Alfabeta - anno IX - n. 103 - dicembre 1987

pagina 6 A più voci Alfa beta 1031 Temi. Il politico oggi cordate-ladialettica? D ico subito che mi ritrovo con difficoltà nel dibattito in corso su «Micromega» a partire dall'articolo di Flores D' Arcais su li disincanto tradito, e che continua con diversi contributi su «Alfabeta» in veste rinnovata: mi trovo in difficoltà in un dibattito sulle «ragioni della ♦ sinistra» che usa un lessico storicamente indeterminato nt:1 momento stesso in cui si libera, senza residui, dal lessico, storicamente determinato, di una tradizione culturale e di una lotta politica. Capisco che la risposta immediata a questo rilievo può essere la seguente: si tratta appunto di ritrovare un terreno di confronto e di ricerca che muova da una conclusione avvenuta, per riprendere un cammino possibile. Ma dal momento in cui ci troviamo in presenza di una vera e propria transvalutazione topologica delle «categorie», questa va motivata più a fondo e diversamente, altrimenti il vero rischio è quello di una riflessione che muova da «universali» arbitrari e in definitiva nominalistici. Non nego affatto che il terreno storico-politico possa esser messo in discussione, pure in una ricerca che ha referenti politici, ma questo «paradosso» può essere accettato se si chiarisce su quale altro terreno ci si va a collocare usando un lessico che in realtà si mette radicalmente in discussione. Faccio degli esempi. Di «individuo», «individualismo» sono piene le pagine del dibattito, a cominciare dal testo di Flores D' Arcais che vi ha dato inizio e che ho ricordato poco fa; ma quali sono i confini storico-semantici di questo «nome» una volta azzerata quella cultura politica che lo assumeva in modo storicamente determinato e lo metteva in una serie di relazioni dialettico-comparative? Per essere ancora più chiaro, e per avere un punto di riferimento peraltro niente affatto esaustivo una volta esclusa dall'orizzonte di una sinistra possibile tutta quella linea che possiamo chiamare «critica dell'individualismo possessivo» o proprietario, con quale sentimento, con quale idea parliamo del mondo dell'individuo come «promessa della modernità»? Di che cosa stiamo parlando? di un fascio di interessi, di un sistema di bisogni, o di un cittadino e basta? Possiamo dare effettivamente per concluso, nelle ragioni di una sinistra possibile, lo spartiacque moderno che è dato - non v'è dubbio in proposito - dalla soglia critica individuata da Rousseau nella distinzione-rapporto fra «uomo» e «cittadino»? Ancora. La parola «disincanto» ricorre in pressocché tutti Biagio de Giovanni gli interventi ma rischia di diventare sempre più generica e comprensiva, implicante le conseguenze più diverse, onde ha ragione Formenti nell'osservare che «il disincanto radicale non è compatibile solo con un progetto di democrazia partecipativa ... ma anche, e soprattutto, con l'assolutismo moderno». È dunque in questo senso un concetto che non produce chiarezza, nomen sine re; perché all'origine non lo era? Credo che la ragione sia questa: esso nasceva (o almeno aveva una formulazione stringente) nell'analisi weberiana del capitalismo moderno, e questo si definiva nell'orizzonte della razionalizzaz~one. Si collocava, cioè, in una situazione topologica estremamente specifica. Di là da questa, può certo conservare un significato e un valore, ma mi sembra come minimo singolare che - in un dibattito sulle ragioni della sinistra - questa origine del concetto sia completamente dispersa, e la parola «capitalismo» non compaia neanche per ricordare - oh! solo per ricordare - che un qualche rapporto con il «disincanto» pur c'è, se di esso si parlò proprio nelle opere fondative di una lettura del capitalismo moderno. «Politico», «non-politico», «impolitico», non rischiano di essere anche questi nomina sine re, una volta che si rifugga dal determinare il terreno positivo del «politico»? Capisco che esso è diventato fluido e scivoloso, che bisogna, per afferrarlo, circuirlo e aggirarlo, ma ho anche nostalgia, su questo punto, delle opere classiche, dove, parlandosi di politica, si ritrovava la politica, le sue determinatezze, le sue logiche, le sue alternative. Non si tratta soltanto di lodare il bel tempo antico, anche nelle «categorie», ma di una ansiosa richiesta di determinazione, e - se la parola non suscitasse anche in me qualche diffidenza - di metodo. Sento, ad esempio, che va crescendo la confusione intorno al concetto di «democrazia» (già confusa mi pare l'alternativa: democrazia partecipativa o rappresentativa?) mentre incalza - forse - la grande crisi epocale del suo principio originario. Quando vado, come mi capita spesso, a rileggere Tocqueville, avverto che in quella visione profetica dei problemi che la democrazia avrebbe incontrato nella sua storia successiva (Tocqueville e Marx, non Tocqueville e Constant, questo credo sia il vero confronto da istituire) viene ancora offerta a noi la possibilità di tradurre in pensiero politico «l'antropologia» democratica, e del politico viene fatta appunto una analisi ... politica. Forse questo è anche dovuto al fatto che Tocqueville non rifuggiva dalla storia Michelangelo Coviello per rinchiudersi in dati opinabili, dove è possibile tutto e il contrario di tutto, ma parlando di democrazia parlava anche di America, Russia, Europa e cioè offriva delle determinazioni storiche e geopolitiche, che non si possono disperdere, pena l'incomprensione di tutto. Guardiamo all'oggi: l'Europa si compiace della fine delle ideologie, senza forse rendersi conto che è un andare felice verso il suicidio, se l'Europa è la storia delle sue ideologie; ma il vero paradosso è che fuori d'Europa le ideologie politiche permangono e combattono: l'America è il capitalismo, la Russia è il socialismo ... Possibile che qui si ragioni di nomina, di parole sfuggenti, di concetti reversibili, e che nulla più si dia in un contesto? È una situazione che comprendo sempre meno; non assumo in nessuna maniera il tono di chi «sa» e per ora si limita a criticare; critico il contesto di dibattito che mi si offre, ma non ne so costruire un altro se non in forma di appunto critico-polemico. Intravvedo problemi, ai quali cercherò di dar forma. E mi limito ad un ultimo spunto conclusivo: la questione del «moderno» che è poi la questione cruciale, e che è sottesa a tutta la discussione, soprattutto quando essa prende forma più direttamente filosofica. Tutta la questione del disincanto (tradito o no: non mi è chiaro precisamente 'ciò che cosa significhi) nasce da lì. Ma forse, come si presenta nella nostra discussione, nasce in forma parziale e in parte fuorviante: il «disincanto» si lega alle due letture del moderno che sembrano contrapporsi in molti interventi e che del resto sono due letture che tengono il campo - o meglio hanno tenuto il campo - nella discussione europea e in particolare tedesca degli scorsi decenni. Il moderno o è laicizzazione o è secolarizzazione, o è autolegittimazione o è indebolimento nel «secolo» dei forti principi dell'origine. Mi scuso per la semplificazione, e non avrei neanche bisogno di ricordare che è appunto una semplificazione e che gli intrecci sono ben più complicati e i punti di consapevolezza presenti anche nella discussione in corso ben più articolati e ricchi. E comunque, quella semplificazione c'è, e opera, e si avverte. Credo che sia importante che la questione si sollevi, anche se è imbarazzante farlo nella forma di «coda» ad un breve intervento. E tuttavia ci provo. Nelle due forme indicate, disincanto e modernità sono in stretta relazione fra loro; ma ciò che in quelle due forme di lettura del moderno si disperde, o sulla via di una positiva valutazione del moderno come processo di progressiva laicizzazione o sulla via di una interpretazione semplicemente «indebolita» del suo movimento, è il moderno come compresenza esplicita di una «tensione» che ne costituisce il concetto. Si perde di vista la modernità come costituita dalla «contraddizione»; positivo e negativo, forza e debolezza del soggetto sono visti secondo una scissione concettuale che isola e immobilizza ciascuno in se stesso, ogni elemento nel proprio sé, senza ombre n~' chiaroscuri. Si dovrebbe tornare a riflettere sulla contraddizione del moderno, sul moderno come contraddizione, ·sulla dialettica. Fuoriuscito da questo punto che si tende entro il suo stesso concetto, il moderno o regge la propria complessità su un principio di pura responsabilità etica o si disperde in una semplice «varietà» dove ciascun elemento regge alla condizione che non si batta con troppa forza alla sua porta. La difficoltà che ho prima rilevato a dare una determinazione più ·specifica al nome di «individuo» sta, mi pare; anche nel fatto che, guardato solo in sé, l'individuo resta terribilmente indeterminato ed ugualmente indeterminata l'idea che la promessa della modernità è che il mondo sarà «il mondo per l'individuo» (Flores). Se il moderno è puro «disincanto» e il disincanto è, a sua volta, un puro riflettersi dell'individuo in se stesso - sia pure con differenti intenzioni, con differenti volontà - da questo non nasce un pensiero in grado di misurarsi con il presente. Bisogna invece restaurare l'idea che la verità è contraddizione, e la contraddizione è verità; e scavando appena più a fondo in questo, che è il grande passaggio della modernità, forse si può ritrovare un terreno possibile di determinazione dell'individuo per contrasti e per connessioni, per tensioni incompiute che impediscono di vederlo come un mondo a sé. È un caso che le «ragioni della sinistra» si sono molte volte legate a questo principio del rapporto fra contraddizione e verità? A quello che si è chiamato pensiero dialettico? Continuo a ritenere questa connessione essenziale. Ma questo punto sembra completamente scomparso dal nostro orizzonte, e il richiamo ad esso una pura suggestione regressiva. Sostengo, invece, che portare con forza questo punto nella discussione può contribuire a che essa esca da un'impasse logica che diventa sempre più inestricabile.

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