Alfabeta 103 Cosimo Caputo Il segno di Giano Studi su Louis Hjelmslev Milano, Unicopli, 1986 pp. 160, lire 18.000 e aputo è tra i pochi ad aver coerentemente sviluppato un progetto pluriennale di ricerca intorno all'opera di Hjelmslev, volto a valorizzare lo spessore teoretico generale degli studi semiologici del linguista danese. Questo volume ne rappresenta una prima organica sintesi, nella quale vengono raccolte e rielaborate le tappe successive di una fedeltà attestata pubblicamente fin dal 1979. L'assunto fondamentale del saggio consiste proprio nel riconoscimento delle profonde implicazioni epistemologiche che la glossematica ha avuto - soprattutto nell'arco degli anni trenta - e continua ad avere nella direzione attuale di una «semiosi dell'interpretazione». Il libro oscilla tra ricostruzione storica interna e contestuale dell'opera di Hjelmslev (esemplata nei capitoli I e II per quanto attiene alla storia interna e nei capitoli III e IV per quanto riguarda l'ampio spettro delle interazioni contestuali), e utilizzazione propositiva della semiologia hjelmsleviana nella direzione di un superamento ermeneutico ed epistemologico che risente dell'attuale riflessione sulla conoscenza (come si presenta nei capitoli V e I pacchetti di Alfabeta • Je Gaspare Palizzi slev VI). L'oscillazione, che si gioca anche all'interno dei singoli capitoli, non diviene mai squilibrio, ma viene esaltata da un movimento ricorsivo che tiene sempre in gran conto il dettato hjelmsleviano. Valorizzando il razionalismo illuministico e critico di Hjelmslev, che ritrova nel segno (linguistico) la complessa stratificazione logica, sociale e storica della conoscenza e della stratificazione tutta, Caputo intende ritrovare nella linguistica la radice dell'epistemologia stessa. Il tentativo non è inedito: gran parte dell'epistemologia francese contemporanea (strutturalismo e poststrutturalismo innanzitutto) ha - come è noto - modellato il proprio linguaggio sulla terminologia saussuriana, che è stata implicata (con Lacan, ad esempio, e con Deleuze o Derrida) in ambiti di riflessione decisamente eterogenei rispetto a quello originario, o che è servita - si pensi a Barthes - a segnare tutte le fasi di un percorso intellettuale progressivamente allontanatosi dall'ottimismo di una fondazione semiologica della conoscenza. È inedito, invece, il cammino percorso. Caputo fa giocare la riflessione di Hjelmslev (non assunta mai in un blocco compatto) con le indicazioni di Peirce sulla semiosi illimitata, con l'idea althusseriana di lavoro come produzione di conoscenza iscritta nella storia, con l'epistemologia bachelardiana di un «non» che è superamento dinamico ed evolutivo dell'ostacolo posto dal sapere precostituito. Attraver o questa tessitura di momenti «marginali» dell'epistemologia contemporanea viene proposta - a partire dal nocciolo duro della glossematica - una rete interpretativa del processo cognitivo che trova nell'epistemologia dell'empirismo logico il ricorrente riferimento negativo. Non mi soffermo sulla puntuale ed esaustiva presentazione del pensiero di Hjelmslev, all'altezza della migliore letteratura sull'argomento. Né credo sia necessario ribadire - in una fase di completo distacco dall'empirismo logico - quanto fosse polimorfa l'epistemologia che (negli stessi anni trenta) ad esso non si assimilava (come nel caso dello stesso Hjelmslev, ma anche di Bachelard e di Enriques - ricordati da Caputo), o quanto fossero divergenti anche le posizioni degli artefici dell'empirismo logico (quali Schlick, Neurath, Reichenbach - ma su questo il libro tace). Mi sembra invece da sottolineare la ricchezza· e l'ambiguità conferite da Caputo al «progetto semiotico globale del mondo» (p. 52), che rende viva metafora la doppia faccia di Giano, proteso tra la semiotizzazione normativa e la dinamica ermeneutica, «scienza del segno» e «segno della scienza». Sarebbe utile svolgere i complessi parallelismi che avvicinano sorprendentemente Hjelmslev a Bachelard, tutti esplicitati con acume da Caputo (cfr. ad esempio le pp. 59, 62, 72, oltre all'intero cap. V), come pure i motivati avvicinamenti tra li inediti pagina 15 Hjelmslev e Peirce. Ma ci si vuole qui limitare a un'osservazione di fondo eh~ non discute l'apprezzabile ricostruzione storiografica, ma si interroga sulla filosofia soggiacente al lavoro di Caputo (con una nuance di personale palinodia). Il «materialismo non referenzialistico» (p. 69) che Caputo intende proporre come forma di attraversamento e superamento dell'opera aperta hjelmsleviana e che - sia detto per inciso - pervade tanta parte della razionalità meta-fisica (in quanto sur-determinata, operazionale e meta-semiotica) tardo-moderna rischia forse di trasformarsi in un gioco di scatole cinesi in cui il progressivo approfondimento-superamento della conoscenza produce un incremento esponenziale della modellizzazione (cfr. p. 127) e di conseguenza una pericolosa identificazione tra produzione segnica, oggetto scientifico e reale tout court. La semiotica materialistica dell'interpretazione, costituita da «un processo che sale dal semplice al complesso, dalla semiotica alla metasemiologia per poi rovesciarsi nella descrizione della sostanza storica; un processo che inventa la realtà, moltiplica le teorie e gli oggetti, sur-semiotizza il segno» (p. 142), sembra perdere di vista, per eccesso di «aristotelismo», la materialità empirica e figurale, la cui concretezza Giano, Hermes o meglio Hestia (Vesta) potrebbero restituirci. di Savi11iomusicista D opo un lungo periodo di diffidenza e d'incomprensione, in vita e per un ventennio dalla sua scomparsa, negli ultimi tempi la fortuna critica sembra infine arridere ad Alberto Savinio. Il mosaico della sua creatività, tra le più poliedriche del Novecento, inizia a ricomporsi nella varietà quasi esaustiva dei contributi alla narrativa e alla saggistica, alla drammaturgia e alla pittura, alla critica teatrale e a quella cinematografica. In campo letterario sarà sempre più difficile in futuro contestargli un posto nella rosa dei maggiori prosatori italiani del secolo; nelle arti figurative la sua ricerca va rilevando un'identità ben distinta e degna di considerazione anche al di fuori della prestigiosa ombra del fratello Giorgio de Chirico. Il mosaico sarebbe completo se non gli mancasse un tassello di non trascurabile mole: quello musicale. Le sue opere (sei per il teatro, quattro balletti, ventuno composizioni da camera) non sono neppure state pubblicate tranne due solitarie eccezioni (Les chants de ,fa mi-mort e Album 1914, ed. Suvini Zerboni), di cui si deve essere grati all'iniziativa di Luigi Rognoni, che peraltro ricoprono circa un decimo della produzione complessiva; sarebbe come se della letteratura si potesse leggere solo Hermaphrodito o la Nuova Enciclopedia e il resto giacesse sconosciuto, o come se dei quadri non fosse accessibile che qualche decina in tutto. È una situazione alla quale sta ponendo i primi rimedi la cura dei figli di Savinio, AngeMichele Porzio lica e Ruggero, che hanno affidato al Consiglio Nazionale delle Ricerche la catalogazione dell'archivio privato del padre, dove una grande quantità di inediti, musicali e d'altro genere, attende la pubblicazione. Ma quel che più sorprende è l'assenza di qualsiasi studio critico sull'argomento; una lacuna che lo scrivente ha voluto colmare con un saggio (Il suono metafisico - Savinio musicista, di prossima pubblicazione presso l'editore Marsilio) che abbracciasse l'intero corpus musicale. Eppure basta scorrere i dati biografici essenziali per scoprire che è proprio Euterpe la prima musa ad essere intensamente amata e coltivata: in quella Grecia sospesa tra mito e belle époque ove nasce e vive fino al 1906 manifesta un talento da fanciullo prodigio, diplomandosi in pianoforte a dodici anni e ottenendo un primo premio di composizione; durante un soggiorno a Monaco (1908-1909), mentre il fratello frequenta l'Accademia di·Belle Arti, si perfeziona in armonia e contrappunto con Max Reger, ma dopo poche lezioni il celebre maestro confessa al giovane allievo che la sua curiosità ha raggiunto i confini dello scibile. È un momento di formazione che lo vede cimentarsi in ambito veristico: il perduto melodramma Carmela riscuote l'approvazione di Mascagni. Ma la svolta estetica e gli incontri decisivi avvengono in ben altra temperie umana e artistica: con l'arrivo a Parigi nel 1910entra a diretto contatto con il mondo dei Balletti Russi ·di Djagilev e di Stravinskij, con Satie e l'impressionismo, e soprattutto con il circolo di Apollinaire. L'amicizia del poeta francese è preziosa per entrambi i fratelli: de Chirico, che nel frattempo lo ha raggiunto dall'Italia, trova la sua pittura segnalata entusiasticamente; Savinio ottiene dalla rivista di Apollinaire, «Les soirées de Paris», lo spazio per concerti e basilari scritti di poetica musicale. Fino al 1914 Savinio è in prevalenza compositore; le iniziali prove di letterato e di pittore si connettono all'attività primaria. In quell'anno, infatti, scrive Les chants de la mi-mort, che funge da testo dell'omonima opera teatrale e sarà poi accluso come capitolo in Hermaphrodito, e disegna i perduti bozzetti dei personaggi dal volto ovoidale che compaiono negli stessi chants, considerati tra gli ispiratori del fratello nella genesi dei suoi famosi manichini. L'entrata in guerra dell'Italia tronca il fervore d'idee di questo quinquennio «francese» e segna il ritorno in. patria per arruolarsi come volontario; da allora si volgerà alla musica soltanto trent'anni più tardi, nel 1948, per un secondo e ultimo quinquennio creativo che lo accompagnerà fino alla scomparsa, nel 1952: non più con la disposizione d'animo e tecnica del compositore metalinguistico ma pur sempre calato nell'alveo delle trasformazioni immanenti a una disciplina, bensì con quella del poeta che celebra, nella cornice della rappresentazione teatrale, la summa dei motivi etici ed esistenziali che percorrono la sua letteratura. Compositore «metalinguistico», s'è detto; vale, in primo luogo, l'analogia con la formula della «musica al quadrato» o musica «costruita sulla musica», ossia che nasce da se stessa assai più che da un dialogo con la storia, coniata da Adorno nei confronti di Stravinskij. La bitonalità è il procedimento che regge l'impalcatura armonica della musica di Savinio; l'ambigua diffrazione dello spettro tonale di cui Stravinskij è maestro nelle sue opere capitali, Petruska e La Sagra della primavera. Ma per questi bitonalità significa moltiplicazione, arricchimento e «coloritura» dei piani sonori, laddove Savinio mira a una scomposizione parodistica della linea melodica e della tonalità. Certamente in Stravinskij agisce un preciso intento ironico e umoristico, che lo elegge anzi a caposcuola del genere parodistico nel nostro secolo; la distinzione si gioca tutta nella capacità di Savinio di rendere la parodia non già funzione, ingrediente di un costrutto coerente e formalisticamente in sé conchiuso, che è il caso di Stravinskij, bensì di fare della musica in quanto tale, appunto come problema metalinguistico, l'oggetto della parodia. La distinzione può parere sottile e insolita, eppure corrisponde esattamente alla distanza che separa il cubismo dalla pittura metafisica. Il cubismo crea delle strutture puramente astratte con valore di «notazione concettuale» delle forme equivalenti del mondo visibile, in
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