Alfa beta 103 Franco Rella Limina Il pensiero e le cose Milano, Feltrinelli, 1987 pp. 166, lire 25.000 1. «Vedo perfettamente un mobile, una figura, un frammento di paesaggio. Ma questo oscilla, è sospeso, si trova non so dove.» Singolare e sconcertante esperienza, registrata dalle parole di Flaubert, in virtù della quale una visione perfetta si presenta in realtà nei termini di una percezione offuscata. La cosa infatti «è lì»: si impone con evidenza, appare compiutamente visibile. Lo sguardo tuttavia non la trattiene. Essa oscilla. Smarrisce quei contrassegni di riferimento che ci permettono di solito di assegnarla alla familiarità di un luogo, è incapace di radicarsi e di consistere nella permanenza dei suoi statuti abituali. Accadimento indecifrabile nel limbo del «non so dove», la cosa si manifesta come sospesa nel vuoto. Priva di un orizzonte di senso che possa identificarla e definirla, non è altro che un'esistenza generica e infondata. C'è, esiste - ed è tutto. Appare. Ma come appaiono i frammenti di un universo esploso. O come appare ciò che si appresta a scomparire. Questo sottrarsi della cosa alla disponibilità della visione «chiara e distinta», questo suo continuo eccedere l'ordine della norma e la legalità del consueto, più che segnalare anomalie percettive nello sguardo di chi osserva, indicano il reale stesso come ciò che tende a distanziarsi e ad estraniarsi rispetto all'io: a divenire, cioè, realtà incomprensibile, alterità irrappresentabile, esistenza priva di oggetto. Ma, come propone Franco Rella nel suo ultimo libro, siamo posti con ciò di fronte a un evento di portata epocale. «Occorre far presto - scriveva Cézanne intorno al 1905se si vuole vedere ancora qualcosa». Al di là di ogni riferimento propriamente autobiografico, ciò che si annuncia in queste parole dal tono profetico e apocalittico è la visione di un mondo che tende a tradurre le cose nello spazio della pura invisibilità. Esso le priva della loro configurazione specifica, dei loro contorni definiti, della loro solidità, della loro capacità di stare e di consistere. Il «prestissimo» della vita moderna permette alle cose soltanto di passare, rende anzi già passata persino l'attualità della loro presenza. Esse appaiono mobili, impermanenti, transitorie: frammenti di luce, bagliori, fuochi fatui. Si delinea così l'idea di una modernità senza oggetto: spazio indeterminato e indefinito che quando non dissemina le cose in quel «disordine allo stato perfetto» in cui si afferma, secondo Valéry, il reale allo stato puro, le abbandona come nudi frammenti alla desolazione di una terra destinata a inaridire tutto ciò che accoglie: il «paese piovoso» di Baudelaire - universo in rovina. E tuttavia è anche possibile situare il problema della cosa in un diverso orizzonte di senso, in una costellazione i cui termini, secondo Rella, sono stati definiti all'alba dt.} XIX secolo all'interno di un orizzonte di pensiero che si rivela capace di indicare percorsi di ricerca e itinerari concettuali anche a tutta la nostra attualità. Ricorda Rella come il «determinato» e l' «indeterminato», per i grandi romantici - e in particolare per Novalis - non siano affatto gli estremi di un'opposizione irriducibile. Non è che la cosa sia solo una determinazione specifica destinata a perdersi e a disperdersi nello spazio indefinito di un'eI pacchetti di Alfabeta poca sospinta, dal suo stesso divenire, verso il nulla: modernità intesa, nichilisticamente, come mero caos, come campo neutro, come dominio di astratte equivalenze. Non è che un destino ineluttabile faccia apparire la cosa unicamente attraverso le sue nebbie e i suoi crepuscoli, restituendone quasi l'immagine postuma - l'impronta incorporea, il simulacro, lo spettro - nella fantasmagoria dei suoi profili offuscati. Occorre dire invece, sulla scorta del pensiero .. dizione». Si tratterebbe, allora, di assumere gli opposti sotto il segno della loro complementarità, in modo tale da definire la cosa nel suo statuto di complexio oppositorum (p. 10). Tessera di amicizia, dunque, è la cosa; segno di connessione fraterna tra opposti che però non si unificano, né si congiungono in una sintesi pacificata. Eros infatti, la forza che li compone e che li intreccia, non li confonde né li concilia; non abolisce la . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . ~ . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . ... . . . . .... . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .. . . . . . . . . . . I MECCANISMI PROFONDI DELL'ESPERIENZA AMOROSA di Novalis, che «l'indeterminato abita dentro la determinatezza della cosa: è l'invisibile che si rende visibile nei suoi limiti, portando la cosa stessa ad un punto di massima tensione e oscillazione. Esiste infatti una 'fluttuazione' fra gli opposti, fra io e nonio, fra libertà e non-libertà che costituisce lo spazio specifico della cosa» (p. 45). Gli opposti di cui qui si parla - le polarità attive che la cosa manifesta nella realtà del suò darsi - non vanno ·affatto intesi come termini in contrasto. Compito della logica superiore dovrebbe essere, ancora per Novalis, quello di «annullare il principio di contraddifferenza né annulla la distanza. Dunque la cosa, sottratta all'alternativa tra la determinazione originata dall'identità e l'indeterminazion,e imposta dal fatto del suo mero essere (dal suo aderire, cioè, alla gratuità e all'enigma di ciò che soltanto esiste, per riprendere un pensiero di Schelling cui anche Rella fa riferimento), la cosa, appunto, sarebbe proprio questo: composizione di elementi contrari, e cioè simbolo. Siamo posti, con ciò, di fronte ad uno dei termini-chiave dell'estetica romantica (v., al proposito, T. Todorov, Teoria del simbolo, trad. it. Milano, Garzanti, 1984, cap. liii Bennett, Jean-Jacques Viton, Liliane Giraudon, ' Nanni Balestrini pagina 11 VI). Ma Rella, nella sua analisi sulla cosa, non si richiama mai esplicitamente ad esso. Non si tratta, credo, di un'omissione casuale. E tuttavia essa lascia in qualche modo sorpresi. Sia perché il termine «simbolo» suggerisce l'idea (più volte espressa nel testo di Rella) di opposizioni compatibili, complementari, intrecciate e connesse da quella virtus unitiva che anche per i romantici è l'amore. Sia perché tra i molti significati che il.termine «simbolo» propone, uno dei più densi e pregnanti è proprio quello verso il quale Rella si orienta programmaticamente sin dal titolo del suo libro. «Simbolo», infatti, è - tra le altre cose - soglia, porta, ponte, limite, zona di confine, area di transito. Perché mai, allora, il sapere al quale Rella si richiama, e nel quale sembra individuare il tratto decisivo di tutta la modernità, è sì pensiero liminare, ma non è (e probabilmente non può né vuol essere) pensiero simbolico? Perché mai quel limite che proprio Rella concepisce come uno spazio intermedio interno alla cosa - «spazio transizionale» grazie a cui essa si apre al possibile ....n: on appare mai, nel suggestivo arabesco che il libro delinea, come una vera e propria frontiera simbolica? E d'altra parte: non è proprio questa frontiera l'ambito entro cui il pensiero romantico può essere raggiunto da domande che investono problematicamente la nostra attualità? 2. Considerare la cosa come un intreccio di opposti, accoglierla nello spazio demonico di Eros, significa intuirla sub specie aeternitatis. La cosa non è più «qualche cosa». Desituata, resa atopica, sottratta ai suoi orizzonti abituali, essa diviene l'esistente in cammino verso il Regno di Dio. È qui che si esplicita con piena evidenza quella dimensione messianica della Fruhromantik in virtù della quale la storia è concepita come un infinito approssimarsi, come un processo e un progresso verso l'éschaton. Non si tratta certo di ridurre il messianismo romantico a semplice variante dell'escatologia cristiana. Ma è comunque alla luce dell'idea escatologica che si chiarisce, a mio avviso, il problema della cosa così come esso è stato posto dai grandi pensatori del primo Romanticismo. Come per gli alchimisti ~ i mistici ai quali così spesso si rifanno, così per i romantici (pensiamo, ad esempio, a un F. von Baader) la cosa è doppia: Rebis, congiunzione di maschile e femminile. Tale è l'Androgino ermetico e l'Uomo originario che il Cristo ripete. Queste immagini sono atopiche - del tutto prive di luogo - perché eccedono l'orizzonte della storia e la continuità delle sue vicende temporali. Ciò significa però che sono anche utopiche: non appaiono semplicemente desituate rispetto ai contesti dell'abitudine (come Rella propone), ma ne scoprono pure il fondamento, ne esibiscono il fine. Esse mostrano altro: il primo e l'ultimo, l'origine e la meta. Ed è qui che la cosa si fa cosa: poeticamente. Dalla poesia infatti, come scrive Schlegel, «tutto è uscito, ad essa tutto deve rifluire. In uno stato ideale dell'umanità ci sarebbe solo poesia». Parola primordiale, mitica, che si rivolge all'evento dell'origine allo scopo di caricarlo di una forza profetica grazie alla quale l'ulteriorità dell' o~topos è investita sino all'attingimento dell'idea escatologica. «Mitologia come utopia, dunque» - secondo quanto afferma S. Givone in un saggio dedicato all'argomento (L'ermeneutica tra favola e tragedia, in «Rivista di Estetica», 19 - 20, 1985, pp. 51-6p). Nel rivolgersi
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