mere le cose viste. Un sorriso mesto si incunea nel mio volto. Guardo stupefatto le cose che ho ricostruito come ai tempi del libretto della sopravvivenza metropolitana. Guardo fuori la periferia che appare. Guardo le mie mani. Guardo con gli occhi della mente l'Oracolo cadente di corso Garibaldi e Ade/ Scott. Tutto ha un sapore acre come dopo una caduta in cui è finita in bocca un po' di terra. Anche questa sconfitta potrebbe finire nella lista dei problemi irrisolti. [. .. J stenza. Nei tram e nelle strade la mia febbre divampa. La mia febbre si mischia con quella degli altri. La città sembra mormorare ai miei occhi frasi lacrimose. Le urla dei monatti si mischiano all'odore che ho già sentito. Urtato e bestemmiato sono assopito nella mia resistenza. Resistere è una parola che dico cento volte da solo e a casa, come nella calca. La mia resistenza è fatta anche di arrivare, trascinati i piedi, scosso da qualche mezzo, in preda alla febbre al cadente Oracolo di corso Garibaldi. La febbre mi lo non m'è d'aiuto né di danno. La volontà di ricercadi cui ho detto e una sostanziale pigrizia si scontrano in me. E passano i giorni. Poi inizio di nuovo a frugare nelle viscere dell'Oracolo e trovo qualcosa di utile. Mi immergo nella mia lettura. È forse un po' deludente la scoperta, ma comunque gli scarsi precetti e descrizioni che ci sono appaiono nuovi ed utilizzabili. Ma la delusione maggiore è riservata quando scopro la mia guarigione dallapeste senza che mai abbia applicato le prescrizioni dei miei libri ed è su questo che prendo ad interrogarmi. Ma anche questi dubbi vengono presto riposti. Prendo il materiale che mi serve e lo porto a casa. Mentre tarabesco vedo aperto il mio breviario. Ma è trascorsomolto tempo, e la peste che ho avuto e la peste che divora la città. Ora quello che appariva come un passo importante magari transitorio cessa di interessarmi e di apparirmi tale. Leggo in fretta alcune delle molte cose segnate e vedo anche il loro essere superate. Quello che era acuto diviene spuntato. Con un po' di fuoco brucio quel taccuino, tra i tanti fumi purificatori o presunti tali, che soffocano Milano si confonderà sicuramente. C'è un certo compiacimento, o immagino così, nell'attuare quel gesto e la stanchezza è scomparsa. Forse già comincio a rimpiangere di aver buttato via quel mio pezzo di girovagare. Prima di uscire a vedere che c'è, l'immagine di qualche dottore, di Ade/ Scotte di qualche sacerdote dell'Oracolo mi si succedono in testa. Ma poi il comun senso prevale. E scendo nella via dove i fuochi antipestiferi ardono. Prima di intraprendere l'elenco delle cure nuove della medicina antica oracolare, dopo aver rotto col mio progetto di sopravvivenza il breviario, decido di ripercorrerei_soliti sentieri e faccio di nuovo un giro per Milano. La puzza delle strade è in quella giusta misura che permette che sia estremamente sgradevole, senza per questo disturbare a tal punto da non sentirla più. La facce che ·vedo intorno sono solo un po' più sfatte del solito. lo, Anatolio, sono guarito dallapeste e mi chiudo in uno sdegnato silenzio. Ma quello che in realtà mi interessa appurare è la peste in relazione alle opere murarie. E come è ora la metropolitana. La via appare quasi vuota: un mulo scacazzante tira un carrettoe un'auto cirçola lenta. Imbocco la metropolitana e dentro scopro che nulla è cambiato. Solo un po' più del solito fetore. Ed è la solita andata al centro. Un po' più vuote mi appaiono le piccole e grandi piazze del centro. Ma la mia speranza di vedere qualcuno improvvisamente accasciarsi va delusa. E mi sento stanco, il girare mi ha nauseato, eppure continuo. Solo dopo un po' vedo un camion muoversi lentamente e con forme inconsuete: sono monatti. Mi avvicino rimanendo però a debita distanza: chiedo loro, quasi• urlando, come è andato il lavoro oggi. Mi viene risposto che è così così. Sembra che infatti nonostante gli strafalcioni medici questa peste non voglia attecchire. Anche se dalle parti di viale Certosa c'è stato lavoro. E mi stacco da loro. I monatti sono sorti subito dopo la comparsa della peste. Ed è interessante la loro organizzazione, la più seria. Forse sono anche loro appestati. Non si capisce quale sia la loro funzione, ma appare comunque che sono importanti. La noia prevale. È tempo di tornare a casa. Nel ritorno sono assorto. A casa il sonno mi avviluppa. A ccade anche a me una mattina di ammalarmi. La circostanza è solo un risveglio con la febbre nella solita casa. Sul momento solo lo stordimento è cosa degna di nota, in me domina ancora il sonno. Quando la febbre si farà più infuocata e non oserò guardare se ho pustole, solo allora mi viene in mente la mia inadempienza ai riti prescritti dal potere per la peste. E nonostante abbia considerato la loro flagrante inutilità, osceni e stupidi, mi lamento con me stesso di non averli seguiti. La potenza del potere adesso, che io vacillo, la vedo. Ma il dolore alla testa, la febbre, il mal di denti, il mal di pancia, il mal di gambe, il mal di petto, il mal di cazzo, il mal di tutto prevalgono. In una legge del potere sta scritto che ho diritto a un medico, al monatto, al prete. Ma le orribili maschere col becco e le spezie dei medici mi fanno paura. I fumi dei fuochi nelle strade non mi fanno respirare. E bevo solo. L'acqua mi rinfresca, ma poi dopo mi prende il delirio. Il sonno agitatoprecede il sogno. Mi trovo nella galleria nera da solo procedo verso la debole luce. I passi sono lenti, affaticati. Un'irresistibileansia mi ha preso e respiro con forza. Vorrei cercare di muovermi, di uscire, di venire alla luceper vedermi meglio per vedere la galleria. I rumori smorzati intorno a me è come se li sentissi appena. Tutto è così angosciante che vedo un oscuramento nello scuro. Chiudo gli occhi, ma è lì. E allora appare la fine di tutte le cose, e sta lì. Mi persuado a resisteread accettare. E spicco un salto ne~'aria buia della galleria non per scavalcarla, ma solo per il saltare. Il risveglio mi accoglie con la diminuzione dellafebbre e la perdita del senso del tempo. Arrivo fino a pensare a quel che accade. La peste, l'ho vià visto, è così gentile da lasciare queste piccole concessioni. Io intanto comincio a convincermi di essereguarito perché non è questa malattia che mi riguardi. Ma l'istante del salto, ricordo del delirio, è ormai una nozione ben precisa nel mio bagaglio di luoghi. Per incoraggiarmi penso con ironia alla medicina del potere. Poi però mi incupisco in altre storie mie nere per la peste che nonostante tutto ho pigliato. Scrivo qualche noterella sul mio breviario per la sopravvivenza metropolitana. Quando i dolori del male cominciano ad apparire, sento anch'io la necessità di una medicina. L'unica speranza che mi rimane è ancoraprovare a rovistare nell'Oracolo. Devo uscire. L'attraversamento della cittàmalata da malato è cosa noiosa. Ma la galleria e il salto che ho fatto nella galleria mi spingono fuori. La febbre ha ben attecchito dentro di me. Subito fuori riprendo a mormorare frasi sconnesse, e sono di nuovo nella galleria, ed è di nuovo il salto, quel gesto splendido nel suo assoluto del momento. E solo di salto è fatta la mia resiJean Cocteau, Giovane demone di buon umore, Collezione dell'autore, 1951 S i è variamente discusso, nel passato scorcio di stagione, sulle funzioni e gli esiti della critica letterariasulla stampa non specialistica; e l'attenzione si è puntata, in verità alquanto riduttivamente, sulla «stroncatura», la cui caduta in disuso, più ancora che a esterne pressioni editoriali, è stata attribuita a una forma perversa di autocensura. Vi è senza dubbio del vero; e la controprova sta forse anche nella difficoltà da parte del critico, di dire sino in fondo tutto il bene che pensa dei libri che lo hanno favorevolmente colpito; per il più o meno segreto timore di essere accusato, quanto meno, di corrività nei confronti de~'autore recensito. Anche questo è un muro da abbattere. Se vi è un testo - poetico, narrativo - che si legge con pieno godimento, che ci sembra arricchire la nostra capacità di comprendere, o del quale, soltanto, non si può non ammirare la sapienza della costruzione, l'originalità della fabula, l'intelligenza dell'intreccio, perché non dichiararlo? E, se si tratta di un'opera di critica, perché non sottolinearne, quando è il caso, la pertinenza ali' oggetto, la strumentazione teorica, le risultanze ermeneutiche? Pensieri, questi ultimi in particolare, che mi lavorano in mente dopo aver letto,· con la necessaria attenzione, il nuovo libro di Alesriporta al delirio precedente, le bestemmie biascicate si interrompono alla necessità nuova di spiccare per l'ultima volta il salto. I respiri tendono a diminuire di intensità, ma ora ho resistito e mi persuado di dover così esistere. Decido anche, o meglio ridecide in me una ferrea volontà di ricerca tra le carte per una guarigione. Quando mi risveglio ho in mente parole di lingua arcaica, della lingua Alta che ho parlato, del creolo che si parla, e si confondono in me varie ipotesi e ricordi. Rimango così, assorto ed appestato, per alcuni momenti. Il fissare sempre lo stesso angosandro Serpieri, Retorica e immaginario. Il libro si divide in tre p.arti: la prima, a carattere più specificamente teorico, contiene saggi su Freud, Lacan e su La retorica a teatro; nella seconda e nella terza, applicative, leggiamo studi, rispettivamente, su Shakespeare e su Donne e Coleridge. Ma una delle ragioni del fascino di questa raccolta di scritti, pure elaborati e in larga misura pubblicati in un.arco di tempo che va dal 1973 al 1983, sta nella loro unitarietà, nel corrispondersi felice tra ricerca teorica e impegno diretto sul testo. Già, del resto, Serpieri, nel suo Otello - L'eros negato (Milano, Il Formichiere) che è del 1978, aveva dato prova di un sapiente impiego delle categoriepsicoanalitiche dell'analisi di un dramma di Shakespeare: l'autore, certo, al quale ha dedicato sempre la maggiore attenzione. Impiego sapiente, si è detto, proprio perché riesce a evitare, radicalmente, il rischio di servirsi del pensiero di Freud, e, più in generale, di quello psicoanalitico, applicandone meccanicamente i reperti per una presunta ricostruzione della psicologia dei personaggi, quando non addirit~ tura dell'Autore, secondo un indirizzo che ha predominato nel passato, e, ancora oggi, tenta alcuni critici meno provveduti. Altra, e per taluni aspetti opposta, è la linea interpretativa seguita da Serpieri: una linea che passa attraverso l'apporto de~'opera di Lacan, e in particolare dei suoi scritti sulla Funzione e campo della parola e del linguaggio in psicoanalisi e sull'Instanza della lettera nell'inconscio, volti a mettere in luce la decisiva componente «linguistica» della lettura freudiana delle modalità di funzionamento dell'apparato psichico. Temi, come si sa, ripresi da maestri della moderna linguistica, come Benveniste e Jakobson, cui Serpieri aggiunge talune precisazioni e approfondimenti per qualche aspetto specifico: per esempio il ruolo predominante dello «spostamento» (metonimia) sulla stessa «condensazione» (metafora), nel linguaggio del sogno, con le implicazioni che ciò comporta nell'analisi dei testi poetici e letterari in genere. L'ulteriore inclusione, nella metodologia critica e ne~'arsenale teorico di Serpieri, • dei risultati delle ricerche di Michail Bachtin sulla dialogicità e plurivocità dei testi narrativi, e particolarmente di quelli di Jurj Lotman e della «Scuola di Tartu» sulla tipologia della cultura, non solo aggiunge spessore ali'approccio testuale, ma offre ampia occasione al critico per mettere a fuoco taluni punti di teoria. In particolare appare del tutto convincente quanto egli afferma - contro l'impostazione, per questo aspetto, di Bachtin - sulla plurivocità non solo dei testi narrativi, ma anche, nelle forme adeguate al genere, di quelli teatrali, nel paragrafo introduttivo al saggio Polifonia shakespeariana. Affermazione che trova poi la sua puntigliosa dimostrazione nelle analisi specifiche che il saggio ci offre; e, su un piano più generale, in quello dedicato a La retorica a teatro, ove, muovendo proprio dalle premesse di Bachtin («Tutta la prosa artistica e il romanzo sono geneticamente apparentati nel modo più stretto alle forme retoriche»), la plurivocità e dialogicità delle opere di teatro sono rapportate non solo alla loro stesura «scritta»,ma a tutte le modalità della rappresentazione, e, in particolare, al loro rapporto, sulla scena, con quell'interlocutore non fittizio che è il pubblico della sala: questo «terzo» nel dialogo che richiama il «terzo» dei motti di spirito tendenziosi nel saggio che, appunto, al «Motto» ha dedicato Freud e che Serpieri ripercorre nello scritto Freud e la retorica del motto. Emerge così, mediante il duplice approccio teorico e testuale, il nocciolo di queste ricerche di Serpieri: la messa in luce delle modalità con cui la retorica offre aditi ed accessi all'immaginario; e più ancora, probabilmente, attraverso le «figure di pensiero» che le più studiate ed evidenti «figure di parola». Sono infatti le prime a consentirci, nella apparente semplicità e ripetitività con cui si presentano, i meccanismi specifici di spostamento da~'ordine del discorso, sino a giungere a quella «diversione da un piano logico normale a un'altra logica», mettendo in atto un «gioco di pensieri» che può toccare l'assurdo (p. 43). Ma, ed è qui un altro dei meriti emergenti di questo libro, costan_te è l'attenzione di Serpieri ai nessi che legano strettamente l'utilizzo della strumentazione retorica alle _«tipologiedella cultura», cioè il loro inserimento nei processi storici di trasformazione delle mentalità e dei riferimenti ideali. Shakespeare, per riferirci ancora una volta a questo autore, non è pienamente comprensibile ove non si tenga conto - e proprio in una lettura testuale, e non ideologica - della grande crisi delle immagini sacrali e teologiche del potere monarchico; una crisi che attraversa non solo i moventi «psicologici» delle sue figure regali, ma, puntualmente, la loro forma del discorso, le loro figure retoriche, come attiene, volta a volta, al lavoro degli scrittori, o drammaturghi che siano, sul linguaggio. Alessandro Serpieri Retoricae immaginario Parma, Pratiche edizioni, 1986 pp. 358, lire 30.000
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