Alfabeta 103 comportamenti nell'uso degli oggetti, il designer ha sempre fatto riferimento alla stella fissa della realtà tecnologica, come unico e inamovibile sistema di verifica tra il «possibile» e l'«immaginabile». N on dimentichiamoci che all'inizio del secolo la nascita stessa del codice neo-plastico, che più di ogni altro ha forse compiutamente rappresentato la Modernità Classica, trasse la propria legittimazione richiamandosi a un Principio di Necessità, cioè dalla supposta indispensabile riduzione semantica della realtà in forme geometriche semplici (sfere, cilindri, rette e piani), affinché ques_tarealtà potesse «essere introdotta nella macchina» e, come dice Manfredo Tafuri, essere riprodotta in serie. La scoperta di una possibile coincidenza tra le leggi tecnologiche e i codici neo-plastici del Movimento Moderno, costituì un supporto ideologico importante per una modernità nascente che cercava egemonia e legittimazione: fu un castelletto che fornì oggettività a scelte che si presentavano come necessarie, ma che furono spesso soltanto simboliche, metafore di più profonde necessità espressive. Questa sorta di rapporto spirituale e metodologico ha raggiunto anche in altri momenti storici successivi particolarmente drammatici, un livello di grande intensità; basterà pensare all'Europa del dopoguerra, alla Germania sconfitta impegnata nella ricerca di una sua difficile identità, nella quale agiva la Scuola di Ulm. Dentro a uno scenario devastato e incerto, tra molte difficili scelte da compiere, la certezza in una tecnologia oggettiva, reale, selettiva a cui fare riferimento, costituì per gli allievi di Maldonado una fondazione morale da cui I 1 problema della critica è accettare un'interpretazione senza privilegi. Questo problema esplode con la poesia. Anche molta filosofia ci ha insegnato che l'interpretazione non è una decodifica, ma un'avventura. Le operazioni sui codici - le ideologie e le teorie sistematiche - si prestano alla competizione («questa teoria • è più avanzata di quella»): l'avventura no, comporta troppo rischio perché si possa tradurre in un privilegio. E se dell'avventura ci si può vantare, è perché non è stata sufficientemente avventurosa. Allora, rispetto a un territorio - la poesia - i cui lineamenti essenziali sfuggono, non c'è che da avventurarsi: si tratta di perdere potere sugli altri e sui codici, non di acquistarlo. Diffidate di chi con l'interpretazione della poesia ricava spazi sociali, sottomissioni, certezze accademiche, sistemi convincenti. Si tratta invece di accettare che la lettura della poesia non permette gesti di superiorità. Ogni approccio, ogni critica non può uscire dalla propria radicale relatività e non può tentare di imporsi agli altri, così come non c'è superiorità o inferiorità nei momenti essenziali della vita. Il problema è che molto spesso si dimentica questo punto di verità per sostenere il contrario che è utile. In questo spazio di ragioni sociali e di fatalità, di smarrimento e di potere viene a trovarsi il critico quando affronta il testo di poesia. Ma cerchiamo di capire meglio chi sono gli interpreti che valutano la propria lettura come superiore a una qualunque: avente un «di più», prioritaria perché più autentica, più storica, più oggettiva, più linguistica, più scientifica. E cerchiamo di capire perché hanno bisogno di immaginarsi queA più voci non allontanarsi, un riferimento a un realismo tecnico e spirituale prezioso. Proprio ciò che questo libro oggi descrive, rimuove questa simbolica certezza: la tecnologia non è più la premessa certa del progetto, essa diventa piuttosto una delle variabili in movimento, un punto da chiarire, una scelta culturale a cui il progettista deve dare identità e certezza, e non viceversa. Oggi il materiale costruttivo non è più una realtà esterna al progetto, ma ne è parte integrante; esso non costituisce un vincolo, ma piuttosto (attraverso la sua flessibilità) una potenzialità da indagare. È proprio su questo punto che si chiarisce la crisi dell'altro Principio fondante del design moderno, che è quello dell'Identità. Una certezza tipica dei progettisti del Moderno è stata infatti quella che il loro metodo di lavoro, la loro indagine sui limiti e sulle possibilità strutturali e tecnologiche di un materiale, portasse alla fine a raggiungere la vera identità profonda di questo, e con esso degli aspetti culturali e sociali che nel progetto erano coinvolti. La ricerca di una Identità profonda dell'oggetto, il limite estremo dove le scelte erano tutte vincolate alla Verità, ha sempre accompagnato in questo secolo il design, come un desiderio di coprire le proprie legittime scelte creative, con una sorta di giustificazione scientifica e quindi morale. In questo paradigma, la riduzione semantica del Movimento Moderno è apparsa come la «discoperta» della realtà profonda delle cose, la presentazione della struttura finale del mondo, prima nascosta dalle tante sovrastrutture storiche. I Nuovi Materiali dell'ultima generazione appaiono oggi nel loro insieme come uno schermo su cui noi dobbiamo proiettare una possibile identità. Essi sono spesso un ectoplasma espressivo, che soltanto attraverso il progetto acquista una temporanea identità; una delle tante possibili. La caduta delle grandi ideologie riformiste, la disarticolazione dei mercati di massa in nicchie di mercato (e la loro riaggregazione in nuove e ancora incomprese maggioranze), l'avvento di nuovi linguaggi e di nuovi sistemi di comunicazione, hanno accelerato un quadro di revisione a cui il design sembra giungere impreparato. La breve parentesi del post-modernismo non ha risolto assolutamente la crisi, anzi, in qualclie misura l'ha aggravata. L'ha aggravata perché in una pur breve stagione ha rivelato che sotto il codice della Modernità Classica, così rassicurante e ottimista, si nascondono ancora pericoli di involuzione: irrazionalità, restaurazione, fanatismo. Ci troviamo circondati da due inadeguatezze: da una parte la vecchia guardia del design marxista, indurita nel rifiuto della avvenuta mutazione, non prevista e spiazzante; dall'altra una generazione di eterni giovanotti della sperimentazione, che credono il mondo un processo di trasformazione senza fine e dove tutto è sempre provvisorio, dove il progetto si muove dentro a strategie di brevissimo respiro. Al centro rimane un grande spazio vuoto che va riempito, con una analisi completa su ciò che è accaduto, sulla realtà complessiva della società post-industriale, vista come sistema stabile, non provvisorio e assolutamente non anti-moderno. E insieme una ricerca della fondazione etico artistica su cui appoggiare il progetto di ciò che ancora non esiste. Un progetto ampio, di grande orizzonte umano e culturale. Operazione non semplice, ma possibile. A condizione forse che si accettino alcune convenzioni e alcune modestie, che si chiaTaccuini sto privilegio. Il critico, l'interprete in cerca di priorità, dice: «Come prima cosa è necessaria una lettura linguistica e filologica: i luoghi della retorica, le strutture del linguaggio, le citazioni nascoste, le connessioni del testo con gli altri testi dello stesso autore e di altri autori, le dichiarazioni autentiche dell'autore sul testo, il tessuto storico e letterario in cui egli è vissuto, tutta una serie di referenti e di versanti - dirà ancora l'interprete filologico - prioritari rispetto a ogni altra lettura e inevitabili se non si vuol rischiare la gratuità e lo spontaneismo. Poi benissimo che ciascuno abbia le proprie interpretazioni libere e creative, voli e slanci virtuosi, più poetici che critici, ma senza saltare la priorità filologica». Come vedete il filologo concede agli altri una libertà che è libertà condizionata. Certamente qui non interessa difendere la gratuità e lo spontaneismo nell'approccio alla poesia, ma il problema è un altro: è che per il filologo il proprio rigore non è uno degli infiniti possibili rigori, ma è il Rigore (con la iniziale maiuscola). Non se la sente il filologo di valutarsi alla pari degli altri possibili lettori, di rinunciare a quel «di più» che crede di avere. Invece rispetto alla poesia non esiste nessun «di più», nessun vantaggio di partenza o privilegio. Per una ragione semplice e fondamentale: l'invenzione poetica è assolutamente autonoma rispetto a qualunque tentativo di legame. Ciò che viene riconosciuto come citazione in un testo di poesia è tutt'altra cosa rispetto alla possibile fonte .. Il «referente» - sia rintracciato nei libri o nella vita - non ha nessun privilegio nei confronti di quel passo della poesia: è ·stato uno dei tanti stimoli, e non lo Stimolo, poiché nel momento in cui si forma, il linguaggio poetico annulla qualsiasi privilegio e legame, si distanzia da tutto, diventa imprendibile. Insomma se in una poesia di Montale è riconosciuta una costruzione dantesca, addirittura con presenza evidente di lessico e di figure, si può pure rilevare questo riferimento e derivarci un approccio di lettura critica, ma sarebbe ingenuo considerarlo un legame privilegiato con quel punto del testo di Montale. Perché intanto quel passo di Montale è nato da molti indefinibili stimoli, e poi comunque nel momento in cui si è formato è diventato tutt'altra cosa, si è realizzato in completa auk>nomia rispetto ai «referenti» e non permette nessuna rivendicazione di rapporto privilegiato, nemmeno in presenza di coincidenze linguistiche. Invece il filologo insiste nella sua richiesta di priorità e di privilegio. Poi questa sua pretesa ha un ampio riconoscimento perché porta avanti un'esigenza, quella dell'oggettività, che ahimè! è una moneta facilmente spendibile e a tutti gradita. Insomma il filologo (e per «filologo» intendo tutti gli approcci «scientifici» al testo di poesia) fa con la poesia quello che il cattivo psicanalista fa con il sogno: poe~ia e sogno sono posizioni radicalissime e relativissime sulla strada del linguaggio, del senso, del destino, dell'irriducibile, della morte. Ma questi interpreti, invece che mantenere questa radicalità e relatività per altre nuove direzioni e avventure, scelgono di riportare queste espressioni verso l'oggettività o il buon senso (proprio quei significati che la poesia e il sogno avevano frantumato). Ma ci sono filologi e filologi, linguisti e linguisti: lasciamo aperta la porta. Sì, ci pagina 9 mano Seconda Modernità. Per Seconda Modernità intendo indicare una accettazione della Modernità come di un sistema culturale artificiale, cioè non basato sul Principio di Necessità né su quello di Identità, ma su un sistema di valori civili e linguistici convenzionali, ma che in qualche maniera ci permettono di scegliere e di progettare. In un saggio scritto nel 1976 su «Data» e pubblicato poi in Moderno, Post-Moderno, Millenario (Edizione Alchymia, Milano, 1976) ipotizzavo che la svolta compiuta dal Movimento Moderno all'inizio di questo secolo sarebbe stata unica per almeno trecento, quattrocento anni, e che il codice generale da esso prodotto sarebbe rimasto tale così a lungo. Non tanto per la solidità dei suoi principi etici ed estetici, ma al contrario come quadro di strumenti convenzionali da usare liberamente. Un codice simile a quello umanistico che nel XV secolo fu prodotto dalla rivoluzione del Rinascimento; un codice del tutto simbolico, che però attraverso «maniere» e interpretazioni diverse, giunse fino al XIX secolo. La Seconda Modernità come Modernità Esaltata, prodotta oggi da un pensiero debole sul piano delle connessioni ideologiche generali, ma forte e fortissimo nei propri segmenti di progetto e di pensiero, che si muove usando gli strumenti e le convenzioni esistenti per recuperare una strategia più ampia. Il Codice Moderno come pura scelta etica, come simbologia metaforica possibile: si tratta di una eredità scelta per altre strategie ... L'epoca della sperimentazione morale è terminata; con la fine dell'equilibrio instabile della Guerra Fredda, anche quaranta anni di pace entrano in disgelo. Occorre mettere le mani su Nuovi Materiali per produrre Nuovi Standard. Anèhe finti. sono quelli che cercano con il testo rapporti privilegiati e di dominio, e sono tanti. Ma ci sono anche quelli, rari, che non vanno in cerca del «di più». Ecco che la lettura filologica può aprirsi ad essere, nella sua meticolosa precisione, un'invenzione al pari delle altre. Non cerca privilegi e cggettività ma affronta quelle insuperabili difficoltà che ogni lettura affronta per avvicinarsi alla poesia. E per facilitare questo rovesciamento domandiamoci: «In questa nostra vita così oscura, contraddittoria, incerta, ambigua, irrisolvibile, c'è qualcosa di più irreale della certezza?». Ed ecco che all'improvviso la certezza filologica, questa accanita costruzione di realtà e di storia, si mostra per quello che è, una grande illusione, si ribalta in una splendida e luminosa invenzione, in una fiaba, fiaba come sono fiabe tutte le altre interpretazioni della poesia, irreale, completamente irreale e individuale, relativa e radicale come tutte le altre. Una possibilità tra le tante, niente di più. Allora evitiamo la gratuità e lo spontaneismo ma non nella direzione che indica la filologia o la scienza: perché il rigore non si verifica nel confronto con l'oggettività ma nel confronto con l'irriducibile. La tanto reclamata «alterità» non è certo l'uso dei codici analitici, storici e linguistici, che sono del resto soltanto il luogo tipico del sapere e del potere del soggetto. Invece l'alterità è l'assoluta autonomia del linguaggio poetico, il suo non farsi prendere; dunque l'alterità non è l'aggancio con la realtà o la società, ma è proprio il non aver bisogno di agganci.
RkJQdWJsaXNoZXIy MTExMDY2NQ==