Alfabeta 103 al mito e nel destarsi all'utopia la parola poetica dei romantici tende innanzitutto ad affermare la cosa come cosa, a congiungersi e ad intrecciarsi indissolubilmente con ciò che è propriamente reale: Res. Ecco, sempre secondo Givone, «la più radicale delle risposte dei romantici ad Hegel»: essa afferma che «il reale è mitico», il mito non essendo altro «che la realtà come evento linguistico, verbale». «Ed è così assoluto, il nesso di mito e realtà nella parola, che la parola si fa, come attesta la rivelazione, carne, incarnazione divina» (p. 58). È come dire che la parola si fa simbolo: incarnazione in quanto composizione di opposti. È nel segno della divino-umanità che l'idea di simbolo rende visibile la complessità che essa custodisce. Occorre dire innanzitutto che tale segno eccede quello schema puramente intransitivo che, secondo Todorov, costituisce una delle caratteristiche essenziali del linguaggio simbolico, una caratteristica, del resto, sulla quale i romantici hanno a lungo e giustamente insistito. Nel simbolo eristico l'intransitività (quello stesso ripiegamento del linguaggio su se stesso che riguarda anche la parola della poesia) non è del tutto messa fuori gioco, ma appare piuttosto paradossalmente intrecciata con l'idea del transito. Vi è un «già», un riposare del segno in se stesso, un rivelarsi della sua sufficienza e della sua perfezione; ma vi è anche, sempre, un «non ancora» - affermazione di una realtà irredenta strappata al proprio presente dal negativo che la inabissa. Sradicata, di qui, verso il futuro. De-situata, sì, ma escatologicamente. Ecco dunque in che senso il simbolo è anche transito: perché è una soglia apocalittica fra il tempo e il suo fine. Forse il punto debole del messianismo romantico è la sua visione progressiva della temporalità e della storia. Resta il fatto, comunque, che è neWorizzonte escatologiRaniero Panzieri Lettere 1940-1964 A cura di Stefano Merli e Lucia Dotti Venezia, Marsilio Editore, 1987 pp. 431, lire 55.000 ' E lecito sperare che la pubblicazione delle lettere di Raniero Panzieri non costituisca solo un'occasione significativa di approfondimento della biografia teorica e politica di un personaggio affascinante e discusso, che è stato indubbiamente un maestro di pensiero per la generazione della contestazione. A essa ha consegnato infatti un'eredità inquieta e non risolta, di cui è difficile rivendicare pienamente la continuità da parte delle diverse correnti che han tentato di farvi riferimento. In realtà il «problema Panzieri» diventa a questo punto, dopo la pubblicazione delle sue lettere, un'occasione di dibattito più generale sulla stessa q~stione degli intellettuali e del loro rapporto con la politica nella cultura italiana del dopoguerra. Un'occasione, a saperla riconoscere, dello stesso rilievo di quelle di altri casi fortemente emblematici (da Vittorini a Pasolini per intenderci) resa più singolare dal fatto di trovarci di fronte un intellettuale politico; cioè una figura abbastanza inconsueta nef panorama italiano (a parte Gramsci e altre grandi figure della sinistra europea della prima metà del secolo). Con una particolarità sui' generis, inoltre: l'essere stato Panzieri, secondo un'acuta definizione di Daniele Ponchiroli riportata da Stefano Merli nella sua introduzione, «un pensatore politico che voleva modificare la politica e non un politico che volesse modificare situazioni reali». I pacchetti di Alfabeta co del simbolo che, anche per esso, appare articolato il problema del senso del possibile. D'altra parte una visione eminentemente «trasformazionale» come quella cui Reila si richiama sembra muoversi in un contesto del tutto differente rispetto a quello che ho schematicamente delineato. Pensare il limite, per Rella, significa, credo, rendersi cedure concettuali. Un labirinto può essere un arabesco. Laddove un'epoca pensa di registrare un fallimento, non è la fine ma la possibilità di un inizio: il vecchio mondo si disgrega, questo è vero, ma si disegna, con ciò, una nuova mappa del territorio. Lo scacco di Claude Lantier ne L'oeuvre di Zola è davvero - chiede Rella - una caduDavide Mosconi disponibile a quel possibile che ogni epoca di transizione libera negli stessi movimenti dissolutivi che essa produce. Sicché quei movimenti, a guardare bene, non sono poi dei veri e propri atti di disgregazione, bensì piuttosto modalità di esperienza di una realtà in mutamento che richiede di essere interpretata mediante nuove e diverse prota? L'opera non afferma piuttosto «quella bellezza che, come diceva Rilke, è sempre terribile all'inizio?» (p. 112). Inoltre, osserva ancora Rella, il quadro descritto da Zola (e descritto, appunto, come un fallimento) ha trovato per altre strade il suo autore (il Klimt di Nuda veritas) dando luogo così, anche concretamente, a un esito positivo. diPanzieri Attilio Manga o Dell'importanza storica esemplare di queste Lettere ci è data conferma dalla straordinaria qualità e quantità degli interlocutori, un arco di personaggi del mondo culturale e politico che comprende Gianni Bosio, Franco Fortini, Renato Solmi, Gianni Scalia, Norberto Bobbio, Tristano Codignola, Pietro Nenni, Emilio Agazzi, Giovanni Pirelli, Roberto Guiducci, Giulio Einaudi, Danilo Montaldi, Alberto Asor Rosa, Mario Tronti, Toni Negri, Lucio Libertini, Luciano Della Mea e altri ancora. Siamo di fronte insomma a uno spaccato interno della cultura di sinistra fra il 1940 e il 1964, degli anni che dal dopoguerra e dal frontismo portano alla crisi del 1956 e alla ridefinizione delle culture politiche fino al nuovo incontro fra marxismo e scienze umane, alla cultura del neocapitalismo e della contestazione, alla ca-ricerca e all'inchiesta, fino ai primi segnali della rivolta giovanile e della nuova dimensione della lotta operaia. E l'osservatorio di Panzieri è davvero a caldo, sempre e direttamente politico e sempre portato a interrogarsi sul rapporto fra cultura e politica: «La verità della teoria è nell'impegno», dichiara infatti Panzieri stesso, e· a questo presupposto uniforma interamente il suo destino di intellettuale politico. . Proprio la peculiarità di questo rapporto senza mediazioni fra teoria e politica è infine l'oggetto di analisi critica della impor-_ tante introduzione di Stefano Merli, che ripercorre l'intero itinerario di Panzieri interrogandolo (e interrogandosi) sui suoi limiti complessivi, con una tensione autocritica che però illumina egualmente la suggestione del modello, e fa del suo caso un destino emblematico, il punto più alto e drammatico di una corrispondenza fra politica e cultura che vuole fuoriuscire decisamente dai modelli leniniani di «partiticità» della cultura e riconoscere le autonomie e gli istituti specifici della produzione teorica ma non riesce a dar luogo alle mediazioni pagina 13 Dunque i conti tornano. Ma a questo punto è necessario, credo, riprendere brevemente in considerazione i termini del problema cui mi sono riferito. Non per ripeterlo semplicemente, ma per articolare, a partire da esso, l'idea di un pensiero che, se afferma il possibile, lo nomina innanzitutto mettendo in gioco il paradosso della sua stessa negazione. È come dire che quando i conti non tornano più, il possibile ci è dato nell'impossibile che ce lo toglie: restituzione della cosa sulla soglia della sua apocalisse. Temo che una dinamica trasformazionale impegnata a tradurre il fallimento in successo, tenda inevitabilmente a riproporre le astuzie di un pensiero che cresce per sempre grazie al lievito del negativo. Ma esiste purtroppo una negatività senza impiego, abissale. Qualsiasi cosa sia il tempo del Moderno, è certo che la nostra epoca si è affermata proprio attraverso questo eccesso di negazione. È un'eccedenza, un resto incontenibile, che si lascia interrogare laddove la linea di traduzione del pensiero cui mi sono riferito appare assunta radicalmente e rovesciata nelle sue conclusioni. Come ad esempio in Solger, «il quale nella morte del Verbo sulla croce vede, 'cenoticamente' e dunque secondo il più esemplare modello di degrado, l'annientamento di tutta la realtà ma anche la sua paradossale restituzione» (Givone, cit., pp. 58-59). Fra gli autori analizzati da Rella, credo che sia Van Gogh colui che più radicalmente ha spinto il paradosso della Kenosi sino allo splendore della Gloria. Vera e propria complexio oppositorum, la cosa in Van Gogh è appunto questo: abisso di sofferenza e insieme gioia, annientamento kenotico e «miracolo» di una realtà che è appunto pienamente reale perché nell'affermazione della pura esistenza manifesta tutta la luce della bellezza. necessarie e può dotarsi pertanto solo di strumenti (la rivista, punto di incontro di inchiesta e teoria) di comunicazione diretta fra teoria e prassi. In questi rilievi di Merli è possibile individuare anche una sua autocritica che investe il nucleo interpretativo che pure lo ha caratterizzato nella sua lunga ricerca stoWalter Marchetti
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