Alfabeta - anno IX - n. 92 - gennaio 1987

Sommario Carlo Formenti Permancarela sintesi pagine 1-11 Stefano Mecatti Abitarela terra pagina II Ervin Laszlo L'ordinedel cambiamento pagine III-IV Morris Berman La naturanon è un paradigma pagina V James Lovelock L'ipotesidi Gaia pagina VII Salvatore Veca Esisteun progressoin etica? pagine VIII-IX Gianni Scalia La poesiaè il pericolo pagine IX-X Stéphane Moses Abitareil tempo pagine X-XI Ilya Prigogine L'universo,un sistema dinamicoinstabile pagine XII-XIII Aldo G. Gargani Le procedurecostruttivedel sapere pagine XIV-XV Marco Casonato L'imma.ginariodeUacomplessità pagina XV Supplementoad Alfabeta n. 92 • Gennaio 1987 Con questa terza puntata della serie intitolata Centri del dibattito e dedicata ai materiali dei convegni (le precedenti sono apparse nei numeri 80 e 85, gennaio e giugno 1986), «Alfabeta» offre un nuovo contributo alla discussione sui temi delle scienze della complessità (cfr gli articoli di Carlo Formenti e Gaspare Polizzi nel numero 90, novembre 1986)e dell'ecologia (vedi l'inserto Il pianeta irritato, pubblicato nel numero 82, marzo 1986). Lo scritto di Aldo Gargani proviene dal colloquio parigino L'immaginaire de la Complexité (di cui riferisce Marco Casonato ,, nella sua «scheda»); tutti gli altri materiali si riferiscono al convegno internazionale Physis - Abitare la Terra, che si è tenuto a Firenze nei giorni 27-31 ottobre 1986, nell'ambito del ciclo di manifestazioni su «Firenze capitale europea della cultura». Gli atti saranno pubblicati per cura dell'Editore Feltrinelli. Ringraziamo l'Assessorato alla Cultura del Comune di Firenze che ci ha consentito di pubblicare ampi stralci di alcune relazioni (si tratta, nella maggior parte dei casi, di versioni provvisorie, non riviste dagli autori). Permancarelasintesi I n un recente numero di «Alfabeta» (novembre 1986), parafrasavo Isabelle Stengers affermando: «la complessità non è un paradigma». Secondo Stengers, infatti, la nozione di paradigma esprime la possibilità di formulare un modello «semplice» che rappresenti in modo adeguato «il gioco tra concetti e possibilità di sperimentazioni», e che apra così la via di accesso a situazioni o problemi «complicati». Si tratta cioè di un concetto che, pur accettando il carattere finito delle capacità operative del nostro intelletto, non rinuncia a metterle in relazione con l'esistenza di un punto di vista infinito. lsabelle Stengers ritiene invece che le scienze della complessità abbiano definitivamente spezzato questo rapporto implicito fra i punti di vista finito e infinito, che nella loro modalità di formalizzazione dei fenomeni sia esclusa a priori la possibilità di un punto di vista infinito. Il punto è ribadito con forza nell'ultima parte dell'intervento di Prigogine che presentiamo in questo inserto. Parlando dell'evoluzione della dinamica dalle sue origini classiche allo stato attuale della disciplina, Prigogine mette in luce come sia progressivamente emersa la consapevolezza del carattere necessariamente statistico, probabilistico, della descrizione dei sistemi: l'universo non è un sistema integrabile ma un sistema dinamico instabile, e nei sistemi instabili «ogni punto può andare in tutte le direzioni». lo non posso conoscere un punto, «conosco solo una regione, e questa regione contiene traiettorie che vanno in tutti i sensi». Lo scienziato possiede solo un'informazione finita, conosce solo una parte dell'universo «perché è implicato in questo universo e perché questo universo è instabile». Inoltre, questa descrizione probabilistica dei sistemi non è un'approssimazione della certezza, come riteneva la scienza classica, ma è piuttosto la certezza che costituisce una «idealizzazione erronea» di una situazione che è fondamentalmente instabile. Come spiega Stefano Mecatti nel suo articolo di presentazione di Physis - Abitare la Terra, il tema di fondo di questo convegno era appunto l'emergere della coscienza storica della natura costitutivamente limitata della conoscenza scientifica. Eppure ... eppure non si può nascondere l'esistenza di un movimento in controcorrente che, a mio parere, si alimenta proprio dell'ambiguità concettuale implicita nella definizione delle scienze della complessità come «nuovo paradigma», e che lascia balenare il possibile ricostituirsi di una visione deterministica (sia pure su basi radicalmente diverse da quelle della scienza classica). Sarebbe interessante riflettere sul fatto che la nozione di paradigma è nata in ambito storico, vale a dire, in un contesto concettuale e metodologico che a sua volta ha dato un potente contributo al punto di vista determinista della moCarlo Formenti derna cultura occidentale (in merito, la relazione di Stéphane Moses offre importanti spunti critici), tuttavia in questa sede preferisco concentrare l'attenzione su un altro aspetto che mi sembra svolgere un ruolo importante in controtendenza, vorrei cioè mettere in luce la forte tensione verso l'unificazione delle scienze della complessità in una «teoria generale dell'evoluzione». Un accenno a questa tendenza «monista» è contenuto nella stessa relazione di Prigogine, nel punto in cui l'autore, dopo aver riconosciuto il proprio debito nei confronti della filosofia evoluzionista di Bergson, afferma che sono oggi mature le condizioni per superare la visione dualistica della realtà del filosofo francese. Ma il tema è particolarmente evidente nella relazione introduttiva di Ervin Laszlo (che presentiamo qui in versione quasi completa). Secondo Laszlo, lo sviluppo delle scienze della complessità ha consentito di liberare il paradigma evoluzionistico dal campo limitato della biologia e di estenderlo sia allo studio dei fenomeni fisici (evoluzione del cosmo), sia allo studio dei fenomeni culturali (evoluzione delle società). Questa «teoria generale dell'evoluzione» riuscirebbe finalmente a dare risposta all'interrogativo metafisico che accompagna la storia della cultura occidentale fin dalle sue origini: come può esistere un significato, un senso delle cose, in un mondo in cui tutto è in movimento, in cui tutto «scorre» nello spazio e nel tempo? La ricerca del!'«Uno», di una realtà superiore semplice e unitaria celata dietro le apparenze fenomeniche, dopo aver ricevuto la risposta che il mutamento è nulla, illusione, oppure che esso è tutto (oscillazione incessante che percorre la nostra cultura fin dalle origini presocratiche), intravvede ora una soluzione: il processo di de-sastanzializzazione della materia operato dalla fisica contemporanea ci consente di affermare che Platone ha colto nel segno affermando che l'Uno non è sostanza, bensì forma. Le scienze della complessità ci obbligano tuttavia ad aggiungere: l'Uno non è forma dell'Essere, ma del Divenire, è «l'invarianza nell'evoluzione della complessità nella natura fisica, nel mondo vivente e nel mondo degli uomini» (sul contenuto della nozione di invarianza vedi le parti conclusive dell'intervento di Laszlo). M i pare che il discorso di Laszlo sull'invarianza presenti notevoli consonanze con il senso che René Thc,m attribuisce ai modelli elaborati dalla matematica delle catastrofi, definendoli «archetipi del mutamento»; se questo è vero risulterebbe evidente il nuovo carattere deterministico di questo approccio (cfr. in proposito la nota di presentazione del convegno parigino sull'immaginario della complessità, in cui si accenna alle critiche di Thom alla nuova epistemologia). Non sarebbero dunque privi di fondamento gli interrogativi sollevati nella relazione di Morris Berman: in che misura la nuova visione sistemico-cibernetica del mondo rappresenta un'effettiva soluzione di continuità nei confronti del vecchio paradigma meccanicista? È sufficiente cambiare metafora, passare dalla macchina al computer, oppure questo mondo «disincarnato», questo universo costruito sul modello del software, dell'organizzazione immateriale di informazioni, piuttosto che su quello degli ingranaggi, dell'hardware, non è poi così diverso neli' esaltare il dominio della ragione scientifica sul mondo naturale? Tuttavia, fra gli interrogativi di Berman, quello che mi sembra il più interessante e pertinente è questo: la vera opportunità che ci offre la crisi del paradigma meccanicista non è forse quella di rinunciare a inventare un nuovo paradigma, di abbandonare la ricerca - sotto qualsia~; {0rma - dell'Uno, imparando a convivere con l'ambiguità, con la differenza? Che la vera grande trasformazione epistemologica della nostra epoca debba consistere nell'opporre al dualismo cartesiano un dualismo di tipo nuovo piuttosto che una grande «sintesi» evoluzionista, è il convincimento espresso da alcuni interventi in un recente convegno sull'opera di Gregory Bateson ( Gregory Bateson, il maestro dell'ecologia della mente, Bologna, 22 novembre 1986; sono intervenuti, fra gli altri, Gianluca Bocchi, Marcello Cini, Carlo For-

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