unitario, ma delimitazione della dimensione dello scarto, dell'apertura che si delinea fra tutto ciò che non p1:Jòessere detto nel linguaggio delle scienze «pure e dure» e tutto ciò che non può essere detto nel linguaggio delle scienze del vivente. 11 richiamo a Bateson, e all'immagine del mondo mentale come un mondo costituito da mappe di mappe, in una regressione infinita che non implica mai asserzioni sul territorio, impone di accennare alla prospettiva radicalmente «costruttivista» di cui Mauro Ceruti si è fatto portavoce (non è stato possibile avere qui la sua relazione, ma vedi anche l'intervento «parigino» di Aldo Gargani). Secondo Ceruti, il problema dell'invarianza, di uno «sfondo» di stabilità strutturale che è condizione indispensabile per la percezione di mutamenti in qualsiasi ambito fenomenico, non deve più essere colto in termini di sostanza e necessità, ma in termini di scelte operative e di opportunità. Lo sfondo non è dell'ordine del territorio, ma dell'ordine della mappa, non è dato ma costruito: «la necessità si costruisce sempre, è sempre a posteriori». La nozione di legge naturale abbandona il dominio assertivo della necessità, del «solo questo è possibile», e si ripresenta come «vincolo», semplice riconoscimento che «non tutto è possibile». Ciò dischiude un campo assai vasto di possibilità operative ad un soggetto della conoscenza scientifica che, mentre deve rinunciare alla sua «trascendenza», all'illusione di una visione dall'esterno dei sistemi osservati, viene reintegrato nelle proprie descrizioni con tutti i suoi elementi differenziali. È così affermata la sostanziale «idiosincraticità» di ogni conoscenza: «Il soggetto, l'osservatore reintegrato nelle sue proprie descrizioni irrompe nel sapere scientifico e filosofico contemporaneo [... ] non quale limitazione di un punto di vista assç>luto,che rimarrebbe con ciò operante come ideale regolativo, ma quale riconoscimento operativo dell'irriducibile pluralità dei punti di vista costitutivi di ogni universo cognitivo». (M. Ceruti, Il vincolo e la possibilità, Milano, Feltrinelli, 1986, p. 32). Ogni prospettiva «sintetica» è fuori discussione, non solo quella di una riunificazione delle due culture in un unico paradigma evolutivo, ma anche l'idea di una omogeneizzazione dei singoli punti di vista disciplinari, di scuola, individuali. All'idea di sintesi si sostituisce la nozione di complementarità, intesa come strategia costruttiva degli universi di discorso. Questo percorso volutamente «tendenzioso» fra i materiali di Abitare la Terra mi consente di concludere attribuendo all'intervento di Salvatore Veca (Esiste progresso in etica?) un significato non meramente tangenziale ai temi di fondo del convegno. Veca ha risposto affermativamente al proprio quesito, specificando tre condizioni: 1. l'approfondimento del grado di «impersonalità» del nostro punto di vista; 2. l'estensione del tipo di esseri inclusi nella nostra visione morale; 3. una migliore comprensi~ne AbitarelaTerra È indispensabile una vera e propria svolta etica e culturale, che imponga la rinuncia e l'abbandono dei nostri impulsi di possesso e di dominio sul mondo: una svolta e una rinuncia che mettano in gioco tutte le nostre risorse intellettuali e morali. Ma in che consiste questa svolta? E cosa ci ha insegnato questo convegno? Anche Physis - Abitare la Terra ha fatto l'esperienza del disincanto, del dubbio, della domanda; ci ha insegnato a rinunciare al mito di una èertezza assoluta, di una conoscenza universale, definitiva, e a tollerare invece l'ambiguità, l'idea di un margine d'incertezza e di incompletezza del nostro conoscere. Accettando concetti come quelli di disordine, rischio, «catastrofe», irreversibilità del tempo, entropia, sembra che il pensiero scientifico voglia riconoscere il limite e la finitezza costitutivi del nostro processo conoscitivo e dell'universo che ci sta di fronte. La tradizione culturale occidentale ci ha abituato da secoli a pensare a ciò che è finito e limitato come a qualcosa di imperfetto, come a un disvalore. Ci ha insegnato invece a privilegiare come valore positivo ciò che è infinito e illimitato: lo Spirito, la Coscienza, il Progresso, lo Sviluppo, l'accumulazione del sapere e del potere. Basti pensare a Hegel. Un infinito che ammettesse di fronte a sé un finito parimenti reale, «dotato della stessa dignità di sussistenza e indipendenza», sarebbe soltanto un «particolare» accanto a un altro «particolare»: dunque, anch'esso finito! La verità - per Hegel - è che «solo l'infinito è reale»; «solo l'infinito è l'affermativo». Il finito, al contrario, •«èpuramente ideale», è sempre «superato». La natura - ciò che può morire, che è privo di coscienza, che è finito, limitato, imperfetto - esiste solo come strumento, tappa, ostacolo provviStefano Mecatti denziale, affinché l'infinito processo della Storia, della Coscienza, dello Spirito possa superare questo «limite oggettivo», riaffermando la propria realtà e unicità (anche al congresso fiorentino, del resto, mi è sembrato riemergesse qua e là, sotto sembianze neo-evolutive e neo-razionalistiche, una simile concezione del limite). Ma non è sempre stato così. Anzi, ali'origine della nostra civiltà, presso i Greci, limite e finito erano sinonimi di equilibrio, di misura. Il cosmo - la dimora dell'uomo - era perfetto, proprio perché finito. L'infinito, invece, era assimilato a qualcosa di informe e di caotico: rinviava alla fusione con la natura e con l'essere, ali'abbandono al flusso della vita. Tutt'altro dall'infinito percorso lineare del progresso e dello sviluppo; dall'infinita accumulazione di Coscienza e di Storia. Ogni sforzo era teso a mantenere un equilibrio tra la ragione e ciò che le sfugge, tra il limite e l'illimitato, tra il finito e l'infinito; a convivere con la ragione e con il suo contrario, col pericolo che rinasce incessantemente ogni volta che lo spazio del dubbio e della domanda viene canoellato, ogni volta che la consapevolezza del limite viene rimossa. Oggi dovremmo aver imparato che il vero pericolo non sta nel rischio in quanto rischio, nella mancanza di protezione in quanto mancanza, ma nel dimenticare questo rischio e questa mancanza; in breve, nella inadeguatezza della nostra cultura, che non sa pensare in modo essenziale la radicalità della sfida imposta alla vita e alla natura dall'epoca della tecnica. Mi sembra che l'incontro tra il messaggio della «nuova scienza» e quello del pensiero meditante o della poesia possa avvenire proprio sul piano etico: sul terreno di un'etica e di una cultura del limite e del finito. Senza di esse, come potremmo trovare la forza di dominare la drammatica contraddizione tra lo sviluppo tecnologico - in sé illimitato - e la vita, che è finita? Come potremo accettare e sopportare le rinunce dolorose che ci verranno imposte dalla svolta necessaria a ristabilire un equilibrio tra la tecnica (da cui non possiamo liberarci, perché è il nostro «destino») e la natura? Mi è capitato spesso di assistere a dibattiti sul destino da riservare a una porzione di ambiente naturale rimasto per caso intatto. L'incontro o lo scontro finiva per risolversi, sempre e soltanto, in una discussione sui diversi modi di intendere la sua valorizzazione: chi sosteneva l'industrializzazione integrale o, peggio, la speculazione edilizia; chi la costruzione di una serie di attrezzature per lo sport, il tempo libero, le attività ricreative; chi, infine, la sua integrale conservazione, poiché solo in tal modo avrebbe potuto mantenere il suo valore per la ricerca scientifica, per la difesa della salute o per lo svago, procurando, per di più, un vantaggio economico per la popolazione. Tutti parlavano, in ogni caso, di valorizzazione dell'ambiente. Ma l'uso indifferenziato del termine «valorizzazione» mi sembra la spia della inadeguatezza della nostra cultura rispetto alla radicalità del problema. Pensare di poter valorizzare un insieme vivente - la vita, gli altri esseri - significa comunque volerlo ricondurre alla nostra logica, al nostro sistema di valori. Così, mentre noi esercitiamo sulla vita e sulla natura un dominio tale da poterne decretare in ogni istante la fine e l'annientamento, non siamo più neanche in grado di domandarci che cosa è la vita, «che cosa è che una cosa è». Sappiamo solo rispondere, dicendo quanto essa vale. E se invece, proprio per salvadella natura pluralista delle nostre teorie e dell'informazione pertinente in etica. Alla luce del dibattito epistemologico che abbiamo qui delineato, questi punti potrebbero essere «tradotti» ai fini di un contributo delle scienze della complessità ai grandi problemi etici della nostra epoca. Approfondire il grado di impersonalità del nostro punto di vista potrebbe voler dire - seguendo Bateson e la sua critica del soggetto cosciente e della razionalità finalizzata - che ciò che conta non sono gli «ego» cartesiani, i soggetti portatori di progetti di dominio sul mondo, ma i rapporti: l'essere morale non riguarda le persone intese come singole identità, ma l'essere della relazione. Estendere il tipo di esseri inclusi nella nostra visione morale comporterebbe l'abbandono di un punto di vista antropocentrico: l'uomo è responsabile di un pianeta che è «vivo» (Lovelock) non perché «ospita» la vita ma perché la vita è parte integrante della sua organizzazione complessa, siamo cioè responsabili in quanto implicati in una relazione come «parte di» (Scalia). Infine l'invito a una migliore comprensione della natura pluralista delle nostre teorie e dell'informazione pertinente in etica potrebbe essere interpretato (nel senso di Berman) come invito a imparare a convivere con la differenza, a smettere di chiederci quale teoria possa funzionare come visione globale del mondo, interrogandoci piuttosto sul nostro bisogno di spiegazioni globa_li. guardare la vita, l'ambiente, la natura, che sono il f andamento della nostra sopravvivenza, dovessimo rinunciare una volta per tutte a dar loro valore? Dovessimo accettare una volta per tutte l'idea che ciò che ci circonda e coabita con noi su questa terra non deve essere salvaguardato e custodito solamente per utilizzarlo e manipolarlo secondo i nostri fini e i nostri interessi ma, al contrario, proprio perché gli riconosciamo un senso, indipendentemente dal suo «valore» e dall'uso che possiamo farne? Proprio perché non può e non deve avere nessun valore per noi? Se, insomma, al contrario che per le macchine da noi prodotte (il cui senso sta tutto nel valore e nell'uso che ne facciamo), agli enti che abitano la terra ancor prima e indipendentemente da noi, dovessimo riconoscere una differenza radicale rispetto al nostro sistema di valori? Non è forse solo riconoscendone l'irriducibile diversità e mantenendo questa distanza che possiamo continuare a farli sussistere accanto a noi? Il limite che dobbiamo imparare ad accettare non è dunque dovuto soltanto alla esauribilità della vita e della natura, alla loro finitezza, ma a qualcosa di più essenziale, al fatto, cioè, che. esse non possono essere valorizzate, che non possono essere sottoposte ai nostri valori senza essere annientate e distrutte, poiché non hanno valore: non sono macchina o Tecnica. Troveremo la forza di dire che un albero deve esseresalvaguardato non perché ci serve, ma solo perché (usando il nostro inadeguato linguaggio) ha «diritto» ad essere lasciato là dove è, mentre noi abbiamo il «dovere» di lasciarlo essere, senza continuare oltre ogni limite a disporne come di un oggetto? Forse, in questa semplice domanda è contenuta la «sfida» che dobbiamo raccogliere.

RkJQdWJsaXNoZXIy MTExMDY2NQ==