H •- • • • •1- an 11e: certi m1e1 1 G allio. In Lento ritorno (a casa) il personaggio abbandona lo stato della precarietà. La ricerca delle forme, la loro «distinzione e descrizione» diventa una nuova responsabilità dopo il lungo smarrimento. Che rapporto c'è tra il presente «stabile e onnipresente» del Sorger di Lento ritorno e gli stati metamorfici e transitori del Gregor Keusning nell'Ora del vero sentire (1975)? Handke. Ho trovato la parola adatta a definire quello stato per il quale un protagonista come Gregor Keusning si è tormentato, agit~to, è stato cacciato ovunque: è l'Umore, quello che impedisce la «durata», il Grande Amorfo. La storia di Keusning è calata in uno spazio e tempo molto artificiali: lo spazio di Parigi e il tempo di due giorni e una notte. Ho messo esperienze molto disparate e non continue - di tutta una vita - in due giorni e una notte. Keusning è immerso in un desiderio, in una preoccupazione o - per dirlo in modo solenne - in un lavoro che gli possa procurare la «durata», senza oscillazioni tra nausea, benessere ed estasi. Si può dire che il geologo di Lento ritorno realizzi le sue aspirazioni: Gregor Keusning è diventato geologo. Ed io, come sempre, sono il terzo in questo gioco. Pensavo a Lento ritorno come a una storia senza intreccio, senza trama, senza quello che gli americani chiamano «plot». Non volevo più frasi che trattassero gli umori, le cosiddette malattie, gli stati borderline. Volevo semplicemente raccontare i mattini, le sere, le notti, le stagioni. Volevo legare «frasi dal volto umano» - come dice un autore tedesco del XIX secolo. Un desiderio profondo è diventato volontà di attraversare me stesso, colui che scrive, ed anche sparire nella luce e nel contorno degli oggetti. Non cedere agli umori, alle malattie... Questo è impossibile. E allora ecco il dramma della scrittura. Allora se si scrive un pezzo teatrale si può utilizzare il rito, ci si può avvalere di situazioni abbastanza tipiche. Ma non così se si scrive in prosa. Il racconto è regolato dalla legge più dolce e più severa. Non si può seguire uno schema, ciascuna frase e il suo seguito devono trovare la loro legge che non è visibile, non è ancora «descritta». È per questo che secondo me il racconto non può raccontare allo stesso modo in cui buona parte degli altri libri racconta. Solo a questa condizione esso può avvicinare la maggior parte di coloro che leggono. Anche se non c'è più nessuno che legga, e anche questo è un problema ... Ne è convinto? Quand'ero ragazzo a scuola eravamo forse 2000 allievi e nessuno ~ che leggesse. Alcuni facevano tea- .s tro. I professori parlavano di lette- ~ ratura ma non leggevano. E all'U- ~ niversità, quando studiavo diritto, t'-.. ~ ancora nessuno che leggesse. Mia -. figlia è il solo essere che ho incon- -~ trato che abbia cominciato a leg- ~ gere. Io stesso ho cominciato a <U 0<> farlo dolcemente, come un filolo- & go che mette a confronto parole e s::! frasi. Ho imparato e so come si ~ deve fare, ma ogni giorno devo ri- ;g_ cominciare, non sempre ci riesco. ~ So che non posso imparare dalla Intervistadi GiovannaGallio a Peter Handke lettura dei giornali e neppure da quella della maggior parte dei libri. Imparo quando leggo Holderlin, o un altro scrittore del XIX secolo che scrive in modo molto lento: Adalbert Stifter. Leggere è un'esperienza molto fisica, che porta aria e nutrimento a tutte le cellule del corpo o - per usare un'espressione più breve - all'anima. È un avvicinamento, un movimento come l'amore. Marianne, La donna mancina, disegnava. E anche Sorger disegna. Ma in più ha un sapere scientifico che lo orienta, benché si tratti come lui dice di «amene frottole». Il nostro è il secolo della fotografia. Quand'ero molto giovane ho fatto anch'io, come tutti, delle foto. A partire da un certo tempo mi sono detto: per restare davanti al mio oggetto, alle sue forme e colori, per penetrare nella luce del mio oggetto è meglio disegnare. La fotografia è un passo attraverso una soglia proibita. Il disegno significa invece restare a distanza e rendere giustizia all'oggetto. Questa distanza è anche un lasso di tempo nel quale si sperimenta una grande pienezza. Disegnando si vive. Questo era anche il mio problema in Lento ritorno: stare nella pienezza, restare con, non abbandonare subito il mio oggetto. Per questo io disegno e anche il mio eroe disegna. In più è uno scienziato e la sua scienza, la geologia, contiene questo tipo di espressione. I geologi disegnano le forme della terra: fanno in quasi egual misura foto e disegni. In un libro successivo, che è anche un commentario di Lento ritorno (a casa), (Nei colori del giorno), lei riconosce in Cézanne, pittore della Sainte Victoire, il suo maestro del paesaggio. Analogamente a Cézanne, col disegnare e col descrivere, Sorger/Handke vogliono forse ricomporre un altro ordine del paesaggio, della natura? Parallelamente alla natura. Cézanne non imita la natura, ma - credo di sapere - trova colori e forme per creare un ordine parallelo e dare alla natura la dignità nella quale colui che guarda - o la natura o l'opera - possa riconoscersi e accrescersi, divenire lui stesso capace di sguardo. Questa è anche la sola cosa che mi interessi dell'arte: che colui che legge, che guarda o ascolta un'opera musicale possa riconoscere la propria natura. Non come un criminale si riconosce, inseguito dai poliziotti, e al quale si dica: «Tu sei un criminale». Ma dove se mai il colpevole possa riconoscere di non esserlo e sapersi - lui - molto più grande dell'opinione che si è fatta di se stesso. Nello scrivere e nel raccontare, una cosa mi sta a cuore: che òi legge ritrovi un suo essere bambino: le sue doti, le inclinazioni, il desiderio. La volontà di creare qualcosa o la memoria che ha già creato, ed ha usato wi giorno una parola, anche una sola, che era giusta, e se ha visto un colore ne ha parlato a un amico. Cézanne in questo è un po' l'archeologo della coscienza umana perché è riuscito nei suoi quadri a sbarazzarsi di tutti i materiali che rendono ciechi gli esseri ed ha ricreato lo sguardo originario. Ma lo stesso progetto - e lo stesso successo - sono di Virgilio, di Montaigne, di 'Pascal, di Goethe. Di Holderlin soprattutto. Ritrovare lo sguardo e legare non solo lo sguardo, ma l'occhio e tutto quello che si chiama l'essere superficiale, sensuale, all'essere profondo e purificato. Non in senso etico, ma in senso puramente estetico. .. C'è un quadro nel paesaggio disegnato da Sorger che si può isolare: un luogo all'incrocio di diversi passaggi «dove si potrebbe situare l'immagine di una comunità indistruttibile, vivace, allegra». Utopia o epifania? Non si tratta solo di un'epifania. Si può dire di un'epifania che si forma, giunge per caso, e sparisce anche. Ma non è così per questo sguardo. Là dove Sorger disegna il paesaggio dolcemente, con calma, perché catastrofi, ingiustizie, miserie restano tuttavia - quello che si può almeno fare è disegnare queste immagini col loro ritmo, rendere giustizia del ritmo che c'è negli oggetti e negli esseri guardati. È rendendo giustizia a questo ritmo che si crea: si continua cioè in un'altra tradizione. Non la tradizione dell'omicidio, ma· quella della pace. La tradizione attiva della pace, dello sguardo. La tradizione attiva dei bambini. Il personaggio di Lento ritorno prepara il suo rientro in Europa attraverso una memoria che insorge a brani, nelle tracce di una colpa originaria dove l'omicidio fa irruzione a volte, per un'immaginazione repentina, inattesa. Si tratta di una colpa che non è eterna, non ha durata: viene, Il diavolo in trono durante il sabba, in P. Boaistuau, Histoire, Parigi 1560, Biblioteca nazionale con molta precisione ed anche con una volontà di ritmo, là egli vedenel cuore del paesaggio - le persone che vede sempre: gli ubriaconi, i pazzi, i senza lavoro come sono gli Indiani del Grande Nord. Ma ora le vede nella distanza ed è questo che conta: ha trovato il punto dello sguardo ed anche il modo di guardare, ed essendo uno che disegna ha tutto il tempo, al contrario di uno che fotografa. Ha tempo, spazio, distanza e allora può guardare come se i cosiddetti ubriaconi, pazzi e poveri e senza patria - tutta questa gente - possa creare un regno umano. Questa non è un'epifania, è una legge che si può usare nel descrivere, nello scrivere di questo avvenimento e che si può riprodurre non solo al Grande Nord, presso la gente senza terra come gli Indiani, ma anche nel nostro paesaggio urbano, nel metrò ad esempio, se solo si trova il punto. È una specie di politica per me: si può trasferire questo sguardo e soprattutto si può tradurlo, restituirlo a coloro che sono là, in quel punto. Se non ci si riesce - il che è molto verosimile scompare ritorna come colpa di non stare veramente nella società, di esserne ai margini, ai bordi degli «altri», del «popolo». Colpa di non essere parte di un movimento di gente che soffre. Colpa di non sentirsi mescolati con la storia, nella storia. Di esserne al di fuori, e anche di essere contenti semplicemente in questo guardare. Una simile posizione può dare una gioia profonda, l'estasi. E un attimo dopo, a sua volta, la gioia può dare la colpa di essere fuori, senza società, -senza popolo. Credo che coloro che sono legati a un popolo non si sentano mai davvero colpevoli. Ma i protagonisti dei miei libri non sono mai legati a un popolo. Del resto credo di sapere che questa particolare colpa è diventata anche la questione del popolo austriaco, per il quale ora la colpa ritorna in modi completamente trasformati. Molta gente in questa regione, come pure in Germania, non può veramente partecipare. Anche i nuovi partiti e movimenti ecologici, gli «alternativi»: molti si sono accorti che sono privi di senso storico, senza amore delle forme, completamente antiestetici e non certo nel senso che si vestono male. Per coloro che considerano le forme e i colori costituzionali all'idea di paradiso, per i quali cioè questa scienza e coscienza- la fedeltà alle forme e ai colori - costituisce l'etica più profonda, per tutte queste persone la Germania, l'Austria non possono diventare la patria. A volte la collera insorge, contro. Amo questo battersi, litigare contro un presente che è senza dignità, che non riflette mai, che non trema mai. Si può amare questa lotta ma io ho capito questo: che l'essere contro non porta, non dà. Anche se si è pur sempre contro, profondamente contro. Bisogna invece creare, insistere, continuare la tradizione delle forme: domandare le forme, porre domande alle forme. Nelle forme non si trovano forse le risposte, ma i problemi, questa volta sì eterni. Per questo ho preso una decisione, che a volte non mantengo perché divento troppo debole per creare sempre. E se non ho a. volte le forze, allora mi dico: è perché sono contro che divento debole alle forme. «Dire contro» in certi casi è utile, per i giornali per esempio. Ma ciò che conta per me è lavorare con le forme, nelle forme, contro le forme... No, non si può lavorare contro le forme. È in esse che si trovano tutte le esperienze più profonde e visuali, palpabili e tangibili della storia. Anni fa lei ha definito la sua scrittura come «rivolta ad attirare l'attenzione su schemi letterari ormai inconsci», su forme di scrittura pre-esistenti e, in definitiva, sulla_ normatività del linguaggio. Questo metodo nel ciclo del ritorno si è complicato, si è modificato? Agli inizi questo metodo era una specie di pensiero. Ma ancor più era l'esperienza di una lingua, quella tedesca, quasi del tutto inutilizzabile. Inutilizzabileper il canto e il racconto è anche una specie di canto calmo e recitato. Allora avevo un pensiero quasi completamente astorico ed antistorico, quando ho scritto le mie prime pièces teatrali Kaspar e Insulti al pubblico. Da giovane ero molto influenzabile dalle persòne che mi circondavano. Non parlo della mia famiglia perché in essa si era pressoché muti. Mio nonno era sloveno, mia nonna anche: tra di loro non si parlavano quasi. Mia madre ha imparato un po' a parlare, ma erano soprattutto lamenti e, più raramente, grida di gioia che aveva appreso. Proprio questo è stato un gran bene per me. Vuoto e silenzio erano talora opprimenti, talaltra quasi solenni. E l'origine del mio lavoro e lo resterà per tutta la vita. Come un poeta francese ha detto: «Mondo muto, mia sola patria». In questa origine consiste la mia forza. Ma quando sono entrato nella scuola e nella chiesa, in quegli anni che si chiamano così stupidamente di ingresso nella vita, tutte le parole - tutte - erano false per me. Da quel momento la sola lingua che sentivo parlare era quella della borghesia (ho sempre difficoltà ad usare questo termine). Negli anni successivi la borghesia si è estesa, sempre di più a comprendere tutti: non ci sono quasi artigiani o operai in Austria. C'è una piccola borghesia che usa
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