Alf abeta 103 I pacchet~i di Alfabeta pagina 35 Rasse= a , di tradizioneermetica U na sottolineatura singolarmente opportuna alla definizione di «simbolo» come funzione di «comporre, di mettere insieme quanto è stato arbitrariamente diviso» che Carlo Formenti adduce nel suo libro Prometeo e Hermes. Colpa e origine nell'immaginario tardo-moderno (Napoli, 1987) viene da Giampiero Comolli nell'osservare («Alfabeta» n. 97) che in tale accezione il simbolo si sottrae all'imperio del segno e si mostra come «una modalità dell'essere, della realtà». Il simbolo compone tra di loro tutte le cose dicibili e sensibili e tutte le cose indici-' bili e impercettibili, lasciando che si accumulino insieme in una materia scossa e mossa da creazione virtuale (la materia del Timeo platonico), svelando una materia primordiale della mente, come mente. Nei termini simbolici il primordiale è per l'uomo un continuo atto di nascita. Una ripetizione. C'è un duplice ripetere: uno stanco e uno tensivo. Di questo secondo tipo è il provare con passi, ardui passi, le fonti mentali, il ripetere la forma, la formula volatile del symbolon. Un continuo atto di nascita - com'è la danza. A furia di ripetere, di ripetersi, ci si annienta, si scompare: si scompare come uomini, si nasce danzatori, danza stessa, puro movimento. Così il simbolo per l'uomo pone riparo all'assenza dei primordi. In questo senso è anche vero che il simbolo include il segnico e i suoi caratteri polari; ma non è viceversa. Di modo che per «simbolo» posso intendere pure ciò che mi pone in grado di essere ciò che non sono ancora o non sono più e forse non sarò mai, di essere dove non sono ancora o non sono più e forse non sarò mai. Nel simbolo si vive la fine e insieme i primordi dell'umano, si sperimenta l'eccesso che si apre, che anticipa albori inumani, forse transumani. Ed è a questo punto supponibile che nel simbolo fluttui anche il segreto di quel modo d'essere umano che è il «moderno»,_ che oggi tanto ci prende ed •ossessiona, che vi ritorniamo sempre. Giacché qui è la nostra separazione, la nostra ferita cosmica, qui i punti di sutura possibili, la rimarginazione. Come è potuto accadere che, con la modernità, l'uomo si sia separato da se stesso, dalla comunione col cosmo, col proprio corpo come corpo dei sogni, della visitazione divina, della potenza magica creazionale primordiale? Come è potuto accadere che, uscendo dal se stesso simbolicamente intero, sotto la signoria dell'eros unificante, abbia voluto trasferire, espugnandone il sonno-sogno, tutte le sue facoltà mentali al solo polo della veglia, chiamata ego cogito, rinunciando, per una striscia di «realtà» del pensiero, alla sua natura di veicolo cosmico pneumatico? Ciò pone nel concreto anche il problema di come intendere il passaggio dall'uomo erotico-simbolico rinascimentale all'uomo scientifico moderno. Se si considerano le più disparate voci della letteratura su Rinascimento ed Età moderna, si rimane colpiti da un perdurante stupore circa questo enigmatico passaggio, dalla percezione di un nodo problematico ,ancora fitto. Tra queste voci spicca l'opera di Ioan P. Couliano Eros e magia nel Rinascimento. Osserva Couliano: le scienze rinascimentali (magia, medicina, astrologia, alchimia) non recavano traccia di crisi dal punto di vista ideologico, della fiducia che si nutriva in esse, e la scienza moderna fa la propria comparsa «proprio quando non se ne aveva bisogno» (p. 269). Una parte almeno di quest'enigma storico è che i fattori alla base dell'evoluzione che Rubi a Giorgi porta all'avvento della scienza moderna sono di carattere «regressivo» sul piano psicosociale e «reazionario» su quello sociopolitico (p. 9). Nella cultura del Rinascimento c'è fantasia e natura, grande libertà d'immaginazione e d'intelletto, forza dell'eros, principio del piacere: nella cultura dell'età moderna vige l'ordine, il principio di realtà. La cultura del fantastico che è il Rinascimento attribuiva un peso grandissimo ai fantasmi - che sono idoli suscitati dal senso interno e mediante i quali gli uomini comunicano tra di loro e con le forze naturali e transnaturali, demoni e dei (p. 282 e sgg.). Sulla ventata di liberalismo che aveva pervaso la Chiesa in epoca rinascimentale irrompe la Riforma protestante come un «movimento radical-conservatore» operando o influenzando, in entrambi i campi, riformato e cattolico, una stretta d'intolleranza verso la magia, l'eros e le «scienze» rinascimentali. ' E la «grande censura del fantastico». Di conseguenza si ebbe la cessazione oppure l'occultamento di quelle occupazioni, studi magico-alchemici, astrologici o comunque inseriti nella «tradizione ermetica» che prima avvenivano alla luce del sole (basti nominare Keplero e Newton). Per un processo che ricorda da vicino - osserva Couliano - la selezione naturale delle specie, alla «rivoluzione scientifica» moderna è accaduto di poter attecchire nella tempesta ideologica del XVI e XVII sec. non come l'uccello del paradiso partorito all'improvviso dalla Provvidenza o dalle leggi della storia bensì come la mosca aptera che, in generali condizioni sfavorevoli alla sua vita, si è trovata una nicchia ecologica di sopravvivenza e ha potuto passare inosservata (p. 270). Ma qui dobbiamo tornare a quel termine che in mancanza di meglio abbiamo chiamato «passaggio» (dalla mentalità rinascimentale a quella moderna). Nessuno più dubita della cospicua presenza di elementi della «tradizione ermetica» ed occultistica neoplatonico-rinascimentale nella «rivoluzione scientifica» grazie all'opera di F. Yates nel sµo complesso, agli studi di C. Vasoli, di P. Rossi, di A.C. Crombie, di A.G. Debus e di altri. Keplero e Galilei sono imbevuti di misticismo pitagorico. Bacone e Cartesio sono sospetti di simpatie rosacrociane; e si· potrebbe continuare. Tutto porta a scartare l'avviso che la presenza di elementi «mistici» nella nascente mentalità moderna sia da considerare alla stregua di residui morti. Ciò che evidentemente va scartato è il modo lineare, progressivo di intendere il movimento della storia delle scienze e delle mentalità. E peraltro nemmeno la visione del mutamento tra epoche, come frattura radicale tra mondi incomunicanti, è tale da soddisfare. Couliano, dopo aver sottolineato gli aspetti di sopravvivenza rinascimentale in età moderna, dice però di trovare incommensurabili tra di loro le visioni del mondo delle due epoche (p. 9 e sgg.). Una sorta di ambiguità e di oscillazione sembra operar.e nel lavoro di Couliano. Ma l'ambiguità è nella cosa stessa, cioè nell'intero virtuale dispositivo interpretativo. Si potrebbe pensare a flussi di elementi compositi con dominanti di volta in volta differenti (Couliano parla di mutamenti dell'immaginario). Si può pensare che si mescolino elementi di continuità con elementi di discontinuità in un'epoca rispetto alla precedente e che peraltro, per graduali aggiustamenti linguistici e concettuali, la visione del mondo si decanti come radical- .. mente diversa. Ma può anche darsi che si debba decidere di non poter staccare la posizione dell'osservatore dal flusso osservato e che non sia legittimo circoscrivere una «visione del mondo», che sarebbe pur sempre una sorta d'ideologia lineare. Le cose che c'erano si rivelano abbastanza indistruttibili, e ci sono forse ancora. Che il Rinascimento sia finito, che la «tradizione ermetica» sia finita, che la «modernità» sia finita, sono cose che insieme si possono e non si possono dire. Siamo noi che tentiamo a tutti i costi di vedere i «passaggi». Con ciò operiamo una falsificazione, in assenza della quale, tuttavia, verrebbero a mancare gli elementi di supporto per leggere la storia. Dobbiamo forse porre sotto una doppia logica anche l'epistemologia storica. Penso alla «dialogica» di Edgar . Morin che regge il pensiero della complessità; ma anche alla «bi-logica» di Matte Bianco che combina una logica semplificatrice, difensiva, riposante (aristotelica) con una logica simmetrica altamente inquietante per la quale il dopo può trovarsi ad essere il prima, il.figlio il padre, il morto il vivente. Cos'è che tiene insieme le due logiche? Sempre il simbolo, fonte di differenze conviventi. I «passaggi» tra le epoche non sono allora che il mulinello simbolico che porta con sé anche l'osservatore: ci troviamo implicati, anzi «complicati», così che in certo senso le epoche e gli eventi sulla cui fine c'interroghiamo ricominciano in noi. Ciò è soprattutto vero per l'epoca storica della «modernità», che si è colmata, per così dire, di un modo di essere eterno dell'umano: separare per culminar~. Come non riconoscere che l'uomo cartesiano che noi ancora siamo continua a dividere per dominare; e che il simbolo che è in noi continua a cancellare le demarcazioni, i paletti difensivi? Cartesio teme la sua parte sognante, le «acque profondissime» in cui è immersa, l'instabilità che gli procura. Tenta, si direbbe lungo tutta la sua vita, di confinarla rinunciando a quella porzione di realtà (cosmo, immaginazione) che le corrisponde. Il teatro della modernità è la scena del contrasto, manifesto o travisato, dell'io penso con l'io sognante (un io dagli organi simbolici), coi suoi fant~smi. È Amleto, l'Amleto shakespeariano, che affronta, tra molte finte proporzionate all'orrore, quella porzione di realtà e il timore della «contrada sconosciuta» che è fatta, in virtù del simbolo, dall'equivalersi della morte col sonno-sogno. Una lettura dell'Amleto secondo la doppia logica accennata e con l'apporto delle ipotesi ermeti- ' co-magiche di F. Yates su Shakespeare sarebbe illuminante su questo nostro terreno accidentato. Ci limitiamo ad un accenno. Nell'Amleto apprendiamo di essere sotto le insegne della «fortuna», del «pericolo», della «morte»: dell'instabilità e dell'insicurezza radicali. Shakespeare non manca di pensare al gioco delle marionette e al burattinaio che lo regge (c'è anche una mistica della marionetta cosmica da Omero in poi). E tuttavia incombe all'uomo di fare dell'uomo un'opera d'arte, o di riconoscere in lui una potenziale opera d'arte: «Che opera d'arte è l'uomo!{. . .]. Come assomiglia a un angelo per le azioni e a un dio per lafacoltà di discernere!». Ma l'uomo si sottrae tenacemente a tali angelicità e divinità potenziali. E così nasce l'epoca moderna: qualcosa è stato rifiutato. Esso resta come un «fantasma» e un «comando». Ecco le due parti della modernità, che il simbolo compone e che l'uomo moderno tende a separare. Ma, su chi separa, l'azione della parte non vincente (fantasma e sogno) è più forte che mai per la violenza di compattazione del simbolico. Così che il separato ha un influsso più forte che se fosse unito, e crea l'illusione di forze opposte in processo di scissione: l'illusione dei «passaggi» storici. Ciò ch'era morto è dunque più che mai vivo. Shakespeare ci offre una misura troppo colma per ogni verso dell'umano per non indurci a supporre che intenda richiamare il nostro sguardo su limitari estremi dell'umano stesso, là dove il simbolo può colmare le nostre figure difettive, mostrarci non soltanto dove siamo e cosa siamo ma anche dove non siamo e cosa non siamo. Egli ci suggerisce forse una seconda visione, esoterica, del fantasma e del suo comando; una visione doppia della «fine» del «mare di affanni» di cui parla. il monologo di Amleto. Ci suggerisce di ledgere la morte di cui gronda il suo teatro, per un lato fine e vanità del vivere, come una meditatio mortis ( o una meditatio vitae, è lo stesso) rigenerante. La «modernità» dunque è qui, nel nostro momento, come qui sono inizio e fine? Si potrebbe obiettare a una tale compattazione simbolica di elementi (con-iectura) che un simbolico siffatto è tutto e nulla: le epoche studiate sulla sua base non si distinguono in veri mutamenti. L'obiezione prova appunto l'estrema difficoltà di sradicare in noi la mentalità succedanea a favore di una mentalità simultanea. Bibliografia Reason, Experiment, and Mysticism in the Scientific Revolution, M.L. Righini Bonelli and W.R. Shea Editors, New York, SHP, 1975, pp. 320. Ioan P. Couliano, Eros e magia nel Rinascimento, Milano, Il Saggiatore, 1987. Frances A, Yates, Giordano Bruno e la tradizione ermetica, Bari, Laterza, 1985; L'arte della memoria, Torino, Einaudi, 1972. Gli ultimi drammi di Shakespeare, Torino, Einaudi, 1979. Giovanni Raboni
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