Alf abeta 103 niamo il fiato, non ci meraviglieremmo se all'improvviso uno dei due scoprisse tendenze omicide, e procedesse a sopprimere barbaramente la prole. Se non lo fa il genitore, se ne incarica il caso, come avviene appunto nelle due versioni della «storia» in questione: la madre ordina una torta per il figlioletto, in vista del suo compleanno, ma un banale incidente d'auto lo ferisce amorte, senza quasi che la madre se ne accorga; quanto meno, c'è in lei il proposito di ridurre la coscienza del fatto, di rimuoverla, di trovare consolazione, alla fine, mangiando la torta assieme al pasticciere che l'ha confezionata. Vero è che la torta si muta anche in oggetto epifanico, e che questa, del resto, è la virtù che impregna di sé quasi tutti i detti e i fatti dell'enorme «sciocchezzaio» redatto da Carver. Per dimostrare che non siamo in vena di tutto ammettere e includere entro le maglie del minimalismo, potremmo ora decretare un'esclusione ai danni di Jay Mclnerney, Roberto Mussapi Luce frontale Milano, Garzanti, 1987 pp. 80, lire 15.000 Paolo Ruffilli Piccola colazione Milano, Garzanti, 1987 pp. 128, lire 16.000 D are conto del titolo (antifrastico), significa anzitutto ammettere che nel paesaggio odierno della poesia non opera nessuna koiné, linguistica e non (come invece nel campo attiguo dell'ermeneutica), nel senso che non opera alcuna linea vincente e che tutte le ipotesi di lavoro sono legittime. Le cause risiedono nella generale spinta centrifuga del socioletto letterario e nell'elasticità progettuale dei soggetti. Che poi, alla lunga, la poesia ridiventi in toto propositiva, allontanando quell'istanza che è costitutiva dell'autore, è altro discorso. Dunque, se dovessimo dare retta alle formule dei fogli massmediali, Luce frontale, di Roberto Mussapi, apparterrebbe all'area cosiddetta «orfica»; bisogna subito sgombrare il campo da facili e fuorvianti indicazioni, giacché, se per Curtius, la radice orf sta per oscuro, i versi di Mussapi sono soltanto scuri, trascorsi da un'acqua gelida e fangosa, ma non oscuri, se un escatos, programmaticamente cristiano, li riscatta in una superiore strategia della luce. Il cammino è quello rettilineo, proprio di una temporalità religiosa, cioè comprende un percorso difficile ma sicuro nell'approdo: l'esistenza ne esce semplificata e schematizzata (forse per fini difensivi). L'orfismo non è attraversato né come esperienza ascetica e di purificazione, sia intellettuale che corporale, (che anzi, la materialità risulta, fin dagli inizi, rimossa da un'ossessiva e spiritualistica prevalenza della metafora del vedere), né da un autentico effetto di spaesamento per il diverso verbalizzare dellè forze ctonie. Non può sussistere (ci si passi il doppio calco heideggeriano) alcun rimpatrio nella terra, in ciò che svelandosi anche si sottrae. Si vuol dire, semplicemente, che tutto è stabilito e appreso prima, che la fede-fiducia nella rinascita nella societas vieta pure la mitologia cognitiva ,del viaggio. La «quarta» di copertina parJal di «solitudine del verso»: anche in questo C<;tso non penso ci si riferisca all'iposta~i di Kern che intende orfismo come derivazio~ I pacchetti di Alfabeta che pure usualmente viene incluso nel gruppo, a cominciare dall'«opera prima» tradotta da noi qualche anno fa, Le mille luci di New York, e continuando col recente Riscatto. La disposizione d'animo di questo narratore è analitica, portata alla sovrabbondanza, all'eloquenza, che sono virtù opposte a quelle degli autentici minimalisti: lo si vede già a occhio nudo constatando la mole dei suoi due romanzi. Certo, trova conferma il connotato della «normalizzazione»: si tratta delle vicende di un giovane newyorkese di ceto medio-alto (quasi un personaggio alla Leavitt), ma sorprese non già attraverso sapienti tagli, campioni ridotti e concentrati, bensì attraverso una diffusa cronaca che ci fa sapere tutto di lui: gli affanni nella carriera di addetto all'industria culturale, e dunque a una professione tipicamente in regola con la società del terziario avanzato. Ci sono le inevitabili concessioni all'estasi raggiunta via droga o via alcolismo, ma in termini ne da orfanos (solitario). Per Kern, al «solitario» è necessaria e essenziale l'esperienza dell'Ade (equivalente dell'interrato e del profondo). La «nominazione» infinita dei testi di Mussapi si giova di una fluida pratica metamorfica (ma che reca con sé i segni della fatica della vita-scrittura), di quella cifra della metafora assoluta (Blumenberg e Weinrich) che è la liquidità. L'avanzare analogico è frenato dal pondus dell'Eliot più ossequioso e sottoposto alla prevaricazione pedagogico-didascalica dell'allegoria elevata a sistema. È proprio qui, dominando e scontrandosi con la metafora, che l'allegoresi produce uno iato e un'aporia irrimediabile nel tessuto di Mussapi, che si trova allora dotato d'una apertura (a doppia valenza) imprevista. Lo stile, descrittivo, non privo di schegge e guglie sublimi, comportamentalmente lento, s'appaia nell'omologia dell'attesa e della solennità, appena mosso dal bradisistico «passare» della fictio tragica d'una città un po' reboriana, elettrica e primonovecento, d'una provincia battuta da una pioggia che rimanda ad alcune sequenze del Quaderno gotico di Luzi. E nel passaggio, nello spostamento da pioggia a fango e viceversa, si mescolano distruzione e fecondazione, cambiamento e salvezza. Tutto ciò mi pare provato in sede strutturale (cfr. la posizione di clausola della sezione eponima e della lirica riepilogativa e metalinguistica che chiude il libro, intitolata Metamorfosi). Se la critica è, per conto mio, ancora collaborazione e smascheramento, così la poesia, nella sua potenzialità giudicante e argomentativa. È il caso di Piccola colazione, di Paolo Ruffilli, che, con crudezza, pone anche la sembianza di sé nel «processo» che intenta alla norma dell'organizzazione piccolo-borghese (uso il termine nella medesima accezione, non vincolante e ironica, di Ruffilli, la cui poesia si fa apprezzare perché dietro la leggibilità e godibilità, dietro la leggerezza e trasparenza, ben altro cela ed evoca tramite repentini cambi dei ritmi e delle intonazioni). La satura che ne discende rende spuria e sporca la linearità programmata dei testi. Seguendo le pertinenti osservazioni del prefatore Pontiggia, le poesie, sulle prime, confermerebbero l'ordine mentre, in realtà, infittiscono e minano dall'interno sia i significati che gli istituti formali. Operazione non nuova, ma che stabilisce e conferma un legame vivo e fervido con la Tradizione, nonché la forza ineabbastanza normali e consueti, lontani da una dannazione irreversibile; e ci sono pure i problemi di relazione inerenti alla «coppia», anch'essa normalmente eterosessuale: una moglie carrierista abbandona l'eroe del primo romanzo di Mclnerney, che ne trae l'impulso per «lasciarsi andare». In fondo, il materiale umano è il medesimo di uno qualsiasi dei racconti di Carver, ma non c'è la magia stilistica, l'invenzione nell'inquadrarlo, nel concentrarlo in pochi elementi di forte spessore. E tuttavja non si poteva negare, a quella prima prova, una qualche adesione di simpatia, proprio perché il materiale di base ci appariva valido e onesto. Questo tipo di consenso non sopravvive di fronte al romanzo successivo, in cui, come dice il titolo, (ribadito dal nome del protagonista, Cristopher Ransom), questi tenta di riscattare lo stato di abbandono e di abiezione cui era giunto al termine della puntata precedente, e si reca allora in Giappone per sauribile della parola come attività del comprendere e dell'interpretare, specie se affronta la ricchezza enciclopedica dei codici nella distanza intertestuale e temporale. Facendo interagire Metastasio e Gozzano, la coscienza critica della lingua non solo mette in discussione le leggi e le infrange ma le trasgredisce (per dirla con Raboni a proposito di Penna) per tenerle ancora in vita. Di conseguenza, il genere adoperato non può che essere il poemetto e la figura retorica l'ironia, non tanto maieutica quanto sado-masochista. L'orchestrazione intende predisporre la plurivocità e la dialogicità di un Bildungsroman, oltrepassando anche gli interdetti dei livelli metrici, della deissi e delle personae, in un continuo scambio e bisticcio di voci. In questi modi (opposti al consueto frammentismo orfico) può forse realizzarsi, a mio parere, ciò che Heidegger auspica quando parla della poesia come morte della metafora e della metafisica. Senza mediazioni, l'ambiguità del racconto, del falso parlato e prosa, mostra per evidentiam l'impotenza della poesia ad afferrare la sostanza dell'esistere nei termini dei sensi e della percezione: la finale ironia salvifica non può nascondere la tragedia liberatrice che costringe la poesia a parlare altro. Più di ogni avventura metafisica, conta il peso del mare magnum della quotidianeità, la cui navigazione è inferno ben più pericoloso di qualsiasi immaginario. Nei suoi confronti, Ruffilli adotta un'accorta, cinica e patetica strategia di defezione, occultamento, vendetta, assai vicina ai principi di un suo maestro riconoscibile, Giudici. Così il ménage matrimoniale è effratto da glossolalie e filastrocche, fantasie erotiche, da fughe nella memoria infantile, che hanno il compito di ristabilire un minimo d'entropia, deviando nell'umorismo l'intera carica aggressiva. Il risultato assume le tinte di un compromesso precario e instabile tra desiderio, da una parte, e principio superegoico dall'altra. Comunque sia, spesso il mor~orio e il chiacchiericcio instancabile che fa da basso alle scene dei poemetti è analogon fonosimbolico perfetto della vacuità di un codice senza significato (giustamente si cita la frase di Lacan: «Per il fatto stesso che si parla, ciascuna cosa non è quella che è. Il simbolico è l'assassino della cosa»). Ma il mormorio, oltre a ipersignificare la lontananza, l'estraneità tra le cose e i nomi, al contempo ne costituisce la riempitura quapagina 33 darsi alle arti marziali del karaté e, di riflesso, a una disciplina di vita austera; ma curiosamente egli mette in tutto ciò quello zelo, quella buona volontà con cui, a Manhattan, avrebbe dovuto affrontare i compiti a lui imposti dalla nostra civiltà occidentale. O in altre parole, Ransom resta uno zelante cittadino statunitense emigrato, un turista a tempo indeterminato nel Paese del Sol Levante, di cui ammira l'efficientismo, seppure rivolto in direzioni non produttive. Beninteso, Ransom si porta dietro un po' della trascorsa bohème anche a Kyoto (dove è ambientata la vicenda), né manca di essere scosso dal ricordo di compagni come lui, bruciati dalla droga. Ma la «normalizzazione» qui agisce in senso negativo, riduttivo. E pare quindi spropositata la decisione di portare Ransom a un sacrificio finale, facendolo massacrare in duello marziale da un collega brutale e collerico (che, ovviamente, è un reduce dal Vietnam). le infinito intrattenimento, misura del nulla e del silenzio. La violenza e i pericoli della pulsione si manifestano soprattutto nell'ultima sezione, All'infuori del corpo, dove è chiara l'intenzione, assolutamente non mistica né ideale, ma materiale, di una deriva di stasi e riposo fuori dell'insensatezza perimetrale dei limiti fisici (pure del linguaggio). Possiamo riconoscervi, d'altronde, un'ulteriore diramazione del compromesso, cioè di un avvicinarsi alla foce senza fine, di un ritardo, di un rimando epocale. In una pendolarità siffatta passa tutta una vita. Questo scritto viene pubblicato postumo. Rendiamo così omaggio all'opera di un giovane critico e poeta, tragicamente scomparso nei giorni scorsi. Elio Pagliarani
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