Paolo Bertoletti Mito e simbolo:gli strumenti della psicologiaanalitica Bari, Dedalo, 1986 pp. 254, lire 20.000 T ra gli aspetti che rendono più singolarmente moderna la psicologia junghiana e che allo stesso tempo tendono a negarle Io status di teoria della psiche (perlomeno se si adotta un'accezione tradizionale, «classica», del termine teoria) è senz'altro la sistematica negazione, che essa esprime complessivamente, di ogni delimitazione, anche solo euristica, dell'oggetto dell'indagine psicologica. E ciò nel senso che nella metapsicologia junghiana - se ve ne è una e se è lecito usare per Jung questo termine - l'inconscio perde quegli attributi che, nella teoria freudiana, lo rendevano ancora possibile oggetto di una indagine sistematica e tendenzialmente esaustiva (e cioè quegli attributi che il Freud machiano gli assegna: una potenziale descrivibilità «economica» a partire dal precipitato fenomenico). L'inconscio della psicologia junghiana tende invece a costituirsi non solo come entità psichica polarmente opposta alla coscienza ma anche come elemento dotato di una autonomia espressiva che rimanda a un'origine e uno sviluppo solo in parte riflessi, e quindi ricostruibili, nell'ontogenesi individuale. È, con tutte le perplessità che essa genera, l'originalità nucleare del pensiero di Jung. Come tale tende a riflettersi nelle varie articolazioni e livelli della concezione junghiana, da quelli più metodologici, clinici, a quelli più squisitamente teoretici. Sul piano metodologico la si trova espressa, per esempio, nella considerevole intuizione (troppo spesso dimenticata nella odierna prassi clinica) che riconduce ogni concezione della vita psichica in primo luogo alla appartenenza di chi la professa a una determinata tipologia psicologica. Tipologia da intendersi non come espressione di individualità inevitabilmente «singolari» ma come elemento di mediazione tra soggettività personale e rispecchiamento di modalità collettive di contatto con i contenuti della psiche. Sul versante speculativo, è il discusso concetto di archetipo, «selettore» tendenzialmente metastorico e metaculturale dei contenuti dell'inconscio, a costituire l'espressione teorica prevalente, nella psicologia junghiana, dell'«autonomia» della psiche, di quella collettiva in primo luogo e di quella individuale di conseguenza. È infatti nel concetto di archetipo, o meglio in ciò che Jung chiama significativamente archetipoin sé, che trovano espressione sia l'idea della rappresentabilità soltan- ~ to parziale della vita psichica, sia .s l'idea, in qualche modo reciproca ~ della precedente, della essenziale ~ inesauribilità dei prodotti psichici, ~ intendendo per essi ciò che va dal- -. le più elementari forme istintuali -9 -::s di comportamento alle più mediai:: ~ te e complesse manifestazioni culClO turali dell'homo sapiens. ~ Orbene, quale può essere il raps: porto dello psicologo, del filosofo ~ e, genericamente, del ricercatore ;g, di oggi_con una concezione così ~ impegnativa e ricca di spunti interpretativi di così singolare modernità come quella junghiana? Mi sia consentito in proposito di aprire una breve parentesi e di soffermarmi a titolo di esempio su uno soltanto di questi spunti: si osservi la notevole analogia che, operata una opportuna traduzione terminologica, si stabilisce tra le problematiche sopra riportate sul concetto di archetipo e quelle che hanno caratterizzato il dibattito filosofico sull'oggetto della fisica quantistica. È un'analogia a mio avviso non casuale: la lunga familiarità dello Jung di Psicologiae alchimia con la personalità del giovane Pauli può avere determinato conseguenze non irrilevanti sugli sviluppi del pensiero junghiano ... Ma torniamo alle possibili scelte dello psicologo o del filosofo militanti. Possono decidere di confrontarsi col complesso della concezione di Jung sviluppando, amplificando e/o eventualmente precisando gli aspetti di un pensiero tendenzialmente multiforme e sistematicamente disordinato o possono, alternativamente, tentare la strada di un'estrazione dal corpus junghiano di elementi, concetti, metodologie singolarmente anticipatori di sviluppi successivi del pensiero non soltanto psicologico. Una posizione, quest'ultima, che nasce dall'esigenza di cauterizzare gli spunti più significativi del pensiero junghiano dal contatto inflazionante con l'intera dottrina, per coglierne in modo più limpido le eventuali risonanze con dimensioni teoriche emergenti da versanti paralleli del pensiero (antropologico, sociologico, scientifico, epistemologico, ecc.) contemporaneo. Sono le due strade prevalenti dello junghismo odierno; entrambe, pur nella loro apparente contraddittorietà, rispecchiano disposizioni di fondo del pensiero junghiano. La prima è coerente con l'atteggiamento dello Jung metodologo, lo Jung, cioè, degli scritti di pratica psicoterapeutica che non esita a «scavalcare» o a relativizzare, nel contatto con l'esperienza clinica, gli elementi stessi della sua dottrina; la seconda, è vicina allo Jung che si fa efficace portatore e sostenitore degli aspetti insieme più innovativi, originali ma anche avventurosi del suo pensiero. D i tali possibili strade interpretative Paolo Bertoletti, nel suo bel libro Mito e simbolo: gli strumenti della psicologia analitica, tende a scegliere la seconda, forse la più ardua perché non accetta la possibilità di «tagli» (impietosi o terapeutici, secondo i punti di vista) sul complesso della concezione junghiana. Di fronte alla kantiana inattingibilità dell'archetipo in sé, Bertoletti sceglie di precisare le proprietà di quei derivati psichici di quest'ultimo che Jung stesso aveva indicato come sue efficaci espressioni «temporali» e quindi, reciprocamente, come indicatori parziali dei contenuti che Jung definiva provocatoriamente «oggettivi» della psiche inconscia. Il mito e il simbolo sono indubbiamente le due fondamentali espressioni psichiche dei contenuti dell'inconscio della psicologia junghiana: al pensiero mitico e alle produzioni simboliche Jung assegna ripetutamente il compito non MauroLa Forgia secondario di trasformare e/o tradurre in forme culturali evolute i contenuti e le «energie» inizialmente disponibili, in forma indifferenziata, nella vita inconscia, individuale e collettiva. Del mito, Bertoletti approfondisce lucidamente la qualità di strumento collettivo di espressione culturale, che peraltro si incontra significativamente e in modi di volta in volta singolari e diversi con l'esperienza individuale, creando quel mito personale così junghianamente importante nella formazione del destino individuale come anche nella esplorazione e nella comprensione psicopatologica. Multiforme e polisemico rappresentante dell'archetipo, adatta-. to e trasformato nel suo modo di presentarsi in ciascun individuo, il mito perde così quella univocità di senso psicopatologico con cui era stato definito dall'approccio freudiano. Appare cioè ridimensionabile la scelta fyeudiana di rintracsotto) di essi. E cioè l'archetipo, con l'idea particolare di inconscio che da esso scaturisce. Si tratta perciò di superare l'agiografia compiaciuta del senso peculiare che, nella psicologia junghiana, assumono concetti trattati ben più restrittivamente da altri autori e dotare invece tali concetti di legami logici e/o di contenuti empirici più solidi, rispettando al fondo quel desiderio di oggettività che pure contraddistingue una parte cospicua della multiforme personalità junghiana. Analogia e pregnanza simbolica sono allora i termini cui Bertoletti affida il compito non certo semplice di fondare un' «epistemologia» junghiana. ' E noto come Jung stesso proponesse l'analogia come dispositivo specifico per trasferire o proiettare la libido inconscia sui diversi aspetti, individuali e collettivi, della vita psichica: il Stanis/as Lepri, Diavoli, disegno ciare, nell'asse mitologico ipostatizzato Edipo-Narciso, la strada unica e transpersonalmente simile di accesso all'inconscio. Del simbolo, Bertoletti approfondisce la qualità, tutta junghiana, di essere veicolo trasformatore, non risolto né segnicamente né metaforicamente, dei contenuti inconsci della psiche. Anche qui vengono precisate le distanze degli approcci consueti della psicologia dinamica: è che la particolare collocazione del simbolo nella psicologia junghiana non consente di avvicinarlo attraverso un'«interpretazione unilivellare» ma comporta un costante «rinvio a nuovi possibili significati» e soprattutto «individua una struttura dinamica intrinseca [dell'inconscio], forse possibile base del continuo rinnovamento della vita psichica in tutte le sue manifestazioni». Orbene, l'interesse del libro in questione se risiede anche nel notevole sforzo di indagine differenziale e critica delle diverse accezioni con cui la letteratura specifica ha inteso il ruolo dei concetti di mito e simbolo nella formazione storica della cultura, va, a mio avviso, colto prevalentemente nel tentativo che Bertoletti compie di precisare e rigorizzare le interrelazioni concettuali esistenti, nel particolare ambito della psicologia junghiana, tra mito e simbolo e ciò che nella gerarchia junghiana è posto al di sopra (o, meglio, al di concetto di analogo libidico contrassegna, in quest'ottica, l'oggetto sul quale può essere investita la libido qualora si determinino le condizioni favorevoli a una sua trasformazione in forme via via più culturalmente evolute. Perché, allora, non percorrere il processo inverso e accostarsi ai contenuti inconsci «utilizzando analogicamente [... ] forme simboliche appartenenti alle diverse discipline?» Quello che viene proposto non è però la creazione di un isomorfismo quantitativo o logico tra discipline a statuto epistemologico consolidato e psicologia del profondo. Si vuole evitare un uso dell'analogia troppo vicino a quello indicato dalle scienze naturali perché questo, secondo Bertoletti, può comportare la conseguenza «suggestiva» ma pericolosa di «trarre conclusioni 'scientifiche' in materie (come la psicologia e la psicoanalisi) che, non avendo possibilità di controprova, non possiedono a tutt'oggi i requisiti necessari per essere considerate scienze». È invece nella complessa vicenda ermeneutica che sta alla base della formazione del giudizio clinico che l'analogia esprime, per Bertoletti, tutta la sua potenzialità euristica. Si tratta di ricostruire analogicamente - nel costante riferimento ai dati che rispecchiano, nell'individuo, una determinata fase di sviluppo culturale - le vicende che hanno condotto alla formazione del mito personale. Anche qui va evitata una ricostruzione unilivellare che privilegi, come nella psicologia freudiana o in quella kleiniana, una sola modalità di linguaggio interpretativo, col risultato di ottenere uno svuotamento linguistico dell'oggetto indagato. Dunque, l'analogia diventa metodo privilegiato di accesso al mito personale; si è visto poc'anzi come quest'ultimo sia d'altra par~e collegato all'archetipo junghiano. C'è da tentare, allora, di avvicinarsi a una fondazione epistemologica di quest'ultimo; il concetto cassireriano di pregnanza simbolica può, per Bertoletti, offrire una possibile direzione da percorrere. È noto come, in Cassirer, questo concetto stia a designare la possibilità umana di trarre, dalla eterogeneità dei dati percettivi, un senso non immediatamente né intuitivamente a essi ascrivibile ma che esprime la loro interazione con orientamenti e forme tipiche del pensiero. È ampliando opportunamente quest'approccio - unificando cioè in esso attività elaborative più «esterne», come la percezione, con attività tipicamente psichiche, come l'appercezione - che si può tentare, per Bertoletti, di ricostruire l'origine dell'attività simbolica primaria altrimenti non giustificabile se non ricorrendo a postulazioni di carattere metafisico. Archetipo e mito sarebbero poi elaborazioni più complesse di tale lavoro simbolico elementare. Ne consegue, sul piano clinico, la possibilità di percorrere a ritroso tale processo: ciò allo scopo di individuare nel sintomo l'espressione psichica o somatica di un arresto della produzione simbolica. Va detto che l'indagine epistemologica contemporanea, come pure la più recente psicologia sociale, hanno negato la possibilita di far riferimento a dati percettivi (o appercettivi) elementari. Ogni percezione è già percezione «teorica» o «di ruolo». Inoltre, i più recenti studi sul concetto di analogia hanno posto in evidenza, attraverso la cosiddetta teoria causale del riferimento, il carattere anch'esso tipicamente relazionale della definizione di un oggetto di indagine, nelle scienze umane come in quelle naturali. L'opposizione percezione/attività simbolica andrebbe dunque precisata alla luce dei risultati di queste ricerche; inoltre, sembra cadere la distinzione che Bertoletti introduce tra uso «scientifico» e uso «psicologico» dell'analogia. In sostanza quello che può essere obiettato al lavoro di Bertoletti è di non aver voluto esercitare fino in fondo lo sganciamento delle categorie junghiane da ogni riferimento ipostatizzato, né si può pensare di risolvere l'annoso problema dei fondamenti di una teoria psicologica dotando la dimensione clinica di qualità ermeneutiche troppo profondamente distinte da quelle che caratterizzano altre metodiche interpretative. A meno che non si voglia pagare il prezzo, a mio avviso troppo alto, di rischiare una metafisica della clinica. Mi sembra si tratti però più di precisare il tiro che di abbandonare la postazione. Resta la coraggiosa validità di una coerente rivisitazione critica dell'approccio junghiano: chi ha letto Jung sa che non è cosa da poco.
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