le parole in modo meccanico, «sputato». Preti, politici, insegnanti, uomini di scienza usano le parole in un modo che, se non si conoscesse la storia di questo paese, si potrebbe definire morto: la lingua tedesca come una lingua morta. Questa esperienza non Garatterizza solo l'esordio della mia opera, ma è il filo ininterrotto del mio lavoro: il dolore e l'aggressione delle parole che io sento dall'età di 10 anni. Dall'altra parte c'era la mia casa natale: mio nonno, anche le litanie slovene mi hanno influenzato profondamente nel creare con la scrittura uno sguardo che potesse cancellare questa lingua morta: una lingua pura, capace di ricreare lo sguardo, l'occhio che avevo nella mia infanzia. Ci sono sempre nella mia vita questi due fili; e dei due, il filo che è diventato via via più tenace e che resta attualmente il più forte è una volontà-desiderio di ritrovare la purezza delle parole per ritrovare insieme il contorno vivibile delle cose. È anche il rimprovero che oggi mi si muove, perché impiego nei miei scritti parole che venivano usate cinquant'anni fa dai nazisti. Ma sono le frasi ad essere completamente differenti. E poiché molta gente non sa leggere le frasi e reagisce, come il cane di Pavlov, alle parole in sé, dice: «questa è una parola che non si può più usare», anziché dire piuttosto: «è una frase con la quale questo scrittore ha reso giustizia alle cose». Il suo rapporto coi classici, con Virgilio nel libro Il cinese del dolore, ma anche con Eschilo per la sua magistrale traduzione del Prometeo di cui è giunta notizia in Italia l'estate scorsa... Fa anche questo parte del ritorno? Il mio rapporto coi classici non significa solo la lettura degli autori antichi. Esistono autori moderni che sono assolutamente classici, come il poeta francese René Char... Si tratta di una scelta che alcuni autori fanno, di abbandonare lo sfruttamento dei propri umori per riconoscersi in opere che datano quasi tutte prima del XIX secolo. A partire dall'Ottocento una certa psicologia dei personaggi, della vista, dello sguardo ha invaso le arti e soprattutto la letteratura. lo, come molti altri, cerco di evitare questa saturazione e più che «ritornare» - che è un po' duro come movimento - mi «ritrovo» con molta più ampiezza e respiro con gli antichi, i greci e i latini. Si tratta di un avvicinamento molto fisico, molto materiale. lo «non mi ritrovo» con i dadaisti, coi futuristi. Tradurre significa per me utilizzare una grammatica assolutamente normale, ma piena d'aria e vivificata dal contatto con la grammatica e la sintassi antica. Mai più rompere con la grammatica e la sintassi come si è fatto nel nostro secolo, ma insistere su questa illusione. Dico apposta «illusione», perché dona il sogno dell'ordine: ordine dello stato, ordine delle leggi che sono nei libri delle leggi. Quando si leggeVirgilio o Pindaro ci si ritrova in modo più profondo perché è meno personale, è più rituale. Ho invece difficoltà a ritrovarmi nella letteratura di questo secolo. Trovo alquanto mostruosa la volontà degli scrittori degli inizi del secolo di diventare sempre più voluminosi, votati alla quantità, vicinissimi alle cose, quasi a dover scrivere delle summae. Anche Robert Musi!, che è un grande scrittore, aveva questa ambizione di totalità, voleva riempire. Pieno, pieno, pieno ... Diffido del pieno. Leggo Virgilio ed è tutta la mia vita. Al contrario molti scrittori moderni mi prendono la vita. Gli antichi che amo non sono assoluti: c'era uno sguardo cosmico, c'erano i miti diventati, da religione, racconto e canto. Del resto questo «ritrovarsi» non è assicurato una volta per tutte. Chi si ritrova per l'eternità è un imbroglione o un imbecille. Persona d'altronde invidiabile, che ha trovato la sua religione. Qualità e risorsa della mitteleuropa, l'ironia è usata da Sorger con molta discrezione. Si è parlato spesso di ironia a proposito dei suoi libri: della sua presenza e della sua assenza. Ho imparato molto presto a mie spese che l'ironia volontaria, deliberata, come mezzo del rapporto con gli altri, non era propriamente un bene. Per sopportare la giovinezza nell'internato dov'ero a compiere i miei studi, l'ironia era uno strumento non per liberarsi (sarebbe troppo), ma per prendere le distanze. Più tardi la possibilità di vivere attraverso l'ironia - e non tanto di usare in sé l'ironia - mi era data a volte: ma un'ironia che viene dall'interiore, una specie di amore di cui ho parlato in Attraverso i villaggi. Era anche un'indicazione agli attori: rappresentate questa pièce con un'ironia che è una specie di amore: non amor proprio, ma amore comunicativo. Questa è l'immagine e forma di ironia che la lingua tedesca denomina con una parola molto popolare. No, non amo l'ironia dei romanzi di Thomas Mano per esempio: la distanza borghese dagli avvenimenti. Chi comincia la lotta e il gioco col linguaggio solo momentaneamente, solo involontariamente può diventare ironico, non a priori. Se si comincia a priori con l'ironia si è lontani dalla letteratura. Per un po' può andare, è liberatorio: ma adottare l'ironia come attitudine della letteratura è pernicioso ed è proprio di una letteratura che - al contrario di quella di Kafka, che non ha in nessun modo questa ironia - muore molto presto e non può essere presa sul serio. Così come essa non prende sul serio. Alla fine degli anni sessanta e negli anni settanta lei ha contraddetto, con una scrittura, anche per questo, insolita e «fastidiosa», le culture esplicitamente politiche che, non solamente in Italia, erano dominanti. E soprattutto lo erano per le persone della sua generazione. Mi inquieta sempre - ed è naturale che mi inquieti se si tien conto delle mie origini, della mia famiglia - la storia: non solo la realtà politica, ma il problema universale della storia nel quale la situazione politica è sempre inclusa. Ora è questo che mi preoccupa: come trattare con quella lingua una realtà che contenga tutte le altre? Come trattare con una lingua pura una storia che è così impura. Come situare un dramma, un intreccio o anche solo un problema nello spazio europeo e soprattutto nello spazio che è il mio, l'Austria, senza scrivere un cosiddetto romanzo, senza cadere già anche nel teleromanzo, in quel modo cioè di narrare i fatti della storia che è già proprio della televisione. Il mio progetto è di continuare almeno a rafforzare l'autonomia della letteratura. Questo è il mio primo passo. Senza questa condizione non potrei scrivere, se l'autonomia della lingua, delle frasi fosse non rispettata o messa nelle condizioni di essere ogni giorno fondata di nuovo. Ma come fare con la storia? Dopo la guerra e a causa della guerra ho sempre avuto una specie di esitazione perfino a nominare città o villaggi austriaci. Ancora all'età di 40 anni non ero in grado di citare in un testo i nomi «Vienna» o «Salisburgo» e le cifre degli anni. Dovevo continuamente omettere date e nomi dei luoghi, ed anzi la loro presenza in un testo mi è sempre parsa molto oscena e, per quanto possa sembrare strano, molto disilludente. Perché quando si scrive si vuole creare un'illusione. Non un'illusione che non si possa vivere. Ma che si possa vivere. - - - ConversaziocnoenGre1mas $ e si vuole cercare un fondamento alla semiotica francese, tanfo alle opere di R. Barthes che a quelle di A.I. Greimas, è nei testi del linguista danese Louis Hjelmslev che la ricerca deve orientarsi. Ne I fondamenti della teoria del linguaggio è già presente la distinzione che opporrà la semiologia, come studio non - scientifico delle connotazioni sociali, alla semiotica che ne costituisce il correlato scientifico e denotativo. Tra la fine degli anni cinquanta e principalmente durante gli anni sessanta, il Sistema della moda, gli Elementi di semiologia di R. Barthes, la Semantica strutturale e Del senso di A.I. Greimas - opere che hanno influenzato enormemente lo sviluppo non solo semiotico della ricercastrutturale - indicano chiaramente questo riferimento condiviso dai due. studiosi del linguaggio. Ma l'avventura assiologica di Roland Barthes volgerà ben presto al piacere del testo e della sua scrittura, mentre il cammino intrapreso dalla semiotica di Algirdas-Julien Greimas conduce ad un più vasto interesse per l'epistemologia delle scienze umane. La ricerca di un modello che possa essere comune allo s(udio delle diverse culture) attraverso l'analisi delle azioni e delle comunicazioni che ne costituiscono i prodotti, ha spinto la semiotica greimasiana alla continua messa a punto d'un metalinguaggio arbitrario, ma quanto più possibile adeguato allo studio dei diversi linguaggi-oggetto che si presentano come dei differenti testi, appartenenti all'universo semantico delle diverse etnie. Al relativismo nelle assiologie dei modelli di verità, etici ed estetici in particolare, sono stati dedicati gli ultimi anni della ricerca seminariale del G.R.L.S. (Groupe de recherches sémio-linguistiques). Il libro di A.I. Greimas che si attende agli inizi del 1987 per la neonata collana semiotica diretta da Marie-Françoise Tardien, ha per titolo De l'imperfection, ed è innanzitutto un omaggio all'estetica. Uno degli ultimi corsi di J. C. Coquet, professore all'Università di Paris-St. Denis, è stato votato al discorso valutativo. La semiotica, teoria della significazione e del senso, si apre così all'universo delle assiologie prospettando una semantica del valore. Abbiamo chiesto al professor A.I. Greimas di ripercorrere queste origini comuni e le divergenze che sono sopraggiunte a partire dalla lettura dei testi di Hjelmslev, per volgere lo sguardo verso il futuro della ricerca. A. Zinna Prof. Greimas, come, e a partire da quali letture, è nato questo interesse che, pur marcando un inizio di ricerca comune, porterà a due percorsi divergenti e complementari, dalla semiologia nell'avventura barthesiana alla semiotica nella ricercagreimasiana? Vorrei anzitutto correggerla su un punto: lei parla degli anni cinquanta e sessanta, ma negli anni cinquanta non si è fatto molto. Anche se Coquet stabilisce nel 1956la data di nascita della semiotica, bisogna dire che si trattava in quel tempo soltanto di considerazioni generali.1 Ero stato allora contattato da una rivista che stava per essere fondata, e che si chiamava Arguments. Mi sono state poste delle domande sulla sociologia del linA cura di Alessandro Zi na guaggio; è così che sono arrivato ad interessarmi ai problemi della «superficie», e anche Barthes quasi contemporaneamente, con la pubblicazione di Miti d'oggi; opera che non è ancora hjelmsleviana. La tentazione delle ultime ore, (Ars moriendi), particolare, incisione su legno, Biblioteca nazionale, Parigi Quando io tenevo il seminario di semantica, lui scri"eva gli Elementi di semiologia. È molto più tardi che ha pubblicato il Sistema della moda, quasi alla fine degli anni sessanta. Se ho citato per primo il Sistema della moda, è perché Barthes ha cominciato a scriverlo negli anni cinquanta, prima degli Elementi ... Alla fine degli anni cinquanta, sì. Ma quando ha cominciato a scrivere il Sistema della moda, non aveva ancora letto Hjelmslev. Ne ha fatto tre versioni successive; io le ho lette, ne abbiamo discusso, e lui ha ricominciato a scriverle, ma non osava ancora sottoporre il lavoro a un direttore di tesi. Ecco dunque quello che è successo con Barthes, che ho incontrato in Egitto nel 1949-1950.Nella sua lezione inaugurale al Collège de France, ha detto che Greimas gli aveva insegnato a conoscere Jakobson. Aveva già letto un po' Saussure, e in seguito ha conosciuto Jakobson. È solo più tardi, intorno agli anni sessanta, che abbiamo, non so come, conosciuto Hjelmslev. È stato abbastanza curioso. Non so più chi l'ha scoperto per primo. Se, attraverso le fonti, lei arriva a precisare la cronologia della scoperta, può farlo. So che è stato un colpo di fulmine per tutti e due. Soltanto, lui ha cominciato con gli Essais e io con i Prolegomena. Lei ha scelto subito la via più teorica. No, Barthes non sapeva una parola d'inglese, mentre io riuscivo a leggerlo col dizionario, dato che i Prolegomena erano stati pubblicati solo in inglese. Se si vogliono cercare delle divergenze con Barthes, credo che le si trovino già dall'inizio. Era la lettura di Saussure che era diversa. Non lo sapevamo. Credevamo di aver letto lo stesso Saussure. Ma lui ha letto Saussure dall'inizio, e io dalla fine. Cioè, Barthes ha cominciato con il segno, con l'esempio dell'albero. Basta leggere cinquanta pagine più avanti per trovare che la lingua è come. un foglio di carta. Con Hjelmslev è stata un po' la stessa cosa. La lingua è un reticolo di relazioni negative e non un reticolo di segni. Barthes ha cominciato con il segno didatticamente. Se si rileggono i Miti d'oggi, si può vedere che si tratta ancora di segni-parola, di segni-albero. In questo senso, era restato a un Saussure diverso. Poi, naturalmente, è andato avanti. Ritengo che anche lo sfondo filosofico fosse altro. Noi avevamo in comune Marx e Husserl, ma il suo punto di riferimento implicito era Sartre, e il mio è Merleau-Ponty. Come vede, due fenomenologie differenti... Quando abbiamo conosciuto Hjelmslev, quello che lui ha ritenuto immediatamente è stato il linguaggio connotativo, mentre io ho ripreso il sistema denotativo. I Miti d'oggi sono in effetti un libro che tratta delle connotazioni sociali. Sono piccole divergenze, ma le conclusioni che bisogna trarne sono enormi. Questo è stato, credo, all'origine della diversità, ma non dei termini, perché noi non facevamo distinzione tra semiologia e ~ semiotica. Il problema terminolo- .s gico si è posto dopo, quando gli ~ allievi di Barthes hanno voluto ~ t--.. mantenere «semiologia»malgrado la decisione delle hautes autorités. ~ ..... .9 <:::S i.:: l Per creare un'associazione internazionale di semiotica, bisognava benè avere un termine che avesse il suo corrispettivo in ingle- ~ se, perché altrimenti avremmo ~ avuto un'associazione di semiolo- ~ gia in francese e di semiotica in i inglese, opposizione che in qual- ~
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