Alfabeta - anno IX - n. 103 - dicembre 1987

Alfabeta 103 A più voci pagina 5 va di notte, nella solitudine della propria stanza, quando tutto intorno si faceva silenzio, dopo una giornata «assediata» (le prove, lo spettacolo, i concerti ... ) , così come si scrive un diario. E i suoi testi sono yeramente squarci di un diario collettivo, specchi della quotidiana sofferenza di tutta un'epoca, capaci di «risvegliare la coscienza (sovest') di ognuno, facendosi comunicazione, contatto (so-vest') fra persone appartenenti a fasce generazionali e sociali completamente diverse». Queste parole sono di Jurij Karjakin, critico letterario, sceneggiatore del Teatro Taganka, amico personale di Vysotskij, autore forse dell'unico articolo (pubblicato non senza vicissitudini) apparso alla morte dell'artista in cui si cerchi di dare una spiegazione al «fenomeno-Vysotski j». Anche l'intelligencija, abituata alla dolcezza delle malinconiche canzoni di Bulat Okudfava (in cui Vysotskij riconosce il proprio «padre artistico»), inizialmente insofferente della «erre» arrotata di Vysotskij che risuonava nei cortili dei quartieri operai, comincia ad ascoltarlo. In anni di scarsi rapporti umani e di sospetti per chi si allontana o ignora la cultura politica sovietica, che seguirono all'ondata di entusiasmo del decennio precedente, non può non destare interesse chi non si limita ad affidare alla carta l'esuberanza dei propri pensieri, ma trova il coraggio di urlarla, contro la crescente ignoranza e la cosiddetta «cultura di massa». Vysotskij supera il vuoto di quegli anni con una sorta di furia poetica: quanto più cresce il grigiore intorno, tanto più aumenta il suo spasimo di trasformare in atto creativo l'esasperante tensione. Rivoluzionario della forma e del contenuto, non era mosso da un principio individuale, ma dal desiderio di comprendere e di trasmettere la frattura sociale del proprio tempo; in quest'ottica va visto il suo interesse per chi si trova «lungo il dirupo, sopra l'abisso, all'estremo limite», per chi «cammina a piedi nudi sulla lama di un coltello». Nelle sue apparizioni in pubblico ripeteva spesso: «Per le mie canzoni cerco di scegliere uomini che si trovino nelle situazioni più estreme, nel momento di maggior rischio, che possano scontrarsi da un secondo all'altro con la morte», quasi a voler costruire un argine che respinga ancora la morte o a cercare la vera essenza dell'uomo nell'impenetrabile nulla che lo avviluppa, quando la sua anima è messa a nudo, quando non può far altro che aderire al proprio destino. Subito dopo attaccava una delle sue canzoni di guerra, ben lontane dall'atmosfera di trionfalismo della cultura ufficiale, popolate di uomini che hanno paura, freddo, di soldati che chiedono aiuto mentre le acque li inghiottono, che «non tornano dalla battaglia» a raccontare delle loro imprese eroiche. Non si trattava però di canzoni con intenti di «retrospettiva», ma di «canzoni-associazione di idee», come egli stesso le ha sempre. definite, che attingono ad un determinato momento storico per descrivere situazioni e stati d'animctdel presente. I versi di Vysotskij, quand'era in vita, hanno circolato in milioni di copie registrate senza mai essere pubblicati. Solo nel 1975 cinque o sei testi delle sue canzoni erano sul punto di venire pubblicati sulla rivista leningradese «Avrora», ma poi tutto andò a monte senza chiare motivazioni. Nel 1981, ad un anno dalla sua morte, è uscito, salutato come un evento straordinario, l'opuscoletto Nerv I Nervo, che raccoglie parte dei suoi testi, peraltro non fra i più significativi. Ora sembra cominciata la sua riabilitazione: la televisione e la stampa hanno preso a parlare di lui, è stata fondata una «Commissione per l'eredità di Vysotskij» e ci sono proposte per il «Premio di stato dell'URSS» 1987. Nadia Caprioglio Temi. Tradizione del nuovo I cambiamenti dell'arte I cambiamenti dell'arte sembrano verificarsi all'improvviso e l'impressione è favorita dai modi della comunicazione odierna che coglie il nuovo e lo trasforma subito in slogan. In realtà, i mutamenti nascono e si sviluppano più lentamente, muovono da focolai diversi, decentrati, spesso lontani, ciascuno con una fisionomia propria, anche se la forma del loro costituirsi, la loro struttura, appare dotata di una certa costanza: così un gruppetto di artisti, accompagnato per lo più da uno o più critici compagni di strada e, nel migliore dei casi, anche da qualche gallerista più avventuroso, comincia a porre all'arte nuove domande e a fornire nuove risposte. Si creano così delle microsituazioni culturali che spostano in maniera più o meno sensibile l'accento del lavoro artistico, facendo registrare scarti e fratture rispetto ai fatti precedenti. Personalmente ho seguito il maturare di una di queste microsituazioni in area romana, ma con legami con altri punti della scacchiera italiana (e alla distanza con assonanze non fortuite con esperienze maturate in altri paesi), mettendone in evidenza la novità ma anche i legami con una cultura artistica, ancora una volta tipicamente romana, profondamente radicata nel campo dell'astrazione. La nuova situazione nasce da questa memoria astratta gelosamente conservata come un tramando segreto, una moneta preziosa da spendere con parsimonia, evitando gli sprechi e le scorribande predatorie nei depositi del passato; nasce da un bisogno di pausa, di silenzio e di vuoto come antidoto al troppo pieno, all'ingombro, all'eccesso di rumore che hanno contraddistinto invece i fatti artistici dominanti tra la fine degli anni settanta e gli inizi degli ottanta. Allo slogan lyotardiano secondo cui «si può leggere tutto e in tutte le maniere», che è diventato un po' la bandiera del «risorgimento» pittorico postmoderno maturato alla fine del decennio precedente, gli artisti della nuova situazione (e ne nomino qualcuno in ordine di apparizione sulla scena: Antonio Capaccio e Mariano Rossano, Gianni Asdrubali e Rocco Salvia, e ancora Lucia Romualdi, Bruno Querci, Annibel-Cunoldi, Mimmo Grillo) oppongono una più acuta coscienza del limite, l'esigenza moderna di affidarsi a procedimenti formativi sorretti da una intenzionalità progettuale, da un più rigoroso controllo mentale e da una finalità di ordine costruttivo. L'opera non è più il luogo della fabula, della citazione, della espressività immediata del soggetto, ma è il da'to conclusivo di un lavoro che nasce e si sviluppa secondo una coerenza interna, che tuttavia rifugge da ogni rigorismo aprioristico per compromettersi con le accidentalità della fattura. Di questa vengono riconosciuti i diritti alienabili nel processo di formazione dell'opera, senza però sopravvalutarne il ruolo, non senza cioè accoglierne eventuali pretese egemoniche nei confronti della dimensione mentale, riflessiva. Di qui una pratica della pittura che punta sulla riduzione linguistica, che volge le spalle alle apparenze fenomeniche e, una volta abolita l'immagine, si tiene lontana persino dal rumore che può continuare a sprigionarsi dal colore, Filiberto Menna privilegiando l'impiego del bianco e del nero e delle gradienze intermedie, dei grigi. Per questi artisti l'astrazione è una scelta linguistica ma è anche il segno di un atteggiamento etico, che predilige il tema del vuoto e dell'assenza, che contrappone al rumore del mondo uno spazio di concentrazione e di silenzio dove l'artista può mettere a punto gli attrezzi minimi, quelli assolutamente indispensabili, per intraprendere la costruzione del nuovo. Su questi temi e argomenti mi sono già più yolte soffermato ormai da alcuni anni e non posso che constatare con soddisfazione che oggi siano divenuti abbastanza diffusi, tanto da entrare a far parte del bagaglio concettuale di critici fino a ieri refrattari a ogni idea di progetto, di costruzione e simili. Un fenomeno comprensibile, del resto, in quanto le nuove situazioni sono venute ora alla ribalta muovendo da luoghi diversi e creando un intreccio di espefienze tra loro sempre ben diversificate e tuttavia riconducibili, in qualche Francesco Leonetti misura, ad alcuni dati fondamentali comuni, già più volte velocemente, ma indicativamente riassunti, sotto il segno di un raffreddamento dell'esperienza artistica. Francesco Leonetti ha tracciato nel n. 101 di «Alfabeta» una mappa significativa delle nuove emergenze (senza dimenticare la «scommessa» ideologica di Kassel), e le ha consegnate all'approfondimento della critica. Non tralasciando, però, di darci un acconto di interpretazione, tanto più prezioso in quanto buttato lì con apparente noncuranza: «Certo oggi si procede a smontare o verificare più sottilmente il decennio scorso con il suo pittoricismo, con la sua ripresa di un figurativo riferibile per lo più a De Chirico e a Carrà [... ] e con la sua fortuna commerciale enorme». Su quest'ultimo punto ci sarebbe da discutere a lungo e ritengo che converrà ritornare sull'argomento. Accontentiamoci per ora di osservare che le risposte della critica al problema posto da Leonetti mi sembrano sostanzialmente due: c'è l'ipotesi pendolare delle oscillazioni da una polarità all'altra (dal caldo al freddo) che spiega tutto e niente nello stesso tempo, in quanto porta a un pareggiamento dei fatti lasciandosi sfuggire il senso proprio delle differenze; e c'è l'ipotesi che si potrebbe definire continuista, secondo cui le nuove emergenze non sarebbero che un proseguimento, con qualche opportuno aggiustamento, delle precedenti esperienze. In realtà lo scarto che le nuove situazioni artistiche hanno fatto registrare viene assumendo sempre più il carattere di una profonda rottura della continuità, di una svolta radicale che riprende dalla tradizione moderna l'esigenza di una costruzione del nuovo. Il problema è stato posto dallo stesso Leonetti quando si dice convinto che «la situazione della ricerca artistica-letteraria d'oggi non attinga ancora un 'nuovo' in rapporto con le punte del 60, col loro sperimentalismo e con i loro problemi di statuto linguistico». Certo, le situazioni non sono sovrapponibili, anche se le nuove declinazioni astratte spostano anch'esse l'attenzione sulla relazione interna dei segni, sulla sintassi, cioè. Ma non di questo si tratta, quanto di riconoscere che la mappa del moderno è piuttosto articolata e complessa e in essa trovano posto (un posto proprio) le avanguardie storiche e l'informale, le neoavanguardie e, appunto, le esperienze recenti che ho proposto di definire come costruzione del nuovo. Naturalmente, mi si può chiedere dove mettiamo tutto il resto, tutte le altre cose che stanno in mezzo e che devor.o essere adeguatamente valutate. Il punto è proprio questo: sono convinto, cioè, che queste altre cose non possano essere considerate come momenti veramente decisivi della tradizione moderna: penso al Novecento e, per quel che riguarda gli eventi più vicini, alle diverse forme di citazionismo, anacronismo oltre che alla transavanguardia. Tutti fatti che (nonostante le rivalutazioni e valutazioni della critica postmoderna) non possono non essere considerati recessivi in una riconsiderazione complessiva dell'arte del XX secolo.

RkJQdWJsaXNoZXIy MTExMDY2NQ==