Alfabeta - anno IX - n. 103 - dicembre 1987

POESIA ~~ NOVITA' RAINERMARIARILKE Poesiefrancesi a cura di P. Bigongiari eG. Zampa ANTONIOPORTA Melusina, unaballata seguitoda Rosacheride con un saggio di Niva Lorenzini JEANJOSIPOVICI Sottol'azzurrodeltuocielo poesie d'ispirazione Sufi JOLANDAINSANA Laclausura FRANCOBUFFONI Quarantaquindici ROBERTOCARIFI L'obbedienza RISTAMPE GIOVANNI RÀBONI Canzonettemortali 2• ed. PATRIZIAVALDUGA Latentazione 2• ed. COSTANTINOKAVAFIS Poesiesegrete 2· ed. Poesie erotiche 3· ed. GHIANNISRITSOS Il Funamboleola luna 2• ed. Erotica 3• ed. CROCETTI EDITORE Via E. Falck, 53- 20151 Milano Telefono (02) 35.38.277 Opuscula MartinHeidegger L'autoaffermazione dell'universitàtedesca L'arte e lo spazio Che cos'è la filosofia? L'abbandono ActaThomae ( 108-113) Il canto della perla VladimirJankélévitch L'ironia EmmanuelLevinas Il Tempo e l'Altro FranzDirlmeier Il mito di Edipo EricA. Havelock Dalla A alla Z Le origini della civil~à della scrittura in Occidente Ettore Sottsass C' est pas facilela vie (canzone africana) ltinera GeorgesDumézil Idee romane RichardWagner Religionee arte Opera F.M. Dostoevskij A.G. Dostoevskaja Corrispondenza(1866-1880) il melangolo pagina 24 problema che è posto dal caso Heidegger. Pier Aldo ha parlato del tentativo o dell'illusione di Heidegger di cavalcare il nazismo. Ora, la megalomania filosofica, oppure l'illusione di dominare l'effettualità sono entrambe espressioni di una dissonanza radicale tra pensiero specializzato e mondo reale nei suoi vari aspetti. Pur essendo d'accordo con gli interventi precedenti, mi sembra che questo distacco, divenuto nel nostro tempo clamoroso, debba costituire un problema capitale per noi, e non semplicemente una giustificazione della superiorità o della irresponsabilità dei filosofi ... Galimberti. lo penso invece che tra filosofia ed epoche ci sia una strettissima relazione. Heidegger pretendeva di parlare in modo trans-epoèale, e teorizza questa trans-epocalità nella filosofia, ma io ho il sospetto che egli sia stato tremendamente epocale e il luogo della epocalità - va a suo merito quello di essere stato epocale - lo individua lui stesso in quella intervista al direttore di «Der Spiegel» del 1966, poi pubblicata nel 1976, quando giustifica goffamente la sua partecipazione al nazismo con il fatto di aver intravvisto nel nazismo il venire a maturazione dell'epoca della tecnica: non è una giustificazione, fa acqua da tutte le parti, ma è incontrovertibile che Heidegger è quello che nel Novecento ha detto le cose più precise su questa dimensione; molto più precise di quelle che può aver detto Habermas, che può aver detto Luhmann, i quali si sono organizzati all'interno di questo sapere ormai condiviso e divenuto palese a tutti. Ma Heidegger queste cose le diceva nel 1927, con enorme precisione. Quando in Essere e tempo analizza questi aspetti, egli aveva capito questa riduzione delle cose a strumenti; e, secondo me, ciò era stato per lui sconvolgente, perché da un punto di vista biografico e psicologico Heidegger era un contadino, era un boscaiolo. C'è un bellissimo libro fotografico su Heidegger, pubblicato in Germania, da cui si può vedere il suo atteggiamento da contadino. Secondo me egli è stato sconvolto e traumatizzato dall'epoca della tecnica, ma l'ha c~pita bene. Ha capito, per esempio, che le soggettività spariscono, che si crea una sorta di soggettività meta-ind1viduale rispetto a cui i singoli soggetti diventano insignificanti. Sarebbe interessante vedere tutte le figure dello sradicamento, le figure dello smarrimento, .dello spaesamento proprio come crollo di questo modello con cui l'uomo si era da sempre interpretato attraverso impianti e categorie umanistiche. Queste cose Heidegger le dice esplicitamente e penso che sia stato il più bravo di tutti a capire il significato della tecnica. Egli era indubbiamente spaventato dal punto di vista psicologico. Ha poi mediato filosoficamente questo spavento come annuncio di quello che si attende. Sull'epoca egli ha avuto occhi molto acuti, direi che ha offerto una lettura epocale intelligentissima. Sono convinto che questo è uno degli aspetti per cui deve essere considerato il più grande filosofo del Novecento. Egli ha visualizzato la tecnica come dimensione che richiede che si rinnovino le categorie con cui l'uomo sino ad ora ha interpretato se stesso. Rovatti. Voglio ricollegarmi al finale dell'intervento di Dal Lago. . . L'effetto Heidegger agisce - per noi - proprio in questa direzione. Non deve allora sembrare bizzarro che vi sia stato un avvicinamento tra il pensiero (il travaglio di pensiero, se vogliamo dire così) di Heidegger e quello che in un dibattito recente è stato indicato come l'indebolimento del pensiero. Di questa questione, spesso e volentieri fraintesa, comprendiamo bene almeno un aspetto: se il pensiero si rafforza, se diventa pensiero forte, troviamo di conseguenza esaltati quegli aspetti di padronan-:: za di idealismo che coappartengono alla filosofia. Se invece andiamo piuttosto a ritrovare in Heidegger quello che Gianni Vattimo ha chiamato il «declino dell'ontologia», oppure per una via analoga l'indicazione - complessa e contraddittoria - verso un pensiero metaforico, comprendiamo bene come una filosofia che si identifica con la realtà sia il rischio massimo intrinseco alla filosofia stessa; mentre il pensiero che si depotenzia o tenta di depotenziarsi e riesce a creare, con tutte le contraddizioni e tutti i rischi, un gioco di distanza rispetto alla effettualità, è il suo modo di pensare che più ci riguarda e che possiamo «utilmente» evidenziare in Heidegger. Dicendo questo, non vorrei però che sembrasse che allora abbiamo una soluzione, e cioè che sia facile e conveniente staccare dalla filosofia il suo aspetto di padronanza e dominio. La lezione di Heidegger - per chiamarla così - ci suggerisce infatti qualcosa di più rispetto alla ulteriore e astuta rassicurazione che noi potremmo ricavare da questa operazione critica di depotenziamento. Il fantasma del Geist, insomma lo «spirito», ritorna sempre nella filosofia, come scrive opportunamente Derrida. Heidegger ci fa vedere come il depotenziamento non è mai del tutto realizzabile e come resti sempre da fare un lavoro di distruzione della filosofia stessa. Possiamo intendere così la polarizzazione, da un certo punto in poi, del pensiero di Heidegger verso la poesia, cioè come un lavoro di erosione del filosofico e del suo potere. Ma poi, lungo la via di questo depotenziamento del pensiero, non è che il compito venga semplificato, non è che tutto diventi più duttile. Heidegger ci mostra che proprio in direzione della poesia noi troviamo non solo l'errare e l'errore del metafisico, ma anche la sirena dell'originario. E allora, tornando al discorso di rettorato, vediamo che lì Heidegger contrappone, alla tradizionale libertà dell'accademia, un'altra idea di libertà. Certo questa «altra» idea di libertà noi possiamo identificarla automaticamente con l'adesione di Heidegger all'effettuale, ma dobbiamo contemporaneamente farla entrare in risonanza con quella, in fondo, enigmatica idea di verità che Heidegger, dall'inizio alla fine, propone come uno dei fondamenti del proprio pensiero. Questa verità, come sappiaffi.o, non è possesso di qualcosa, anzi è zona di non afferramento, è spaesamento, luogo che sfugge: qui è più importante la zona di nascondimento che la zona di luce. Allora, da questo punto di vista, possiamo riattraversare il pensiero di Heidegger come una contraddizione ineliminabile ed essenziale anche per noi, e capire come vi sia certamente un indebolimento in tale pensiero ma anche (e drammaticamente) il trovarsi di fronte a se stesso. Autocritica della filosofia non vuol dire che la filosofia rinunci al suo compito. Il filosofo continua a filosofare, e anche l'Heidegger che continua a dire di no alla filosofia, e anzi proprio per questo, sa di dover restare in qualche modo nella metafisica. Marini. Di nuovo l'intervento di Rovatti mi sembra molto convincente (al di là delle formule, come quella del «pensiero debole», o del «pensiero forte»). Anzi, devo dire, proprio al di là delle formule questa· tesi è convincente. L'immagine che comunemente si può avere di un filosofo che sia stato nazista e abbia appoggiato il nazismo non prevede certo che questo filosofo si ritragga dall'impegno politico e dal conferire alla sua ricerca filosofica implicazioni pratiche. Si penserebbe anzi, proprio il contrario. E invece l'adesione di Heidegger al nazismo è stata una scelta, una decisione che Heidegger ha compiuto da un punto di vista che non aveva niente a che vedere e continua a non avere niente a che vedere - per coloro che vogliono correttamente interpretare questi fatti - con la pratica politica e con un discorso di carattere ideologico mentre aveva qualcosa a che fare proprio solo col suo pensiero! L'ottica di Heidegger era anche allora l'ottica trascendentale di un'aUievo di Husserl e la sua adesione al nazismo attraverso il problema dell'università e la carica di Rettore, è stata effettivamente un atto, che ha comportato molti piccoli compromessi che poi (come quello della tessera) posso immaginare si siano protratti per ragioni di sicurezza personale anche fino al 1945. Quello che conta, però, è l'ottica con la quale Heidegger allora prese un'iniziativa come quella che prese e il modo come la lasciò. C'è un saggio di Otto Poggeler intitolato Den Fuhrer fuhren, il quale allude alla pretesa di Heidegger di comandare al Fiihrer. Heidegger non vide la specificità del movimento nazional-socialista nella sua ideologia quale poteva essere espressa in Mein Kampf (non mi risulta neppure che l'avesse letto) non la vide neppure nei metodi di lotta politica né, diciamo, sotto la specie politologica, (come molti opportunisti, per es. E. Spranger), vide semplicemente il nazional-socialismo come un Aufbruch di tipo sociale, come lui stesso si esprime, cioè come una «rottura» nel tessuto di quel mondo costituito, al quale poi noi possiamo dare i colori della Repubblica di Weimar e della crisi post-bellica ecc. (e colori anche più truculenti). Questo tipo di mondo veniva, secondo lui, rotto da un evento la cui possibilità di determinazione era ancora tutta da vedersi. E qui ci fu la sua scelta di cui poi si ricredette perché questo risulta dai testi, e si ricredette pubblicamente, ma molto prima di sapere del genocidio o di vedere gli esiti orribili del regime, anche se in Heidegger non c'era nessun presagio «ideologico» di simili enormità future. Comunque sia stata, buona o cattiva, questa scelta, quello che ci interessa è osservare che m questa specie di idealismo emerge anche il tema dell'epocalità e non-epocalità: il mondo costituito, l'epoca, che ha la sua logica stringente dalla quale non si può uscire, la necessità di aderire a una logica di questo genere o la possibilità di evaderne. Secondo me questo fu proprio un episodio nel quale Heidegger espresse col suo comportamento Alf abeta I 03 stesso, di cui fa parte anche il Discorso di rettorato, un problema che poi è anche uno dei temi essenziali della sua riflessione e cioè quello del rapporto tra attualità e inattualità, epocalità o trans-epocalità, o come altrimenti lo si vuole chiamare. Cioè il tema di una necessaria tensione che esiste tra.il dato e la prospettiva totalizzante della riflessione filosofica, totalizzante o radicalizzante, a seconda che la vogliamo vedere in progressione o in regressione: comunque, la prospettiva della riflessione filosofica. A questo destino della riflessione filosofica, cioè di non essere mai a casa propria, ma di essere sempre al di qua o al di là di quella che è l'attualità politica, Heidegger ha tenuto fede in tutta la sua carriera (una carriera non proprio felice). Sarebbe facile riscrivere in termini teorici questo comportamento pratico di Heidegger. La discussione con Nietzsche, che Heidegger cominciò giusto in quegli anni, dopo i fatti del 1933 e del 1934, fu da lui sentita e concepita proprio come una discussione con quello che avrebbe potuto essere l'argomento e l'ideologia del nazional-socialismo e che apparentemente lo era, finché il nazional-socialismo assunse Nietzsche come filosofo tipico da proporre agli uomini del presente. Tutta l'analisi di Heidegger fu allora, per nove anni - in maniera indiretta dal punto di vista politico, ma in maniera diretta dal punto di vista teorico - una discussione radicale non col nazismo politico, né con la sua costituzione e i suoi atti politici, ma col nazismo in quanto manifestazione di un trend epocale che Heidegger, per la sua impostazione professionale, si sentiva tenuto a considerare nella sua purezza: e uno degli aspetti più puri di questo trend può essere identificato, come ha detto Galimberti, proprio nella tematica epocale della tecnica da lui ravvisata come dominante. Da questo punto di vista, ripeto, io non credo affatto che la cultura francese sia rimasta «sconvolta» dal libro di Farias, che tuttavia non ho letto, ma del quale suppongo che non possa contenere documenti più decisivi di quelli che sono già noti in Germania (pubblicati, dopo ricerche accuratissime, dal professore di statistica economica di Friburgo Hugo Ott). Da queste ricerche risultano, diciamo, tutti i fatti che possono scandalizzare l'uomo della strada. Ma purtroppo da queste ricerche di Ott, come anche da un certo modo di trattare questi fatti della vita di Heidegger anche da parte di altri studiosi - se ne potrebbero citare vari in Germania che hanno approfondito i fatti fino agli ultimi particolari, verificando date, nomi, retroscena e così via (tutte cose pubblicate) - risulta una singolare incapacità di impostazione del problema. Si pretende cioè, generalmente, di giudicare la personalità di Heidegger - che è determinata essenzialmente da un fatto fondamentale, che è il suo pensiero teorico - in base a fatti che viceversa non possono, data la personalità di Heidegger, che essere considerati secondari e dipendenti, e in base a questi, ricostituendo le connessioni di questi fatti, si finisce con l'immettere Heidegger in una serie di giochi di potere dai quali era, e rimane, completamente estraneo, ma alla radice (talmente alla radice da non rendersi conto neppure di come lo stessero 1.

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