Alfabeta 103 ferenza - che Heidegger cita nel- !' Intervista - a cui parteciparono varie migliaia di persone fu un fenomeno del tutto sconcertante: quella era la fama di un autore, qual era Husserl, che nessuno in realtà conosceva. Essa veniva sulle ali di una specie di mitologia: «È il più grande filosofo tedesco». Si andava a sentirlo, ma poi quello che in sostanza Husserl era in grado di dire alle folle, diciamo così, non era certamente niente di particolarmente focalizzato sui bisogni spirituali del tempo. Era qualcosa che poteva venire interpretato in molti modi e, visto superficialmente, si potrebbe benissimo considerarlo, come un po' di retorica della ragione, !'«eroismo della ragione» di cui si parla nella Crisi, ma non molto più di questo. I tempi non erano quelli in cui chi foss~ impegnato moralmente, politicamente potesse pensare in termini retorici. Erano tempi veramente di decisioni drammatiche, soprattutto dato lo stato di corruzione degli strumenti stessi dell'attività e dell'orientamento politico e morale: una situazione di «emergenza» diremmo oggi. L' «esoterismo» è un altro punto che è stato toccato. Su questo non posso pronunciarmi. Forse ci si può riferire al primitivo concetto germanico della Gefolgschaft o a certi motivi jungeriani. Penso che si possa parlare di sindromi collegate al duplice isolamento a cui mi sono riferito, ma_ l'esoterismo è una dimensione psicologica e culturale specifica per la quale mi mancano gli strumenti. Quanto alla distinzione autentico/inautentico, che effettivamente esiste in Essere e tempo, vorrei ricordare che, anche se non è estranea all'uomo - Heidegger (come a nessuno di noi), non è però uno specifico punto di vista né una scelta teorica e morale di Heidegger: è semplicemente la constatazione di una struttura ontologica dell'esserci. Heidegger la presenta come qualcosa di oggettivo che si rileva ad un'analisi fenomenologica dell'esistenza, quindi non è che faccia una scelta in questo senso e direi che su questo punto tutto l'esistenzialismo europeo ha equivocato circa Essere e tempo in maniera piuttosto grave. Direi che la distinzione autentico/inautentico, per l'impatto ideologico violento che sembra avere, netto, radicale, è molto più ravvisabile nella problematica dell' epoché fenomenologica husserliana che non in questo approccio di ermeneutica esistenziale heideggeriana. Contrariamente ai presenti, 10 non ho avuto la fortuna, la possibilità di leggere il libro di Farias. E quando un libro è pubblicato non c'è che leggerlo. Mi stupisce tuttavia sentir dire che la cultura francese sia rimasta «sconvolta» - il termine ricorre in una recensione italiana a questo libro - da una notizia come quella che si dice il libro di Farias abbia portato. Perché? Perché che Heidegger fosse iscritto al partito nazional-socialista, che abbia pensato addirittura che l'ascesa di Hitler fosse un'ottima occasione per fare grandi cose, (~econdo appunto quell'idealismo di cui parlava Rovatti prima), cioè che fosse il momento per inserirsi e far valere in università le ragioni del rinnovamento, lo sanno tutti da cinque anni almeno. Di «rinnovamento» dell'università parlavano negli anni venti anche i sassi in Germania, era il luogo comune, la chiacchiera addirittura, e non c'è da stupirsi che qualcuno potesse anche prenderla sul serio, come si fa appunto con le chiacchiere. «Il più grande pensiero del secolo» non dice una parola sul genocidio. Questo è un problema che, come riferisce Rovatti, si sarebbero posto certi giornalisti francesi. Questo è molto importante, invece. Jaspers, che è stato amico di Heidegger per molti anni, e che, fino alla fine, non ha mai denunciato questa amicizia, che, anche nel 1945, quando la commissione alleata di epurazione gli chiese un parere su Heidegger, contrariamente e Hartmann, per es. (che col regime se la passò benissimo) non lo condannò, ma si espresse in termini possibilistici nei riguardi di Heidegger, anche Jaspers, dico, di una sola cosa fu veramente deluso, e cioè che Heidegger non abbia detto: «mi pento di aver preso la tessera del partito nazional-socialista», «mi sento colpevole per il genocidio», ed altre cose di questo genere. Il fatto che Heidegger non si sia assunto questa responsabilità è una delle cose che gli venThomas Mann o di Ernst Cassirer non erano certamente nella mentalità ·di Heidegger. Per la sua mentalità valeva il principio dell'originario, del radicamento e della responsabilità in solido per l'essenza epocale del «fatto storico» alla quale, ritengo, non sfugge affatto. Circa la «rassicurazione», sono d'accordo con Rovatti. Anche a me pare che si tratti di uno stupore di questo genere, ossia che- si vorrebbe un pensiero retorico. Ma il pensiero di Heidegger non è un pensiero retorico, non rassicura e non è un pensiero pratico in generale, cioè non serve, sul momento, a nulla. Chi si avvicina al pensiero di Heidegger (e di Husserl) resta più solo di prima e deve vedersela direttamente con le situazioni del tempo. In questo senso il suo, proprio perché è un forte pensiero, è un pensiero debole, indifeso. Tuttavia, la tesi di Hanna Arendt, citata prima da Dal Lago, e cioè che il pensiero di un autore, di un filosofo, non debba essere messo m Massimo Mori gono in Germania, oggi particolarmente, rimproverate anche da chi gli vuole bene, anche da chi lo apprezza e vorrebbe difenderlo. Confesso che non condivido questo atteggiamento sentimentale. Io penso che Heidegger ha tentato subito, nel 1933, di assumersi il massimo della responsabilità. Heidegger ha fallito subito e ha ceduto il campo. Anche questo, subito. Chiedere ad una personalità come Heidegger di rifiutare la tessera nazista per il 1938 e il 1945 è forse ingeneroso, è un po' come chiedere a una persona il suicidio. Io mi stupisco che qualcuno possa stupirsi che un uomo che aveva preso la tessera il primo maggio del 1933 non finisca col rifiutare - e magari anche platealmente - la tessera in occasione del patto Molotov-Ribbentropp o, diciamo, il giorno dell'invasione della Polonia. Heidegger non era una persona che potesse pensare di trovare scampo all'estero, il cosmopolitismo, la visione internazionalistica, il pessimismo o l'ottimismo di rapporto con la sua situazione storica, non mi convince molto. A me pare una semplificazione eccessiva. Io penserei piuttosto che esistono, tra gli altri, dei fatti storici di un tipo che si chiama «un grande pensiero filosofico». Un grande pensiero filosofico deve poter essere considerato come un fatto storico ·alla stregua di qualsiasi altro. Anche se proprio qui casca l'asino! Io, siccome mi occupo di storia della filosofia, sono quasi costretto a sostenerlo anche se pèr caso avessi qualche dubbio. Ma non ho dubbi: esistono dei fatti storici di questo genere. Ora, la domanda vera sarebbe un'altra: qual è il fatto storico più difficile da interpretare: l'incendio del Reichstag del 28 febbraio del 1933 (di per sé una cosa da nulla, nonostante il suo volgare simbolismo neroniano, rispetto alla strage di democrazia che allora si fece in Germania!) oppure il pensiero di Heidegger? L'esistenza di «fatti storici» di quel genere ci dice che bisogna cambiare il modo corrente pagina 23 di concepire -il «fatto storico». E non è forse neppure il caso di dare per scontato che noi sappiamo cosa è stato il nazismo e cosa è stato il genocidio, un genocidio, quello politico del XX secolo che ha imposto sia alle vittime che ai carnefici una divisa di universalità umana pesante come una croce, ma che non lascia spazio alla buona coscienza di nessuno. Io, per es., ho creduto per molto tempo di saperlo, ma ora sono caduto nell'imbarazzo, anche se so ancora cosa farei e come sceglierei (su chi sparerei) se messo alle strette. Dal Lago. Sono sostanzialmente d'accordo con gli interventi precedenti. Ora, per cominciare, vorrei - a riprova del fatto che l'attuale scandalo sollevato sul «nazismo» di Heidegger mi sembra un po' tardivo e comunque esagerato - riportare l'esempio di René Char. Si sa che Char, uno dei capi partigiani nel Midi della Francia, ha intrattenuto con Heidegger stretti rapporti nel secondo dopoguerra, l'ha ospitato in Provenza e ha partecipato tra l'altro al seminario di Le Thor. Circola anche la storia (raccontatami da un amico di Char) che il poeta abbia chiesto spiegazioni a Heidegger del suo comportamento durante il nazismo. Se la storia è vera, non c'è motivo di dubitare che le spiegazioni di Heidegger siano sembrate sufficienti a Char, dati i rapporti che ha mantenuto con il filosofo. • Questo è solo un aneddoto, di cui non ho potuto controllare l'au- _tenticità. Ma il vero problema interessante, al di là del caso Heidegger, mi sembra quello sollevato da Rovatti, e cioè il ruolo non rassicurante e pericoloso della filosofia. Se non ho capito male, il pensiero, e in particolare la filosofia, è un campo accidentato e non rassicurante, che non segue i contorni della storia e dell'effettualità politica. Di fronte alla filosofia come luogo dello scarto rispetto al reale, episodi come l'adesione di Heidegger al nazismo sono abbastanza insignificanti, dal punto di vista filosofico (e anche in questo sono d'accordo con Galimberti e Marini). È chiaro però che a questo punto sorgono dei problemi ben più ampi, e ancora privi di risposte convincenti. È sempre stato vero che la filosofia si pone altrove rispetto al reale? E possiamo oggi essere soddisfatti di questa abissale impoliticità (resa manifesta e definitiva proprio dal tentativo «politico» di Heidegger)? Galimberti citava Platone. È evidente che gli occasionali commerci di Platone con i tiranni di Siracusa sono ben poca cosa rispetto all'opera che ci è stata tramandata. Ma se pensiamo alla nostra tradizione filosofica moderna, vediamo che da Spinoza a Hegel, e soprattutto in Kant, il legame con l'effettuale e con il politico, per quanto tenue, ambiguo o talvolta eccessivo, è stato mantenuto. Semplificando all'estremo, il legame si spezza a partire dalla crisi dell'hegelismo (Marx escluso, ovviamente). Schopenhauer, Kierkegaard o Nietzsche sono indubbiamente pensatori dello scarto o dell'eccesso. Ma poi è l'epoca della distanza, dell'incomprensione e - diciamolo pure - della megalomania. Ci si scandalizza di Heidegger, ma la famosa affermazione di Husserl secondo cui il filosofo dovrebbe essere il «funzionario dell'umanità» è·forse indizio di una maggiore sintonia con la realtà? Evidentemente no, e qui è proprio il grande ., I :/ ' I V ,, i I ! i Claudia Salaris ·.: ..D ;J Q.) ·.: Q.) gg (Il <F) <F) Q.) ~ ·.:: ::, ..D ·.: ..., <F) o IL FUTURISMO E LA PUBBLICITA' Dalla pubblicità dell'arte all'arte della pubblicità. Un libro prezioso. Una documentazione unica di immagini e testi che illustra per la prima volta con completezza la vocazione pubblicitaria degli artisti futuristi. Prefazionedi Anna Scotti. PP187, 150illustrazionai colori, 80 in biancoe nero, L.75.000. Jean Baudrillard IL SOGNO DELLA MERCE Il grande sociologo e filosofo francese con questo originale e attualissimo libro emancipa la critica della pubblicità dagli imperanti luoghi comuni. PresentatodaAntonioPorta,Prefazione di VanniCodeluppi. PP104, L.18.000. Terence St.John Marner GRAMMATICA DELLA REGIA 'Una lezione di cinema' da Eisenstein allo spot da 30 secondi. Problemi di regia e di ideazione, l'umile conoscenza del mestiere e il grande spettacolo dell'immaginario filmico. Un libroconprefazionedel registadi BiadeRunner,RidleyScott. pp 176, L.30.000. ANNUAL ART DIRECTORS CLUB ITALIANO E' la pubblicazione più prestigiosa della pubblicità made in Italy. Le migliori campagne della televisione, stampa, affissione e radio. Graphic design, packaging, editorial art, fotografia, illustrazione. PresentatodaAlbertoAbruzzese, Gian PaoloCeserani,Orestedel Buono. PP350, formato21 x29,7, rilegato in brossura3, 00 illustrazionia colori e in bianco e nero, L.85.000. Barry Day E QUESTA LA CHIAMATE CREATIVITA'? Un discorso storico-culturale capace di inquadrare il fenomeno pubblicità, sia politico che commerciale, dentro i meccanismi della società. 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