Alfabeta - anno IX - n. 103 - dicembre 1987

Alfabeta 103 lebniskunst e della riabilitazione dell'allegoria mettendo in discussione il principio romantico dell'assoluta libertà dell'attività simbolizzatrice nell'arte e quindi dell'illimitatezza dell'esperienza artistica e della stessa coscienza estetica. Infatti - egli afferma in Verità e metodo - l'attività simbolizzatrice deve fare sempre i conti con una «tradizione miticoallegorica» ed è da questa limitata e condizionata. Naturalmente chiamare in causa il primato della coscienza estetica basata sulla superiorità del simbolo rispetto all'allegoria e anzi sull'inconciliabilità dei due termini porta con sé una ,serie di implicazioni teoriche che vanno ben al di là di una questione di gusto, perché - egli continua - «è lo stesso concetto di esperienza estetica che diventa problematico e quindi il punto di vista dell'arte, di cui essa è parte». Perciò egli affida le sue conclusioni a una serie di domande indubbiamente retoriche nelle quali si riflette tuttavia anche una problematica reale della sua ricerca: «L'atteggiamento estetico è in generale un atteggiamento adeguato di fronte all'opera d'arte? O invece ciò che noi chiamiamo 'coscienza estetica' è un'astrazione? La nuova valutazione dell'allegoria a cui accennavamo allude al fatto che anche nella coscienza estetica si fa valere un momento dogmatico. E se la differenza tra coscienza mitica e coscienza estetica non deve essere intesa come assoluta, non diventerà problematico lo stesso concetto dell'arte il quale, come si è visto, è una creazione della coscienza estetica? Non si può in ogni caso mettere in dubbio che i grandi periodi della storia dell'arte sono stati proprio quelli in cui senza alcuna coscienza estetica e senza il nostro concetto dell'arte si vive- • va in mezzo a forme la cui funzione vitale, profana o religiosa, era comprensibile a tutti, senza che si potesse pensare a una fruizione puramente estetica di esse. Si può applicare a queste epoche il concetto di Erlebnis estetico senza impovenirne l'autentica essenza?». Il «momento dogmatico» di cui qui parla Gadamer è evidentemente quello della stipulazione sociale dei significati e della loro fissazione in una coscienza mitica, affidata nel corso della tradizione - egli precisa - «a una comprensione intellettuale attraverso i concetti» (vengono fatti gli esempi della razionalizzazione del mito nell'illuminismo greco e dell'interpretazione della Sacra Scrittura da parte della Patristica): proprio per questo l'arte «era comprensibile a tutti» e non è pensabile una sua fruizione meramente estetica. Beninteso, Gadamer, anche in Verità e metodo, non intende affatto porre in discussione il carattere di verità dell'arte e la sua essenza simbolica di rappresentanza (è questo anzi che fonda la realtà ontologica dell'opera d'arte); egli vuole piuttosto invalidare l'astrattezza e l'autonomizzazione moderna della coscienza estetica alla quale egli contrappone la concretezza dell'esperienza ermeneutica, e la sua oggettiva universalità fondata sulla linguisticità: vuole insomma contrapporre alla moderna religione della cultura, che toglie all'arte il suo carattere di universalità riducendola a semplice parcellizzato oggetto della coscienza estetica e del suo godimento, una religione della bellezza quale principio ispiratore e catalizzatore di un'intera civiltà (il modello è, ovviamente, quello della Grecia antica).· E tuttavia un'oscillazione resta: mentre nell'Attualità del bello il momento allegorico è escluso in nome di un'idea dell'arte come simbolo, in Verità e metodo l'accettazione del «momento dogmatico» della stipulazione dei significati induce a una maggiore problematicità. D'altronde, se l'arte è gioco (come più volte Gadamer ribadisce) e il gioco contiene quegli elementi di intelligibilità e di conformità a leggi collettivamente stabilite che fa sì che esso possa dirsi riuscito o meno, come negare la presenza di una dialettica del dialogo all'interno dell'ontologia del bello? A veder bene, infatti, la rivalutazione dell'allegoria non è separabile dalla rivalutazione del carattere razionale e convenzionale di qualsiasi comunicazione, anche di quella estetica. 4. A una dialettica del dialogo è connaturato l'atteggiamento allegorico che riconosce se stesso nella scrittura come sistema convenzionale di segni senza alcuna naturale e immediata relazione col loro significato. Come ci ricorda Benjamin, l'intenzione allegorica è di genere dialettico e di natura storica e sociale: la convenzionalità dei significati chiama in causa infatti un'arbitrarietà non individuale ma collettiva, uno statuto comunitario che fonda la leggibilità dei significati e dunque la loro validità intersoggettiva e che perciò trasforma l'iniziale arbitrarietà in legittin:iità relativa e storicamente determinata. Indubbiamente anche i decostruzionisti come de Man o Bloom scelgono il terreno dell'allegoria. Ma il loro modo di misurarsi con l'allegoria è ben simbolico, se per l'uno essa non è che una conferma dell'illeggibilità di una struttura retorica ontologicamente considerata (giacché l'interferenza in essa fra livello letterale e livello retorico-metaforico porterebbe a una loro mutua negazione o reciproca decostruzione), mentre per l'altro essa salva dall'ottusità della storia attraverso il riferimento gnostico all'assolutezza e all'unicità di una scintilla divina che redimerebbe dal temporale e dal contingente. Sfugge a entrambi che la razionalità dell'allegoria è il presupposto stesso della razionalità comunicativa (come la chiama Habermas) che presiede a ogni operazione linguistica di tipo anche letterario. Anzi è merito di Habermas ribadire - in significativo accordo con la ricerca svolta in Italia, anni fa, da Galvano Della Volpe- che l'unità della razionaCentri del dibattito lità è presente nell'arte non meno che nella scienza e nell'etica, tale unificazione essendo data da una pragmatica dell'argomentare che è nell'atto linguistico in quanto tale. L'affermazione gadameriana che l'interpretazione è «la struttura ·originaria dell'essere-nel-mo11do» è del tutto coerente coi presupposti di una dialettica del dialogo: ogni interpretazione infatti è razionale, non fosse altro perché presuppone nel testo una razionalità e una convenzionalità che lo rendono intelligibile. È razionale insomma sia perché ogni interpretazione non può fare a meno di criteri razionali, sia perché ogni testo non può sottrarsi mai del tutto ai principi habermasiani di comprensibilità, verità, giustezza e veridicità. Nella concretezza della dialettica del dialogo si realizza in realtà un intreccio cooperativo di strategie di scrittura e di strategie di lettura. Anche da questo punto di vista, -appare chiaro l'uso che Habermas fa della lezione di Gadamer. Mentre ne respinge il concetto di tradizione e l'ontologia del linguaggio che lo istituisce, egli qui ne sviluppa un preciso assunto: è Gadamer infatti ad affermare che ogni interprete muove sempre dal presupposto razionale della perfezione del testo. La continuità tra Gadamer e Habermas si sviluppa dunque sul terreno della dialettica del dialogo, ed è proprio qui che il confronto con l'ermeneutica appare oggi più aperto e più suscettibile di sviluppi. Ma è chiaro che questo è il terreno piuttosto di un'ontologia dell'essere sociale. 5. Considerata dal punto di vista dell'ontologia dell'essere sociale, la prospettiva ermeneutica vede messa in discus-, sione la natura originaria e fondativa, idealistica, problematica del linguaggio, ma può valorizzarnè invece l'aspetto pragmatico, dialettico, dialogico. Nella prospettiva dell'ontologia del linguaggio, la dialettica di domanda e risposta rischiava di essere ridotta a una larva formale: è il linguaggio - un linguaggio assolutizzato e destoricizzato - che si interroga e si risponde in una ricerca sostanzialmente tautologica: il linguaggio può trovare sempre e soltanto se stesso. Nel circolo ermeneutico teorizzato da Gadamer sia l'interprete che il testo si presuppongono a vicenda, si possiedono mutualmente. Precomprensione e tradizione infatti coincidono, cosicché tra familiarità ed estraneità il primo elemento ha un sopravvento costitutivo rispetto al secondo. Il rap- .porto interpretativo non si pone come esperienza dell'altro ma come un autoriconoscimento: secondo l'atteggiamento simbolico, nell'autre è sempre presente il meme. Sviluppatasi nell'ultimo ventennio a partire dalla giusta esigenza di mettere in discussione lo scientismo o l'oggettivismo strutturalisti, la koiné ermeneutica si è però sbilanciata in senso relativistico non senza rischi di soggettivismo in alcuni casi e di derive nic~ilistiche in altri. Invece di considerare in tutta la sua ampiezza la dialettica del dialogo con l'interscambio circolare che essa comporta fra le categorie di soggetto o di oggetto e di attivo-passivo, essa si è limitata a valorizzare unilateralmente il primo aspetto. Nel campo della critica letteraria, ciò ho indotto a porre un accento esclusivo sul momento della lettura e sull'atteggiamento dell'interprete; e a considerare la domanda piuttosto che la risposta, le aspettative e l'orizzonte· di attese del pubblico e non anche la semantica testuale. [... ] Mauro Staccio/i pagina 39 Il dibattito a Siena Pietro Cataldi L a riuscita del convegno internazionale Sull'interpretazione. Ermeneutica e testo letterario proviene da più motivi: l'org~nizzazione serrata e il carattere rigoroso dei lavori (cui hanno partecipato, d'altronde, studiosi di livello internazionale), la fondatività teorica delle problematiche affrontate, il lavoro preparatorio svolto nel biennio precedente dalla redazione della rivista «L'ombra d'Argo» (della quale è da vedere soprattutto il fascicolo n. 9, uscito in occasione del convegno). • Il significato del convegno va però al di là di queste ragioni in qualche modo contingenti, e rinvia soprattutto alla volontà di uscire da un certo ristagno dell'ultimo decennio rilanciando una volontà di dibattito e di progettualità. In questa direzione costituiscono due precedenti molto importanti sia il convegno Ricercatori & Co. (Viareggio, 26-28 marzo) che quello Riviste e tendenze della nuova letteratura (Lecce, 9-11 aprile). In tutt'e tre queste occasioni è emersa con sufficiente chiarezza l'apertura di una fase nuova nella ricerca teorica e critica, legata all'esigenza espressa ormai da molti di una nuova razionalità da opporre agli orfismi di questi anni, di una riaffermazione della storicità del moderno da attuare, oltre che attraverso il superamento delle secche del post-moderno, per mezzo della scelta fondativa di una tradizione e di un progetto - e cioè attraverso un rapporto critico e dinamico sia con il passato che con il presente. È evidente che tutto ciò riguarda un orizzonte che non è solo culturale (né, tanto meno, solo letterario) ma anche politico, e come tale irto più che mai di difficoltà e di conflitti; e però la novità di questi ultimi mesi sta forse proprio in questo riaprirsi di un rapporto tra intenzioni culturali e intenzioni politiche, o nell'aspirazione a tale rapporto. Il nome che è forse risuonato più frequentemente nelle parole_degli intervenuti è quello di Stanley Fish. Benché nessuno abbia riconosciuto alle sue posizioni un grande valore teorico, molti ne hanno utilizzato la esemplare provocatorietà per prendere partito riguardo alle questioni sollevate. Se Fish afferma che «l'interpretazione è fonte stessa di testi, fatti, autori e intenzioni», già nella seconda relazione del convegno (Ermeneutica e testo letterario), Romano Luperini, ~riticando il relativismo sconfinante in aperto nichilismo del critico americano, difendeva la concretezza pragmatica della comunicazione e, per quanto concerne la letteratura, il vincolo ineludibile della semantica. E già Ezio Raimondi, nella relazione introduttiva (letta, in sua assenza, da Niva Lorenzini), aveva affermato il «fine semantico» dell'ermeneutica, dato che «il problema finale, anche nella critica, è quello sia di comprendere che di essere compresi» e che quindi sia «la modalità etica del leggere» che quella «filosofica» hanno a che fare con la «retorica». Su questi punti di riferimento il dibattito si è sviluppato, e prendere posizione riguardo a Fish e al suo far divenire il testo una mera funzione dell'interprete, è divenuto per tutti implicitamente inevitabile. Lo ha fatto subito, il pomeriggio del primo giorno, Franco Brioschi (Platonismo e nominalismo nella teoria dell'interpretazione), forse il relatore più disposto a mettersi sulla lunghezza d'onda di Fish, eppure interessato anche a distanziarsi dalle conseguenze più irrimediabilmente nichilistiche di quello. Brioschi parte dalla constatazione kantiana della non autoevidenza degli oggetti e della necessità, ai fini della conoscenza, delle categorie del soggetto e rivela il proprio legame con l'ermeneutica concependo il vedere come proiezione attiva di un linguaggio. Ma il suo riferimento alla tradizione empiristica gli impedisce di accogliere integralmente la liquidazione dell'oggetto rispetto all'azione dell'interprete, e piuttosto lo porta a riconoscere una possibile oggettività nell'attribuzione compiuta dal soggetto, quando questa è inverata dal «successo» del suo rapporto con il mondo oggettivo, dalla sua riuscita coordinazione con esso. La forza dell'oggetto non è del tutto dimenticata se ad essa il soggetto deve adattarsi per ottenere tale successo e tale coordinazione. Alla pura convenzionalità del momento fondativo e interpretativo di Fish, Brioschi sostituisce la pragmaticità delle convenzioni, decisiva nella regolazione del rapporto soggetto-oggetto; ma tutta inverata nel momento interpretativo e priva di verificabilità al di fuori di esso. Una vigorosa difesa dei diritti del testo ha condotto nel corso del dibattito Marcello Carlino, accusando lo sconvolgimento delle regole della critica sostituite da quelle del mercato inteso in senso liberistico. Poste al bando teoria e metodo, soli garanti storici del dialogo testo-interprete, gli orizzonti si fondono nel nome della comunità interpretante, senza che il testo possa mai porre domande né affermare la propria specificità, costretto invece a dissolversi sotto il peso di regole estrinseche, sempre incomprensibile e indicibile se non in riferimento ad un imprendibile testo mitico sullo sfondo: quello demistificato da Benjarpin con la proposta dell'allegoria. Mentre le critiche di Carlino si riferivano soprattutto a Derrida e al decostruzionismo, colpendo solo indirettamen- •te la posizione relativistica in qualche modo riaffermata dalla relazione di Brioschi, Francesco Orlando interveniva in dichiarato dissenso da quest'ultima per affermare (seconho il modello analitico) !?esigenza di difendersi dalle proprie proiezioni egocentriche sull'oggetto, dato che più si proietta se stessi sull'altro meno si può capirlo e conoscerlo.

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