un alto tasso di immaginario tecnologico. Si può forse azzardare una composizione organica del gadget. E tutti gli spot diventano trasparenti se osservati in questo modo. Se la citazione fantascientifica è talvolta esplicita o, in altri casi, mediata (elettrodomestici come robot), il filo rosso che lega biscottini, sederini arrossati, infissi per finestre, il bel culetto di una pinup e le cronache del futuro, sarà meno oscuro, focalizzando questo nodo tra sapere, immaginario, e sociale che il mezzo elettronico coagula. La fantascienza se giudicata solo come letteratura è genuino futurismo americano (già perché italiani e russi sì e americani no?), ma nell'orizzonte di un'antropologia telematica tutta da fondare, la sf ha confini sfumati, è folklore postmoderno. Ora la catena assume un senso, i giovani, il rock, la moda, lo spot televisivo. I punti cardinali della videomusic, universo tascabile ad alta densità. I videogrammi del clip condensano non solo il racL'itinerariodi Pistoletto Alberto Boatto Cf è stata una stagione potentemente creativa nelle vicende dell'arte contemporanea e verso questo nodo rappresentato dagli anni sessanta non cessa di volgersi la nostra attenzione. Ciò che muoveva il fronte degli artisti era il tentativo di oltrepassare la separatezza dell'opera, del segno artistico, per comprometterli dentro la realtà quotidiana, fino a combaciare e a dissolversi in essa. È stato un miraggio o un'utopia, ma che si sono rivelati fortemente produttivi. In questa prospettiva, il contributo molto complesso di Pistoletto è risultato- determinante. Tutto nell'artista torinese si è giocato nello spazio inquietante, conoscitivo e narcisistico ad un tempo, che collega, in una sorta di triangolazione, l'artista, lo specchio e la tela, in una volontà di autorappresentazione del primo sulla ricettiva superficie, mediante l'ausilio del familiare strumento ottico. Culturalmente per Pistoletto ciò è rappresentato dallo spazio privo di aria di Bacon; ma ~ solo attraversandolo che Pistoletto è diventato Pistoletto. Lo ha fatto operando una sorta di contrazione ed assieme di allargamento: non abolendo ma facendo coincidere, da una parte, la tela con lo specchio e, dall'altra, affinché la prima operazione risultasse efficace, introducendo sulla tela specchiante ciò che possiamo chiamare o il terzo o l'estraneo o il passato o la memoria ma anche la presenza morta, nella sembianza concretissima di un ricalco fotografico. Non importa poi se questo ricalco raffiguri un uomo, una donna o una lampadina elettrica: resta che è solo nei confronti di questo ultimo, autentico perno dell'opera, che può ruotare l'esistenza, la scena reale che viene a riflettersi sul quadrospecchio, catturata da questa superficie.· Ecco che lo spazio e il tempo reali entrano a far parte dell'opera; restano imbrigliati all'interno delle sue maglie. È questa la grande invenzione di Pistoletto, di una ricchezza che sfugge ad ogni facile classificazione: oggettiva come un assemblage new dada, fotografica come un quadro pop, esistenziale come l'universo di Bacon, mentale come era stata la metafisica italiana e, come sarà, alcuni anni immediataconto, ma anche l'intera storia della cultura rock. Quello che elidono veramente è la storia. Il sesso reclamato a gran voce sulle due sponde dell'oceano, trova il suo spazio nel soft-core (si pensi alle girls dei Duran Duran), le visioni, i viaggi non necessitano di LSD, sono alla portata di tutti e meno tossici; il tv-pop vérité ci porta a spasso negli anni eroici, i wild boys dei Duran Duran citano con •franchezza la parentela con il presente a venire. Niente si salva dalla riesumazione. Il clip, va ribadito, trae la sua forza dal fatto di essere un evento televisivo, possibile solo dopo che musica e giovani sono stati liquidati dalla tecnologia. Il Live Aid è l'esempio più clamoroso: un miliardo di spettatori, ore e ore di musica, centomila (o di più, è lo stesso) comparse. «Nel mondo dominato dal mercato non solo la musica è merce ma anche il pubblico» (Carrera). Si noti che il Live Aid è stato preceduto da due iniziative televisive in formato ridotto: la falange americana degli USA for Africa e i bravi ragazzi del Band Aid. Musica sciatta, moscia, al contrario del disco realizzato da Bob Wyatt & Henry Cow a sostegno dei minatori inglesi in sciopero. Risultato, top audience da un lato, figura da soliti ignoti dall'altro. Oggi Wyatt ha prodotto un video per il brano composto contro l'apartheid. E il clip beffardo non risparmia nessuno. Le sue opere migliori si avvalgono di un plot narrativo degno della cultura pop più «trasgressiva», Zappa, ad esempio. Così, passato il buco nero del clip, trent'anni di roçk escono dall'altra parte ridotti a tre minuti. Vertigine, pura, televisiva. Il manicheismo del rock è tradotto in estetica spicciola; i clip sono belli o brutti, banali o di ricerca, e in realtà sono sempre tutto contemporaneamente, perché il clip è uno spot musicale, grazie al quale si vende un'immagine senza sprecare la merce musica che il mercato consuma a mezzo di compilations. E che ci siano o no effetti speciali, che questi siano goffi e ingombranti o raffinati ed essenziali, poco importa. Oltre il cinema, oltre la musica, oltre il mito e il sogno, il clip è la messa a morte dell'immaginazione perché è il circuito vuoto della moda. L'esistenza stessa del clip è un effetto speciale. Grace Jones è la migliore rappresentazione antropomorfica del promovideo. Attrice, modella, cantante di colore (la tradizione innanzitutto), nonostante la documentazione di Helmut Newton è ancora difficile sapere a quale sesso appartenga miss Jones. Slave to the rhythm, uno dei suoi ultimi video, è composto da spot per jeans, auto e brano musicale, anzi, diciamolo pure il Brano, visto che il LP omonimo è costituito da quest'unico pezzo continuamente riproposto a forza di rimissaggi. Stesure diverse, autoremake, per comporre quella che le note di copertina definiscono una biografia... scatole cinesi reversibili. La Jones abita in un futuro attuale, a due passi dalla Los Angeles di Biade RunTradiziondeelnuovo mente dopo, la ricerca visiva. Sembra che Pistoletto sfiori anche troppe direzioni di ricerca ma poi a tutte rimane lontano, separato, autonomo. Il fatto è che, essendo riuscito a trasformare in profondità la nozione della superficie e a rinnovare la funzione dello specchio, egli ha introdotto la conoscenza, la consapevolezza, il tarlo della autocoscienza, non spostate nel tempo bensì istantanee, all'interno dello spazio dell'arte. La mossa seguente si dimostra coerente e quasi obbligata. E tuttavia si presenta come una mossa sdoppiata. Se il quadro specchiante riuniva, in una stretta inseparabile e spettacolare, i poli della conoscenza e della realtà, Pistoletto spezza simile unità e sposta la sua attenzione in direzione sia della conoscenza, del mondo delle idee, che della realtà, della vita medesima. Possiamo dire che viene attratto tanto dagli oggetti che stanno nello spazio, quanto dalle persone che si muovono, vivono nel tempo. È il nuovo periodo dei «plexiglass»e degli «oggetti in meno», assfoine a quello, spostato un po' più avanti nel tempo, della sperimentazione teatrale, attraverso la creazione del gruppo comunitario «Lo Zoo». All'interno di questo gruppo nomade, Pistoletto ha potuto sviluppare un altro aspetto della sua personalità: quello del guru. I «plexiglass» uniscono all'oggetto ordinario l'idea tautologica dell'oggetto medesimo, dimostrando così come esso abiti, non solo lo spazio oggettivo, ma anche lo spazio delfa nostra mente. Gli «oggetti in meno», nella loro eterogeneità stilistica come nella occasionalità dei differenti materiali impiegati, aprono con buon anticipo verso l' «arte povera», in cui si immerge del resto la teatralità fantastica, estemporanea e stracciona dello «Zoo». Nel corso degli anni settanta, fino al passaggio - o alla svolta? - all'attuale lavoro nella scultura, l'artista approfondisce in innumerevoli ambientazioni spazio-temporali, non prive di componenti scopertamente pedagogiche, la questione della conoscenza, attraverso il gioco infinito delle possibili combinazioni che intrecciano tra loro lo spazio, il tempo e la mente dell'uomo. È un itinerario, ad un tempo, lineare e folto di sorprese, che il libro di. Corà ricostruisce per la prima volta nell'intera sua estensione ed approfondisce in tutta la sua ricchezza problematica. Rappresenta una assoluta novità la lettura, che viene fatta, della preistoria di Pistoletto, il passaggio decisivo degli autoritratti di clima baconiano all'invenzione degli specchi. Un'altra novità è l'esame condotto attorno ai «plexiglass». Un libro problematico come questo, che mette sottilmente tutto in questione, apre a sua volta alla discussione. I punti sensibili di essa mi sembrano in particolare due. Primo: la nozione di «metafora pittorica» oltrepassata dallo specchio di Pistoletto. Secondo: l'attuale lavoro di scultura. Per il primo punto, probabilmente è necessario reintrodurre il concetto di «soglia», avanzato già da Argan proprio a proposito di questi specchi. Per il secondo, è ancora l'opacità della «soglia», segnata dai ricalchi fotoStrumento per la tortura del XV I secolo grafici, a consentire la svolta operata da Pistoletto nel mondo della scultura. Bruno Corà Pistoletto Ravenna, Essegi, 1986 pp. 245, lire 30.000 Con illustrazioni a colori e in bianco e nero Art Brut e Jean Dubuffet Lea Vergine D i Jean Dubuffet, senza dubbio uno dei più intensi pittori degli ultimi quaranta anni, acuto e spregiudicato interprete dell'Informale (ma di un Informale che tresca con una figurazione magica e apotropaica), rimane aperta, sino al prossimo marzo, nelle sale della Collezione Peggy Guggenheim, una singolare mostra. Thomas M. Messer e Fred Licht hanno batto arrivare a Palazzo Venier dei Leoni circa settanta opere scelte tra quelle di proprietà della Fondazione Solomon R. Guggenheim, di Pierre Matisse e di altri collezionisti americani. Dubuffett nasce a Le Havre nel 1901 e muore a Parigi nel 1985. Solo nel 1942, dopo essersi interessato di paleografia, etnologia, filosofia, lingue e letterature straniere, ritorna alla pittura che era pur .stata oggetto dei suoi studi giovanili (nel frattempo, per vivere, commercia in vini). Nel 1944 espone alla galleria Drouin di Parigi un gruppo di opere dove i segni son simili alle grafie dei bambini in età prescolare; si parla di Klee. Due anni dopo, sempre da Drouin, espone una serie di tele spalmate di una materia fatta di colla, sabbia e asfalto; si parla di Fautrier. In realtà, Dubuffet adopererà per fini completamente diversi certi caratteri dell'uno e dell'altro artista. Disinteressato com'è alla cultura visiva canonica, eretico rispetto al Surrealismo, preso dalla passione per un segno arcaico ed esorcistico, simbolo ed amuleto al tempo stesso, l'artista francese reclama una pittura - esistenza allo stato brado, dove il divenire sia magmatico e inconcludente ma straordinariamente vivace nell'impasto dei materiali e dei segni. L'arte, per Dubuffet, non è una faccenda sublime, superiore, eccelsa: è un pezzo di antropologia culturale. Non a caso amò, collezionò e battezzò Art Brut tutta quella produzione empatica ed istintuale dovuta alla mano di bambini, alienati, psicopatici, primitivi e di chiunque abbia dipinto o disegnato ignaro della sacralità dell'Arte. Nel 1947, organizzò la prima grande mostra di Art Brut. Ora, a Venezia, accanto alle opere di Dubuffet, sono esposte quaranta opere di quell'Art Brut appartenute all'artista. Esse costituiscono una straordinaria mostra nella mostra. Il livello è quasi sempre eccellente sia che si guardi all'italiano Carlo, all'inglese Magde Gill, al francese Raphael Lonné o alla svizzera Aloise. Quasi tutti internati in ospedali psichiatrici fino alla morte, quasi tutti convinti del carattere medianico delle loro opere: così il manovale Paul End; così Laure che principia a disegnare all'età di ner. «Lo stadio del video ha sostituito lo stadio dello specchio» (Baudrillard), ultima tappa (per ora) della rivoluzione culturale permanente realizzata in Occidente. Solo da simili altezze si possono fecondare le arti stellari. Impuberi, l'olografia sociale del clip e l'olofonia del compact disc tentano già la via dell'amplesso. Si profila una musica ambientale che è quanto di più simile al Grande Padre orwelliano si sia mai realizzato. L'invenzione di More/ per uso quotidiano. Come nel romanzo di Bioy Casares, le macchine conservano l'ologramma del passato, reiterandolo senza fine. Anche le conseguenze sono identiche: chi si sottopone ai raggi della macchina nella storia dell'amico di Borges, si assicura un'immagine eterna, ma nel giro di poco tempo il suo organismo muore. Una volta e per tutte: il clip è zombie e glamour. cinquanta anni; così Adolf Wolfli, guardiano di capre da fanciullo, poi garzone di fattoria, isolato in una cella per circa venti anni. Le tele di Dubuffet, dal 1943al 1984, fanno da riscontro nella loro epopea sarcastica. A volte astratto - si guardi al bellissimoolio su tela del 1957, intitolato Porte au chiendent - a volte figurativo, enfatizza e rifà, nei suoi paesaggi, uomini ed animali, le peculiarità delle rappresentazioni arcaiche. Con la serie di dipinti Corps de Dame, Pierres philosophiques, Tables Paysagées, Texturologies, Topografies, Barbes, Hourloupe, Dubuffet ha ordito un'operazione vasta e sconcertante ancora oggi. L'impiego di materiali è stato variatissimo nel riuso di elementi tratti dai suoi dipinti, tagliuzzati e ricomposti alla concia di materie vegetali quali erbe, foglie, steli, alle paste di cui sopi:a. I personaggi puerili, buffi o crudeli, folla di esseri subumani, deformi, grotteschi sono quasi sempre d'una tristezza comica o di una sessualità contorta. L'andatura delle sue tele è convulsa e febbricitante nella circolazione tumultuosa, infittita ed ossessiva; il tutto, negli ultimi lustri, è sottolineato da una colorazione elementare, per lo più basata sul rosso e sul bleu, sul bianco e sul nero. «La sensazione che il mio quadro mi dà di contenere la realtà (come se per incanto avessi evocato un calore, un palpito, un respiro, così forti da far paura; come se avessi messo in moto un meccanismo pericoloso al fine di creare la vita, senza sapere quando e come) è vera solo per me o colpisce qualsiasi persona che osservi il dipinto?» Così si interrogava Dubuffet in uno scritto del 1959. Il catalogo di Mondadori si apre con un minuetto in cui gli americani si ringraziano tra loro e poi ringraziano gli svizzeri. Bibliografia assente. Peccato! Magari per saperne di più sarebbe stato utile ricordare ai visitatori italiani - visto che in Italia siamo - almeno il volume su Dubuffet uscito per la De Luca di Roma nel 1965e scritto da Lorenza Trucchi, se proprio non si volevano ricordare tutti i saggi di Barilli, Dorfles, Argan e molti altri. Chissà cosa ne avrebbe pensato l'artista accolto a braccia aperte nelle mostre e nelle collezioni italiane! JeanDubuffetet Art Brut Collezione Peggy Guggenheim Venezia, Inverno 1986-1987
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