l •• Apiùvoci Il Grande Lettore Tradizione del nuovo (Menna) Il politico oggi (de Giovanni, Esposito) Pacchettidi Alfabeta Atopia di Rella Savinio musicista Carver e Mclnemey Hjelmslev Tradizione ermetica Centrideldibattito Siena Sull'interpretazione Le Tesi di Lecce Cfr da Berlino da Tokyo •evidenziatore Mostre Altri libri Heidegger fdosofiae nazismo ...n. ·· ..i ~ .,..---;··· ~ì -~,,,.,, . ,.~"!•·•._ .. •·,. ® • I • ,, Nuova serie Dicembre 1987 Numero 103 / Anno 9 Lire 6.000 Edizioni Caposile s.r.l. Via Caposile, 2 • 20137 Milano Spedizione in abbonamento postale gruppo IIInO • Printed in ltaly Proved'artista Corte di poesia (Premio Pasolini) Armando Testa Giuliano Mauri I ..••• ·• : 0 ~ ·®-~_<®/ ~·· ,,_ __ :; ~ ~ )è __. J,"' . .•··· f I ,, I • ♦ ,· ~ ,,·.,::;:.·. ~.•- ', ·..;:-'.j::· ~ : .. 0 ,
pagina 2 Le immagini di questo numero Alfa beta 103 I ritratti recitati D avanti ali'obiettivo di una macchina f olografica la recitazione fa parte di un atteggiamento naturale, quasi che l'essere sottoposto ad una interpretazione-rappresentazione condizioni a tal punto il fotografato da trasformarlo in altro da sé. L'artificialità del volto ritratto si manifesta chiaramente nella ritrosia • di riconoscersi totalmente neldi soggetto fotografico, poi scattava l'immagine. In questo modo, la fotografia si trasformava in autografia, realizzata però tecnicamente dall'altro. È un vecchio, insuperabile problema quello del- /' autoritratto; a proposito del suo Autoritratto con Nini, Ugo Mulas scriveva: «Su uno stesso fotogramma, Nini ed io siamo insieme; Nini è a fuoco, io sono sfuocato. È a fuoco perché ero io a fotografarla, la vedevo così e così volevo vederla, perché voglio sempre vedere con la massima chiarezza quello che mi sta davanti. Il mio viso è sfuocato, invece, perché c'è solo una parte del mondo sensibile che l'uomo non riesce a vedere di sé: il viso». Anche lo specchio ci rimette un'immagine imprecisa del nostro volto; forse è solo la recitazione davanti ad un obiettivo fotografico che ci consente di essere noi stessi. Così ha operato Aldo Agnelli: il suo intervento è stato solo occasionale, perché è stato lo stesso fotografato a fotografarsi all'interno di uno spazio senza segni né riferimenti forti. Il narcisismo di chiunque, in questo caso di alcuni poeti e artisti intervenuti al Festival della Besana, esplode di fronte a una macchina fotografica senza fotografo, perché ci sentiamo protagonisti non osservati. Quando la recita è ali'acme della teatralità desiderata, ecco allora intervenire l'autore meccanico del gesto fotografico: le sfumature che l'obiettivo è in grado di cogliere sono generalmente diverse da quelle di un tradizionale ritratto nel rispetto della retorica tradizionale dei ruoli professionali. Fotografo e poeta, fotografo e artista; fotografo e moda, fotografo e critico: Gilio Dorfles assume l'aria un po' sofferente del professore di fronte a una dotta ma inutile citazione di chi vuole mostrare di sapere di fronte ad un illustre studioso di estetica; Francesco Leonetti sembra rifiutare l'immagine, ma un occhio attento e razionale sbuca sopra la mano destra, mentre con la sinistra, mostra un chiaro segno nostra originaria presentazione, che è sempre, comunque una rappresentazione. Le fotografie di Aldo Agnelli mostrano con lucidità il limite ontologico di ogni messa in scena, anche se la recitaè esclusivamente privata: l'altro è ineliminabile da ciascuno di noi. Sominario A più voci D Grande Lettore pagina 3 Vladimir VysotskiJ Poesie pagina 4 Nadia Caprioglio Un ribelle ai tempi di Breznev pagine 4-5 Filiberto Menna I cambiamenti dell'arte pagina 5 Biagio de Giovanni Ricordate la dialettica? pagina 6 Roberto Esposito Per un pensiero dell'impolitico pagine 7-8 Andrea Branzi La seconda modernità, materiali pagine 8-9 Cesare Viviani I miei nemici filologi pagina 9 I pacchetti di Alfabeta Giorgio Frank L'atopia di Rella (Limina, di F. Re/la) pagine 12-13 Avviso ai collaboratori Le collaborazioni devono presentare i seguenti requisiti: a) gli articoli non devono superare i limiti di lunghezza indicati per le singole sezioni (3-4 cartelle per A più voci; 5 cartelle per / pacchetti di Alfabeta; 2-3 cartelle per Cfr; 10-15 cartelle per Saggi; le cartelle si intendono da 2000 battute) in caso contrario saremo costretti a proceLuciano Giaccari l'immagine. Le ragioni sono diverse ma, soprattutto, credo che quella fondamentale dipenda dal fatto che il fotografo tende anche ad organizzare scenicamente il luogo e, in particolar modo, i gesti, lo spazio della persona davanti ali'obiettivo. Da qui discende una duplice dipendenza della persona fotografata: verso la macchina e verso l'occhio registico del fotografo. Forse non è possibile eliminare completamente questo rapporto d'identificazione con il mezzo e con l'uomo dietro la macchina; un tentativo di rimettere in gioco questa duplice relazione potrebbe essere rappresentato da questa esperienza tentata da Aldo Agnelli, in occasione dell'ultimo Festival Internazionale di Poesia di Milano organizzato alla Rotonda della Besana, nel maggio scorso. Agnelli ha cercato di trasformare il ritratto di alcuni poeti e artisti in autoritratto: ha disposto all'interno • della Besana uno spazio, dove venivano invitate le persone da fotografare, lasciando libertà di organizzarsi in termini Attilio Mangano Rapporti culturali di Panzieri (Lettere 1940-1964, di R. Panzieri) pagine 13-14 Gaspare Polizzi Hjelmslev (Il segno di Giano, di C. Caputo) pagina 15 Michele Porzio Gli inediti di Savinio musicista pagine 15-16 Cfr Cfr/da Berlino pagina 17 Cfr/da Tokio pagina 18 Cfr/Mostre pagina 19 evidenziatore pagina 20 Materiali D mosofo e la sua ombra Alessandro Dal Lago Umberto Galimberti Alfredo Marini Pier Aldo Rovatti pagine 21-25 Martin Heidegger Dal discorso di Rettorato: «L'autoaffermazione dell'università tedesca» pagine 25-26 Martin Heidegger Da: «Il Rettorato 1933-1934» pagina 26 dere a tagli; b) gli articoli delle sezioni recensive devono essere corredati da precisi e dettagliati riferimenti ai libri e/o agli eventi recensiti; nel caso dei libri occorre indicare: autore, titolo, editore (con città e data), numero di pagine e prezzo; c) tutti gli articoli devono essere inviati in triplice copia ed è richiesta l'indicazione del domicilio del collaVictor Farias Heidegger è rimasto sempre nazista pagina 27 Cfr evidenziatore pagina 29 Cfr/Altri libri pagina 30 I pacchetti di Alfabeta Renato Barilli Carver e Mclnerney (Di cosa parliamo quando parliamo d'amore? e Cattedrale di R. Carver; Riscatto, di J. Mclnerney) pagine 31-33 Remo Pagnanelli Poesie parallele (Luce frontale, di R. Mussapi; Piccola colazione, di P. .Rufftlli) pagina 33 Anna Bettoni In treno (L 'enfance des saints et des autres, di L. Kreyder) pagina 34 Robina Giorgi Rassegna di tradizione ermetica pagina 35 Centri de( dibattito Siena/Soli 'interpretazione Romano Luperini Pietro Cataldi pagine 37-40 boratore. Tutti gli articoli inviati alla redazione vengono esaminati, ma la rivista si compone prevalentemente di collaborazioni su commissione. Occorre in fine tenere conto che il criterio indispensabile del lavoro intellettuale per «Alfabeta» è l'esposizione degli argomenti - e, negli scritti recensivi, dei temi dei libri - in termini utili e evidenti per il letLe tesi di Lecce Filippo Bettini Francesco Leonetti Romano Luperini Edoardo Sanguineti Roberto Di Marco Mario Lunetta Alfredo Giuliani Pietro Cataldi Umberto Lacatena Tommaso Ottonieri pagine 40-41 Prove d'artista Corte di Poesia · d'impazienza; Antonio Porta si è messo di profilo e finge di pensare perché davanti a un obiettivo f otografico l'unica verità è la finzione; Gianni Sassi guarda in alto perché dall'alto di un osservatorio concettuale anche l'astratto acquista materialità; Davide Mosconi appare speculare perché la musica e la fotografia sono le sue due anime; Leo de Bernardis, seduto, mostra in primo piano le sue bellissime scarpe stile anglo-americano, mentre il suo viso e la sua storia parlano un altro linguaggio. Altri hanno preferito • il gruppo, qualcuno invece ha recitato come se davanti avesse avuto migliaia di spettatori. Il gioco interpretativo di Aldo Agnelli appare riuscito, anche se l'assenza fisica del fotografo ha solo parzialmente liberato il ritratto dalle sue convenzioni scenografiche; è impossibile pensarsi iconicamente senza l'aiuto dell'altro. E l'intervento di un altro si traduce sempre in un'immagine visiva che si sovrappone alla Mensile di informazione culturale della cooperativa Alfabeta Direzione: Nanni Balestrini, Premio Pasolini di Poesia Amedeo Giacomini Umberto Bellintani Ercole Bellucci Omar Calabrese, Maria Corti, Gino Di Maggio, Umberto Eco, Maurizio Ferraris, Carlo Formenti, Angela Scarparo Elio Fiore Sandra Mangini Gianfranco Ciabatti Giuseppe Goffredo Giorgio Crisafi pagine 43-46 Armando Testa Incontro formale pagina 45 Giuliano Mauri Naturare pagina 47 Le immagini di questo numero I ritratti recitati di Aldo Co/onet(i In copertina: disegno di Andrea Pedrazzini tore giovane o di livelio universitario iniziale, di preparazione culturale media e non specialista. Manoscritti, disegni e fotografie non si restituiscono, «Alfabeta» respinge lettere e pacchi inviati per corriere, salvo che non siano espressamente richiesti con tale urgenza dalla direzione. Il Comitato direttivo Francesco Leonetti, Antonio Porta, Pier Aldo Rovatti, Gianni Sassi, Mario Spinella Paolo Volponi Redazione: Aldo Colonetti, Alessandro Dal Lago, Maurizio Ferraris, Carlo Formenti, Francesco Leonetti, Antonio Porta, Pier Aldo Rovatti Art director: Gianni Sassi Grafico: Ancilla Tagliaferri Antonella Baccarin Editing: Studio Asterisco Luisa Cortese Alfabeta servizio abbonati Con nostro estremo rincrescimento, siamo tenuti ad informarvi che per gravi disservizi postali, le copie di «Alfabeta» 100 e 101, consegnate da noi regolarmente rispettivamente in data 15 settembre e 18 ottobre, non sono ancora pervenute agli abbonati. In data 9 noEdizioni Caposile s.r.l. Aldo Colonetti Redazione e amministrazione: via Caposile 2, 20137 Milano Telefono (02) 592684 Coordinatore tecnico Luigi Ferrari Pubbliche relazioni: Monica Palla Direttore responsabile: Leo Paolazzi Composizione: GDB fotocomposizione, via Tagliamento 4 20139 Milano Telefono (02) 5392546 Stampa: Stero S.r.l. 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Alfabeta 103 Chi sarà mai il Grande Lettore? 1. Come possiamo immaginare che sia colui che prende le decisioni finali nelle Case Editrici? Se lo chiedono prima di tutto i lettori esterni che hanno potuto constatare 'un fenomeno apparentemente indecifrabile: in caso di parere negativo di un lettore esterno la Casa Editrice rifiuta il manoscritto (con qualche eccezione, di cui si dirà) mentre in caso di parere positivo «allora il caso domina sovrano», come ha scritto su un settimanale un'autorevole lettrice esterna. :$ proprio quando si entra nel regno del caso che si comincia a sospettare la presenza di un Grande Lettore Definitito. 2. Il mistero però si infittisce pJrché altri lettori esterni hanno confessato di poter stabilire quasi un'altra regola: 11 giudizio era negativo e il libro è uscito lo stesso; il giudizio era nettamente positivo, e il libro non è mai uscito. 3. Un tempo questi interrogativi quasi non si ponevano: operavano, alla luce del sole, persone con un nome e cognome in grado di assumersi responsabilità. Basterà ricordare il ruolo di Cesare Pavese, di Elio Vittorini, di Italo Calvino, tra i molti. Un tempo erano anche normalmedte caricati delle loro responsabilità i Direttori di collana: ora se ne può constatare la rarità e occorre rammaricarsi di legami troppo stretti con interessi accademici chiusi, dove domina non il caso ma la ferrea regola del do ut des. Con tutta la buona volontà molti dei presenti funzionari di Case Editrici non sembrano avere la benché minima possibilità di competere, quanto ad assunzione di responsabilità culturali e letterarie, con i modelli appena indicati. 4. Eppure un certo numero di libri viene stampato ogni mese. Chi lo ha deciso? Per quanto riguarda il numero delle novità la risposta è semplice: gli estensori dei budget finanziari. Tanto si può investire, vedete un po' voi come spendere questa cifra. Dal punto di vista delle scelte, del perché questi titoli invece che cento altri possibili, la domanda è senza risposta. I più disorientati di tutti sono i lettori normali, quelli che comprano i libri, per l'appunto, che riescono a salvarsi dal falso dilemma «o mangi questa minestra o salti dalla finestra», rivolgendosi ai classici di ogni tempo. 5. Qualcuno pensa che il fenomeno abbia un'origine precisa: la burocratizzazione ferrea delle Case Editrici, e burocratizzazione vuol dire scarico di ogni responsabilità 'individuale. Nessuno può sapere chi è il responsabile. Il vero responsabile è un fantasma, il Grande Lettore, l'invisibile, inafferrabile, inconoscibile Grande Lettore. 6. I funzionari di Casa Editrice sono soliti scaricare la responsabilità su un presunto giudizio di vendibilità. Il Tale non si vende quindi non si fa, prescindendo· da ogni giudizio di valore. Peccato! La conseguenza è sotto gli occhi di tutti: molti editori hanno rinunciato a un autore proprio riA più voci pagina 31 Taccuini rande ore fiutando il suo primo best-seller (è il caso di Peter Handke ·o di Milan Kundera ... ). 7. Si può formulare l'ipotesi che il Grande Lettore, come il Grande Fratello, possa avere un corpo e che questo corpo abbia due teste: quella del Direttore editoriale e quella del Direttore commerciale e/o marketing. L'ipotesi è però resa inattendibile dai perenni litigi tra le due funzioni aziendali sopra indicate: in caso di litigio furibondo e terminale si possono osservare due corpi distinti prendere strade diverse. Uno dei due può anche restare dov'era mentre l'altro passa ad altra Casa Editrice e la storia infinita continua. L'intercambiabilità dei funzionari di Ca-- sa Editrice è di grado così elevato, che il fantasma del Grande Lettore Terminale e/o Definitivo aumenta la propria credibilità mese dopo mese. 8. Al tempo delle persone che potevano assumersi molte responsabilità, con nome e cognome, funzionavano anche Comitati Editoriali dove i problemi e i libri venivano ampiamente dibattuti e la decisione era notoriamente del Comitato, per il sì come per il no. Sembra che simili comitati siano stati giudicati «scomodi» dal Grande Fratello .. e/o Lettore: giudicavano, infatti, con criteri diversi da quelli della pura e semplice vendibilità; davano giudizi culturalmente fondati. Prima si decideva se un libro «vale o no», poi si affrontavano i problemi inerenti alla vendita di un libro deciso. Curioso, ma quando gli uomini di vendita hanno cominciato a prendere il sopravvento le vendite in realtà non sono progredite come tutti credevano: il trend è rimasto identico a prima, o è peggiorato. In tutti i casi finora conosciuti gli uomini del marketing si sono salvati con il catalogo, cioè con i valori consolidati è decisi da quei comitati che hanno voluto mettere in soffitta. Forse il Grande Lettore è come il famoso giudice di Rabelais: accumula i manoscritti in due mucchi distinti e poi tira i dadi e pesca a destra o a sinistra, indifferentemente, a occhi bendati. 9. Se il Grande Lettore ha gli occhi bendati e gioca con i dadi, tiene però le orecchie bene aperte al soffio delle mode. Si fa leggere i giornali da qualcuno e si fa raccontare i salotti. Allora, per seguire quei soffi, può decidere di barare: sceglie senza ricorrere ai dadi. 10. Eppure un certo metodo, per uscire dal dominio del caso, può essere applicato. E' quello seguito con notevole scrupolo da molta editoria di Francia. Se due lettori esterni dicono «sì», il libro deve esserepubblicato. Il più importante editore di Francia (Gallimard) segue le indicazioni di un Comitato di lettura di cui sono noti i nomi (è la grande eredità della NRF). Quando qualcuno viene chiamato a far parte del Comitato la notizia viene PU:bblicatacon evidenza dai quotidiani. «Qui da noi si fa cultura» è la convinzione di Gallimard e non c'è altro modo di fare cultura che affi- ,., darsi a valutazioni multiple. _ . ~ 11. Qui da noi si fa strada un altro so- .,,.,.,,.'.1d"'-",...-:-,:--:,.,, spetto: che ogni funzionario di-casa editrice .. - • finga di essere il Grande Lettore: si evitano Nanda Vigo così scomode ingerenze. «Basta piacere a uno di loro - suggerisce qualcuno - e i giochi sono fatti. ..» Si tratta di una malignità ma in alcuni casi si ha la sgradevole sensazione che accada. È la politica dei gusci vuoti che non sapendo come mascherare l'interna assenza si fanno riempire da chi capita, da uno di passaggio, da un amico di un amico. 12. Se la «politica» del Grande Lettore risulta insondabile per quel che riguarda la cultura italiana (letteraria e altro), il rifugio sicuro viene sbandierato come «linea» editoriale: le traduzioni. L'Italia si fa vanto di un difetto: è il paese che traduce di più al mondo. Prevale l'ossequio provinciale. Basta non essere italiani e scatta subito una curiosità da paese sottosviluppato. Poiché l'Italia è in molti altri settori uno dei paesi più progrediti del mondo si fa strada il timore che gli squilibri nazionali tra settore e_ settore siano molto più profondi di quello che si crede. 13. La «politica» delle traduzioni, meritoria in altre stagioni autarchiche, posa le sue certezze su valori comunque già filtrati da altre culture. Ma anche qui prende corpo il fantasma del Grande Lettore. Molti libri tradotti non valevano lo sforzo e in certi casi sono state tradotte opere contro l'opinione di lettori. esterni qualificati. Forse si dimenticano le proporzioni: gli altri paesi traducono poco e raramente, dunque se privilegiano la cultura «interna» possono commettere più errori di chi non rischia quasi mai. 14. Se l'attendibilità del quadro di interrogativi e sospetti che abbiamo qui esposto fosse anche minima siamo convinti che gli editori dovrebbero prendere in seria considerazione la possibilità di trovare un metodo di lavoro. Il «caso» non produce cuitura. * * *
I pagina 4 Uno stupido sogno Uno stupido sogno, come una mazza, spietato mi ha percosso, Vi apparivo indistintamente e avevo un aspetto squallido. Nel sogno mentivo e tradivo, e con leggerezza adulavo, Non l'avrei mai immaginato di me stesso. Ed ancora stringevo i pugni e battevo per la tensione, Ma con la mano morbida, non con le nocche. Si sbiadiva la visione, ma di nuovo riappariva. Si chiudevano le palpebre e lei ricominciava. Io non marciavo, ma procedevo a passettini su una trave piana, Neppure una volta ho scambiato il piede: avevo fifa e tremavo. Dinnanzi al forte strisciavo, dinnanzi al malvagio m'inchinavo, Mi trovavo ripugnante, ma non mi son svegliato. È soltanto un delirio! Sentivo il mio lamento attraverso il sonno, Ma proprio io sognavo tutto questo, non un altro. Mi svegliai ed afferrai un brandello di gemito; Con dolore mi laceravo le palpebre, ma provavo sollievo. Ed il sogno restò sospeso al soffitto e si distese. Un sogno profetico? Rimase una questione aperta. Me ne lavai le mani - ma lui nella schiena s'insinuava come un brivido freddo. Qual era verità nel sogno, qual era menzogna? Se è soltanto un sogno, è anche una fortuna, Ma se si trattasse di chiaroveggenza? Il sonno rispecchia i pensieri del giorno? No, non è possibile! Ma appena ci ripenso, tutto mi contorco. E se lo mandassimo al rogo?! Di avvicinarmi al falò mi mancano le forze. Avrò vergogna, come nel sogno in cui tremavo di paura. Oppure mi diranno: «Canta all'unisono, a perdifiato!. ..» Ed io capirò: «Conta questo sogno come profetico!. ..» Ho la mia chitarra Ho la mia chitarra, apritevi, pareti; Non devo vedere il secolo della libertà per cattiva sorte? Tagliatemi la gola, tagliatemi le vene, Basta che nòn strappiate le mie corde d'argento. Sprofonderò nella terra, sparirò in un momento. Chi mai difenderebbe la mia giovane età! Mi sono entrati dentro l'anima, la faranno a pezzi, Basta che non strappino le mie corde d'argento. Ma la chitarra mi han tolto, e con lei la libertà. M'impuntavo, urlavo: «Porci, canaglie! Copritemi di fango, buttatemi nell'acqua, Basta che non strappiate le mie corde d'argento». Suvvia, fratelli, non devo forse vedere Né i giorni luminosi, né le notti senza luna? Mi hanno distrutto l'anima, mi hanno tolto la volontà, E ora stanno strappando le mie corde d'argento. A più voci Era così: io amavo e soffrivo Era così: io amavo e soffrivo, Era così: di lei soltanto sognavo. La vedevo segretamente nel sonno, Amazzone sul suo cavallo bianco. Che c'era in me tutta la saggezza dei pedanti libri Quando potevo sfiorare con le labbra le sue orme. Che ti è accaduto, regina delle mie fantasie? Che ne è stato di te, mia illusoria felicità? Le nostre anime si bagnavano nella primavera, Le nostre teste erano in fiamme, E tristezza e dolore con lei erano lontani E, sembrava, non ci sarebbe stata malinconia. Ma adesso è già pronto per lei il sudario, Bevo fra le lacrime e piango senza una ragione. Ti ha gelato il sangue con freddo eterno e ghiaccio Il vivere nella paura e nel presentimento della fine. L'ho capito: non bisogna più cantare canzoni; L'ho capito: non bisogna più guardare i sogni. I giorni trascinavano a lei fili di menzogna, Portavano soltanto miraggi. Brucerò i brandelli degli abiti festivi, Strapperò le corde, liberandomi dall'oppio. Non voglio servire da schiavo illusorie speranze, Non mi inchinerò più agli idoli di un inganno. Vicolo Bol'soj Koretnyj Dove sono i tuoi diciassette anni? In vicolo Bol'soj Koretnyj. Dov'è l'inizio delle tue disgrazie? In vicolo Bol'soj Koretnyj. (ritornello) Dov'è la tua pistola nera? In vicolo Bol'soj Koretnyj. Dove non sei più oggi? In vicolo Bol'soj Koretnyj. Ti ricordi, compagno, quella casa? No, non puoi dimenticarla! Dirò di più: metà della vita ha perso Chi non veniva al Bol'soj Koretnyj. (ritornello) Oggi ha un altro nome, È tutto nuovo laggiù, che tu ci creda o no. Accadde che gli uomini se ne andarono Accadde che gli uomini se ne andarono, Terminate le semine in anticipo. E già non si vedono più dalle finestre, Si sono dissolti nella polvere delle strade. Gocciano i semi dalle spighe, Lacrime di campi non mietuti. E i freddi venti cominciano Inesorabili a scorrere dalle fessure. Alfa beta 103 I Vi aspettiamo, correte cavalli, buon viaggio, buon viaggio, Che i venti lungo il cammino non sferzino, Ma accarezzino i vostri dorsi. E poi ritornate in fretta, vi piangono i salici, Senza il vostro sorriso impallidiscono e seccano i sorbi. Noi viviamo in alte torri, Nessuno può entrare in questi edifici, Solitudine e attesa Hanno preso il vostro posto nelle case. Ha perduto freschezza e incanto Il candore delle camicie non indossate, Persino i canti di un tempo non son più quelli, Venuti ormai a noia. Vi aspettiamo, correte cavalli, buon viaggio, buon viaggio, Che i venti lungo il cammino non sferzino, Ma accarezzino i vostri dorsi. E poi ritornate in fretta, vi piangono i salici, Senza il vostro sorriso impallidiscono e seccano i sorbi. Tutto duole di un solo dolore E risuona giorno dopo giorno l'affanno Sempiterno di lamenti incessanti, Eco di antiche preghiere. Vi verremo incontro, che siate a piedi o a cavallo, Affranti, feriti, ma amati, Purché non ci sia il vuoto Di un annuncio di morte. Eppure, ovunque tu sia stato, ovunque tu stia vagabondando, Non puoi non passare dal vicolo Bol'soj Koretnyj. (ritornello) Un ribelle ai tempi di Breznev Negli anni di Breznev è vissuto a Mosca un artista singolare: Vladimir Vysotskij (19311980). Figura leggendaria in vita, dopo la sua morte la leggenda ha avuto il sopravvento; ma il fatto più straordinario è che tutte le sue avventure, reali o inventate, così come le sue opere, attingono allo spirito della fiaba popolare russa. stele sue opere in prosa (fra cui la sua delirante Zizn' bez sna I Una vita senza sogno, «memorie di un pazzo» scritte nel.J968), le sceneggiature, le fiabe. recitato soltanto in film di secondo piano. Per la sua morte sono state spese solo tre parole: «Con profondo cordoglio»; eppure il giorno dei suoi funerali tutta Mosca affollava la piazza della Taganka e le vie circostanti, riparandosi dal sole cocente sotto una marea di ombrelli colorati, e ancora oggi presso la sua tomba, all'ingresso dell'antico cimitero Vagan'kovskoe, stazionano ad ogni ora decine di persone che portano fiori freschi, che a Pasqua, secondo la tradizio~e russa, spargono briciole dolci perché anche gli uccellini vengano a venerare l'immortale «cantore». Dai tempi di Majakovskij nessun poeta aveva conosciuto tanta popolarità. Tutta la vita ebbe a lottare con i burocrati che non riconoscevano la sua arte e che vedevano in lui un furfante, un ubriacone, un isterico alla ricerca di popolarità a buon mercato, un idolo delle bettole e dei portoni. Vysotskij non ha mai risparmiato se stesso: poteva arrivare a cantare per sei ore di seguito, ogni canzone era eseguita al limite delle forze umane, con tensione fisica e con rabbia, come una corsa sfrenata, una fuga dalla, e al tempo stesso verso la, propria rovina. Nei suoi testi si parla spesso di morte, :ma per serietà nei confronti della vita, per· un'immensa sete di vita, la paura di «rion fare in tempo». Soltanto al Teatro Taganka interpretò più di venti ruoli importanti, dallo Svidrigajlov di Delitto e castigo al Lopachin de Il giardino dei ciliegi, dall'Amleto di Shakespeare al Galileo di Brecht. Sono circa seicento le sue canzoni, non ancora tutte raccolte. Interpretò ventisei film. Sono rimaQuesta versatilità di talento non gli era d'ostacolo, ma d'aiuto:.la gente andava a teatro «per vedere Vysotskij», perché lo conosceva e amava le sue canzoni, e le sue canzoni nobilitavano il teatro. Ufficialmente, in anni in cui essenza della cultura politica sovietica erano l'unanimità e l'adesione totale, Vysotskij era un artista che non è mai apparso alla televisione, che ha inciso soltanto due «quarantacinque giri», un cantautore di cui non si è mai vista affissa una locandina per un concerto; un poeta che non ha mai pubblicato i propri versi sulle riviste popolari, un attore di cinema che ha Scrivere canzoni è per lui come respirare l'unica difesa possibile dall'esistenza minacciata, un tentativo di trovare la salvezza dentro di sé, dando un senso a ciò che è più disperato. Gli amici raccontano che scrive-
Alfabeta 103 A più voci pagina 5 va di notte, nella solitudine della propria stanza, quando tutto intorno si faceva silenzio, dopo una giornata «assediata» (le prove, lo spettacolo, i concerti ... ) , così come si scrive un diario. E i suoi testi sono yeramente squarci di un diario collettivo, specchi della quotidiana sofferenza di tutta un'epoca, capaci di «risvegliare la coscienza (sovest') di ognuno, facendosi comunicazione, contatto (so-vest') fra persone appartenenti a fasce generazionali e sociali completamente diverse». Queste parole sono di Jurij Karjakin, critico letterario, sceneggiatore del Teatro Taganka, amico personale di Vysotskij, autore forse dell'unico articolo (pubblicato non senza vicissitudini) apparso alla morte dell'artista in cui si cerchi di dare una spiegazione al «fenomeno-Vysotski j». Anche l'intelligencija, abituata alla dolcezza delle malinconiche canzoni di Bulat Okudfava (in cui Vysotskij riconosce il proprio «padre artistico»), inizialmente insofferente della «erre» arrotata di Vysotskij che risuonava nei cortili dei quartieri operai, comincia ad ascoltarlo. In anni di scarsi rapporti umani e di sospetti per chi si allontana o ignora la cultura politica sovietica, che seguirono all'ondata di entusiasmo del decennio precedente, non può non destare interesse chi non si limita ad affidare alla carta l'esuberanza dei propri pensieri, ma trova il coraggio di urlarla, contro la crescente ignoranza e la cosiddetta «cultura di massa». Vysotskij supera il vuoto di quegli anni con una sorta di furia poetica: quanto più cresce il grigiore intorno, tanto più aumenta il suo spasimo di trasformare in atto creativo l'esasperante tensione. Rivoluzionario della forma e del contenuto, non era mosso da un principio individuale, ma dal desiderio di comprendere e di trasmettere la frattura sociale del proprio tempo; in quest'ottica va visto il suo interesse per chi si trova «lungo il dirupo, sopra l'abisso, all'estremo limite», per chi «cammina a piedi nudi sulla lama di un coltello». Nelle sue apparizioni in pubblico ripeteva spesso: «Per le mie canzoni cerco di scegliere uomini che si trovino nelle situazioni più estreme, nel momento di maggior rischio, che possano scontrarsi da un secondo all'altro con la morte», quasi a voler costruire un argine che respinga ancora la morte o a cercare la vera essenza dell'uomo nell'impenetrabile nulla che lo avviluppa, quando la sua anima è messa a nudo, quando non può far altro che aderire al proprio destino. Subito dopo attaccava una delle sue canzoni di guerra, ben lontane dall'atmosfera di trionfalismo della cultura ufficiale, popolate di uomini che hanno paura, freddo, di soldati che chiedono aiuto mentre le acque li inghiottono, che «non tornano dalla battaglia» a raccontare delle loro imprese eroiche. Non si trattava però di canzoni con intenti di «retrospettiva», ma di «canzoni-associazione di idee», come egli stesso le ha sempre. definite, che attingono ad un determinato momento storico per descrivere situazioni e stati d'animctdel presente. I versi di Vysotskij, quand'era in vita, hanno circolato in milioni di copie registrate senza mai essere pubblicati. Solo nel 1975 cinque o sei testi delle sue canzoni erano sul punto di venire pubblicati sulla rivista leningradese «Avrora», ma poi tutto andò a monte senza chiare motivazioni. Nel 1981, ad un anno dalla sua morte, è uscito, salutato come un evento straordinario, l'opuscoletto Nerv I Nervo, che raccoglie parte dei suoi testi, peraltro non fra i più significativi. Ora sembra cominciata la sua riabilitazione: la televisione e la stampa hanno preso a parlare di lui, è stata fondata una «Commissione per l'eredità di Vysotskij» e ci sono proposte per il «Premio di stato dell'URSS» 1987. Nadia Caprioglio Temi. Tradizione del nuovo I cambiamenti dell'arte I cambiamenti dell'arte sembrano verificarsi all'improvviso e l'impressione è favorita dai modi della comunicazione odierna che coglie il nuovo e lo trasforma subito in slogan. In realtà, i mutamenti nascono e si sviluppano più lentamente, muovono da focolai diversi, decentrati, spesso lontani, ciascuno con una fisionomia propria, anche se la forma del loro costituirsi, la loro struttura, appare dotata di una certa costanza: così un gruppetto di artisti, accompagnato per lo più da uno o più critici compagni di strada e, nel migliore dei casi, anche da qualche gallerista più avventuroso, comincia a porre all'arte nuove domande e a fornire nuove risposte. Si creano così delle microsituazioni culturali che spostano in maniera più o meno sensibile l'accento del lavoro artistico, facendo registrare scarti e fratture rispetto ai fatti precedenti. Personalmente ho seguito il maturare di una di queste microsituazioni in area romana, ma con legami con altri punti della scacchiera italiana (e alla distanza con assonanze non fortuite con esperienze maturate in altri paesi), mettendone in evidenza la novità ma anche i legami con una cultura artistica, ancora una volta tipicamente romana, profondamente radicata nel campo dell'astrazione. La nuova situazione nasce da questa memoria astratta gelosamente conservata come un tramando segreto, una moneta preziosa da spendere con parsimonia, evitando gli sprechi e le scorribande predatorie nei depositi del passato; nasce da un bisogno di pausa, di silenzio e di vuoto come antidoto al troppo pieno, all'ingombro, all'eccesso di rumore che hanno contraddistinto invece i fatti artistici dominanti tra la fine degli anni settanta e gli inizi degli ottanta. Allo slogan lyotardiano secondo cui «si può leggere tutto e in tutte le maniere», che è diventato un po' la bandiera del «risorgimento» pittorico postmoderno maturato alla fine del decennio precedente, gli artisti della nuova situazione (e ne nomino qualcuno in ordine di apparizione sulla scena: Antonio Capaccio e Mariano Rossano, Gianni Asdrubali e Rocco Salvia, e ancora Lucia Romualdi, Bruno Querci, Annibel-Cunoldi, Mimmo Grillo) oppongono una più acuta coscienza del limite, l'esigenza moderna di affidarsi a procedimenti formativi sorretti da una intenzionalità progettuale, da un più rigoroso controllo mentale e da una finalità di ordine costruttivo. L'opera non è più il luogo della fabula, della citazione, della espressività immediata del soggetto, ma è il da'to conclusivo di un lavoro che nasce e si sviluppa secondo una coerenza interna, che tuttavia rifugge da ogni rigorismo aprioristico per compromettersi con le accidentalità della fattura. Di questa vengono riconosciuti i diritti alienabili nel processo di formazione dell'opera, senza però sopravvalutarne il ruolo, non senza cioè accoglierne eventuali pretese egemoniche nei confronti della dimensione mentale, riflessiva. Di qui una pratica della pittura che punta sulla riduzione linguistica, che volge le spalle alle apparenze fenomeniche e, una volta abolita l'immagine, si tiene lontana persino dal rumore che può continuare a sprigionarsi dal colore, Filiberto Menna privilegiando l'impiego del bianco e del nero e delle gradienze intermedie, dei grigi. Per questi artisti l'astrazione è una scelta linguistica ma è anche il segno di un atteggiamento etico, che predilige il tema del vuoto e dell'assenza, che contrappone al rumore del mondo uno spazio di concentrazione e di silenzio dove l'artista può mettere a punto gli attrezzi minimi, quelli assolutamente indispensabili, per intraprendere la costruzione del nuovo. Su questi temi e argomenti mi sono già più yolte soffermato ormai da alcuni anni e non posso che constatare con soddisfazione che oggi siano divenuti abbastanza diffusi, tanto da entrare a far parte del bagaglio concettuale di critici fino a ieri refrattari a ogni idea di progetto, di costruzione e simili. Un fenomeno comprensibile, del resto, in quanto le nuove situazioni sono venute ora alla ribalta muovendo da luoghi diversi e creando un intreccio di espefienze tra loro sempre ben diversificate e tuttavia riconducibili, in qualche Francesco Leonetti misura, ad alcuni dati fondamentali comuni, già più volte velocemente, ma indicativamente riassunti, sotto il segno di un raffreddamento dell'esperienza artistica. Francesco Leonetti ha tracciato nel n. 101 di «Alfabeta» una mappa significativa delle nuove emergenze (senza dimenticare la «scommessa» ideologica di Kassel), e le ha consegnate all'approfondimento della critica. Non tralasciando, però, di darci un acconto di interpretazione, tanto più prezioso in quanto buttato lì con apparente noncuranza: «Certo oggi si procede a smontare o verificare più sottilmente il decennio scorso con il suo pittoricismo, con la sua ripresa di un figurativo riferibile per lo più a De Chirico e a Carrà [... ] e con la sua fortuna commerciale enorme». Su quest'ultimo punto ci sarebbe da discutere a lungo e ritengo che converrà ritornare sull'argomento. Accontentiamoci per ora di osservare che le risposte della critica al problema posto da Leonetti mi sembrano sostanzialmente due: c'è l'ipotesi pendolare delle oscillazioni da una polarità all'altra (dal caldo al freddo) che spiega tutto e niente nello stesso tempo, in quanto porta a un pareggiamento dei fatti lasciandosi sfuggire il senso proprio delle differenze; e c'è l'ipotesi che si potrebbe definire continuista, secondo cui le nuove emergenze non sarebbero che un proseguimento, con qualche opportuno aggiustamento, delle precedenti esperienze. In realtà lo scarto che le nuove situazioni artistiche hanno fatto registrare viene assumendo sempre più il carattere di una profonda rottura della continuità, di una svolta radicale che riprende dalla tradizione moderna l'esigenza di una costruzione del nuovo. Il problema è stato posto dallo stesso Leonetti quando si dice convinto che «la situazione della ricerca artistica-letteraria d'oggi non attinga ancora un 'nuovo' in rapporto con le punte del 60, col loro sperimentalismo e con i loro problemi di statuto linguistico». Certo, le situazioni non sono sovrapponibili, anche se le nuove declinazioni astratte spostano anch'esse l'attenzione sulla relazione interna dei segni, sulla sintassi, cioè. Ma non di questo si tratta, quanto di riconoscere che la mappa del moderno è piuttosto articolata e complessa e in essa trovano posto (un posto proprio) le avanguardie storiche e l'informale, le neoavanguardie e, appunto, le esperienze recenti che ho proposto di definire come costruzione del nuovo. Naturalmente, mi si può chiedere dove mettiamo tutto il resto, tutte le altre cose che stanno in mezzo e che devor.o essere adeguatamente valutate. Il punto è proprio questo: sono convinto, cioè, che queste altre cose non possano essere considerate come momenti veramente decisivi della tradizione moderna: penso al Novecento e, per quel che riguarda gli eventi più vicini, alle diverse forme di citazionismo, anacronismo oltre che alla transavanguardia. Tutti fatti che (nonostante le rivalutazioni e valutazioni della critica postmoderna) non possono non essere considerati recessivi in una riconsiderazione complessiva dell'arte del XX secolo.
pagina 6 A più voci Alfa beta 1031 Temi. Il politico oggi cordate-ladialettica? D ico subito che mi ritrovo con difficoltà nel dibattito in corso su «Micromega» a partire dall'articolo di Flores D' Arcais su li disincanto tradito, e che continua con diversi contributi su «Alfabeta» in veste rinnovata: mi trovo in difficoltà in un dibattito sulle «ragioni della ♦ sinistra» che usa un lessico storicamente indeterminato nt:1 momento stesso in cui si libera, senza residui, dal lessico, storicamente determinato, di una tradizione culturale e di una lotta politica. Capisco che la risposta immediata a questo rilievo può essere la seguente: si tratta appunto di ritrovare un terreno di confronto e di ricerca che muova da una conclusione avvenuta, per riprendere un cammino possibile. Ma dal momento in cui ci troviamo in presenza di una vera e propria transvalutazione topologica delle «categorie», questa va motivata più a fondo e diversamente, altrimenti il vero rischio è quello di una riflessione che muova da «universali» arbitrari e in definitiva nominalistici. Non nego affatto che il terreno storico-politico possa esser messo in discussione, pure in una ricerca che ha referenti politici, ma questo «paradosso» può essere accettato se si chiarisce su quale altro terreno ci si va a collocare usando un lessico che in realtà si mette radicalmente in discussione. Faccio degli esempi. Di «individuo», «individualismo» sono piene le pagine del dibattito, a cominciare dal testo di Flores D' Arcais che vi ha dato inizio e che ho ricordato poco fa; ma quali sono i confini storico-semantici di questo «nome» una volta azzerata quella cultura politica che lo assumeva in modo storicamente determinato e lo metteva in una serie di relazioni dialettico-comparative? Per essere ancora più chiaro, e per avere un punto di riferimento peraltro niente affatto esaustivo una volta esclusa dall'orizzonte di una sinistra possibile tutta quella linea che possiamo chiamare «critica dell'individualismo possessivo» o proprietario, con quale sentimento, con quale idea parliamo del mondo dell'individuo come «promessa della modernità»? Di che cosa stiamo parlando? di un fascio di interessi, di un sistema di bisogni, o di un cittadino e basta? Possiamo dare effettivamente per concluso, nelle ragioni di una sinistra possibile, lo spartiacque moderno che è dato - non v'è dubbio in proposito - dalla soglia critica individuata da Rousseau nella distinzione-rapporto fra «uomo» e «cittadino»? Ancora. La parola «disincanto» ricorre in pressocché tutti Biagio de Giovanni gli interventi ma rischia di diventare sempre più generica e comprensiva, implicante le conseguenze più diverse, onde ha ragione Formenti nell'osservare che «il disincanto radicale non è compatibile solo con un progetto di democrazia partecipativa ... ma anche, e soprattutto, con l'assolutismo moderno». È dunque in questo senso un concetto che non produce chiarezza, nomen sine re; perché all'origine non lo era? Credo che la ragione sia questa: esso nasceva (o almeno aveva una formulazione stringente) nell'analisi weberiana del capitalismo moderno, e questo si definiva nell'orizzonte della razionalizzaz~one. Si collocava, cioè, in una situazione topologica estremamente specifica. Di là da questa, può certo conservare un significato e un valore, ma mi sembra come minimo singolare che - in un dibattito sulle ragioni della sinistra - questa origine del concetto sia completamente dispersa, e la parola «capitalismo» non compaia neanche per ricordare - oh! solo per ricordare - che un qualche rapporto con il «disincanto» pur c'è, se di esso si parlò proprio nelle opere fondative di una lettura del capitalismo moderno. «Politico», «non-politico», «impolitico», non rischiano di essere anche questi nomina sine re, una volta che si rifugga dal determinare il terreno positivo del «politico»? Capisco che esso è diventato fluido e scivoloso, che bisogna, per afferrarlo, circuirlo e aggirarlo, ma ho anche nostalgia, su questo punto, delle opere classiche, dove, parlandosi di politica, si ritrovava la politica, le sue determinatezze, le sue logiche, le sue alternative. Non si tratta soltanto di lodare il bel tempo antico, anche nelle «categorie», ma di una ansiosa richiesta di determinazione, e - se la parola non suscitasse anche in me qualche diffidenza - di metodo. Sento, ad esempio, che va crescendo la confusione intorno al concetto di «democrazia» (già confusa mi pare l'alternativa: democrazia partecipativa o rappresentativa?) mentre incalza - forse - la grande crisi epocale del suo principio originario. Quando vado, come mi capita spesso, a rileggere Tocqueville, avverto che in quella visione profetica dei problemi che la democrazia avrebbe incontrato nella sua storia successiva (Tocqueville e Marx, non Tocqueville e Constant, questo credo sia il vero confronto da istituire) viene ancora offerta a noi la possibilità di tradurre in pensiero politico «l'antropologia» democratica, e del politico viene fatta appunto una analisi ... politica. Forse questo è anche dovuto al fatto che Tocqueville non rifuggiva dalla storia Michelangelo Coviello per rinchiudersi in dati opinabili, dove è possibile tutto e il contrario di tutto, ma parlando di democrazia parlava anche di America, Russia, Europa e cioè offriva delle determinazioni storiche e geopolitiche, che non si possono disperdere, pena l'incomprensione di tutto. Guardiamo all'oggi: l'Europa si compiace della fine delle ideologie, senza forse rendersi conto che è un andare felice verso il suicidio, se l'Europa è la storia delle sue ideologie; ma il vero paradosso è che fuori d'Europa le ideologie politiche permangono e combattono: l'America è il capitalismo, la Russia è il socialismo ... Possibile che qui si ragioni di nomina, di parole sfuggenti, di concetti reversibili, e che nulla più si dia in un contesto? È una situazione che comprendo sempre meno; non assumo in nessuna maniera il tono di chi «sa» e per ora si limita a criticare; critico il contesto di dibattito che mi si offre, ma non ne so costruire un altro se non in forma di appunto critico-polemico. Intravvedo problemi, ai quali cercherò di dar forma. E mi limito ad un ultimo spunto conclusivo: la questione del «moderno» che è poi la questione cruciale, e che è sottesa a tutta la discussione, soprattutto quando essa prende forma più direttamente filosofica. Tutta la questione del disincanto (tradito o no: non mi è chiaro precisamente 'ciò che cosa significhi) nasce da lì. Ma forse, come si presenta nella nostra discussione, nasce in forma parziale e in parte fuorviante: il «disincanto» si lega alle due letture del moderno che sembrano contrapporsi in molti interventi e che del resto sono due letture che tengono il campo - o meglio hanno tenuto il campo - nella discussione europea e in particolare tedesca degli scorsi decenni. Il moderno o è laicizzazione o è secolarizzazione, o è autolegittimazione o è indebolimento nel «secolo» dei forti principi dell'origine. Mi scuso per la semplificazione, e non avrei neanche bisogno di ricordare che è appunto una semplificazione e che gli intrecci sono ben più complicati e i punti di consapevolezza presenti anche nella discussione in corso ben più articolati e ricchi. E comunque, quella semplificazione c'è, e opera, e si avverte. Credo che sia importante che la questione si sollevi, anche se è imbarazzante farlo nella forma di «coda» ad un breve intervento. E tuttavia ci provo. Nelle due forme indicate, disincanto e modernità sono in stretta relazione fra loro; ma ciò che in quelle due forme di lettura del moderno si disperde, o sulla via di una positiva valutazione del moderno come processo di progressiva laicizzazione o sulla via di una interpretazione semplicemente «indebolita» del suo movimento, è il moderno come compresenza esplicita di una «tensione» che ne costituisce il concetto. Si perde di vista la modernità come costituita dalla «contraddizione»; positivo e negativo, forza e debolezza del soggetto sono visti secondo una scissione concettuale che isola e immobilizza ciascuno in se stesso, ogni elemento nel proprio sé, senza ombre n~' chiaroscuri. Si dovrebbe tornare a riflettere sulla contraddizione del moderno, sul moderno come contraddizione, ·sulla dialettica. Fuoriuscito da questo punto che si tende entro il suo stesso concetto, il moderno o regge la propria complessità su un principio di pura responsabilità etica o si disperde in una semplice «varietà» dove ciascun elemento regge alla condizione che non si batta con troppa forza alla sua porta. La difficoltà che ho prima rilevato a dare una determinazione più ·specifica al nome di «individuo» sta, mi pare; anche nel fatto che, guardato solo in sé, l'individuo resta terribilmente indeterminato ed ugualmente indeterminata l'idea che la promessa della modernità è che il mondo sarà «il mondo per l'individuo» (Flores). Se il moderno è puro «disincanto» e il disincanto è, a sua volta, un puro riflettersi dell'individuo in se stesso - sia pure con differenti intenzioni, con differenti volontà - da questo non nasce un pensiero in grado di misurarsi con il presente. Bisogna invece restaurare l'idea che la verità è contraddizione, e la contraddizione è verità; e scavando appena più a fondo in questo, che è il grande passaggio della modernità, forse si può ritrovare un terreno possibile di determinazione dell'individuo per contrasti e per connessioni, per tensioni incompiute che impediscono di vederlo come un mondo a sé. È un caso che le «ragioni della sinistra» si sono molte volte legate a questo principio del rapporto fra contraddizione e verità? A quello che si è chiamato pensiero dialettico? Continuo a ritenere questa connessione essenziale. Ma questo punto sembra completamente scomparso dal nostro orizzonte, e il richiamo ad esso una pura suggestione regressiva. Sostengo, invece, che portare con forza questo punto nella discussione può contribuire a che essa esca da un'impasse logica che diventa sempre più inestricabile.
I Alfabeta 103 L a prima impressione che mi provoca l'articolo di Carlo Formenti su Politeismo e disincanto è che, dopo una lunga fase di fughe solitarie, si stiano finalmente riannodando le fila di un dibattito comune nella cultura di sinistra in Italia. La seconda è che tale dibattito - iniziato sulla rivista «Micromega» e sviluppato adesso sulle pagine di «Alfabeta» - sconti una iniziale difficoltà linguistica relativamente alla definizione e all'uso di alcuni terminichiave, quali quelli di «teologia politica», «secolarizzazione», «politeismo» e via dicendo. Credo sia perciò utile da parte di chi d'ora in avanti intervenga un tentativo non dirò di rifocalizzazione concettuale generale, ma, quantomeno, di dichiarazione d'intenti personale circa le espressioni più controverse. Cercherò allora di dare il buon esempio a partire da quel vero e proprio crocevia semantico costituito dalla nozione di «teologia politica». È noto come essa venga in genere usata secondo la particolare aecezione conferitale da Cari Schmitt: e cioè alludendo a quella trasvalutazione (forse più che semplice parallelismo) che nella Modernità trasforma alcuni concetti teologici in altrettanti concetti politici, venendo di fatto a coincidere con il processo di secolarizzazione. In questo senso mi pare l'a.doperi anche Formenti, intendendo per secolarizzazione non una sorta di demitizzazione quanto una prospettiva di «reincantamento»: da qui la traduzione dell'idea di teologia politica in quella di «nuovo politeismo». Ora io proporrò uno spostamento, e per certi versi una restaurazione, di significato rispetto a questa tradizione interpretativa e mi rifarò invece ad un'altra, e più originaria, lezione, che intende la teologia politica in termini di necessario monoteismo. Non a caso ad essa, secondo Erik Peterson (Der Monotheismus als politisches Problem) - Ambrogio ed Agostino opposero la concezione trinitaria. Che cosa precisamente, del monoteismo teologico-politico, Agostino e Ambrogio rifiutavano? Questo qualcosa era il legame della fede cristiana con la potenza dell'impero romano, o, più in generale, qualsiasi confusione dell'idea di Bene con quella di potere (o di Necessità, come avrebbe detto Simone Weil). È questo sostanzialmente il significato dell'espressione «teologia politica» cui d'ora in avanti farò riferimento: la concezione secondo la quale il Bene sarebbe rappresentabile politicamente e la politica interpretabile in termini di Mario Giusti A più voci .. valore. Va da sé che, una volta accettato questo significato, il Moderno si configuri on una caratterizzazione spiccatamente antiteologico-politica. Da questo punto di vista concordo con l'impostazione di Flores: ma me ne discosto non appena egli interpreta la spoliticizzazione moderna in termini di «tradimento». Quell'esito fa fin dall'inizio parte della sua storia, è anzi il naturale portato della sua intentio antiteologico-politica (nel senso suddetto). Qui torna utile il riferimento a Cari Schmitt, ma allo Schmitt giovane del saggio del 1923 su Cattolicesimo romano e forma politica. La tesi fondamentale che Schmitt vi porta è appunto il carattere costitutivamente spoliticizzante della Modernità. E più precisamente che tale spoliticizzazione sia determinata dal rifiuto della «rappresentazione» come ciò che lega la decisione politica all'«idea» o, in altre parole, che consente e richiede un transito tra Bene e potere. Il Moderno, nel suo eminente carattere tecnico-economico, rifiuta la rappresentazione, e cioè il riferimento a qualcosa che trascenda la dinamica dei suoi rapporti interni. In questo senso il suo movimento è autoreferenziale: fa capo ad una tecnica sempre più capace di autogovernarsi al di fuori di qualsiasi finalità esterna. Tutta la concezione funzionalista, lungo la linea frastagliata che va da Hobbes a Weber, Parsons e Luhmann, sta dentro questo orizzonte concettuale: vale a dire quello di una «sistematica» formale capace di funzionare senza riferimenti vincolanti alla logica dei contenuti soggettivi che la abitano. La stessa differenziazione in sottosistemi è organizzata in modo da non richiedere convergenze «ideali». Il politico è ridotto ad uno di questi sottosistemi: da qui la sua autonomia, ma anche, e sempre più accentuatamente, il suo svuotamento interno, la sua evaporazione funzionale alla oggettività sovrana del meccanismo. È proprio a questa irresistibile tendenza spoliticizzante del Moderno, al suo costitutivo antimachiavellismo (il Moderno nasce con la vittoria di Hobbes su Machiavelli) che «reagisce» la teologia politica cattolica: nel senso - spiega Schmitt - che solo teologicamente può darsi politica nel Gilio Dorfles pagina 71 ,, mondo della Tecnica. Ma ciò che altro vuol dire se non che, in questo tempo che è anche il nostro, è utopica, irrimediabilmente utopica, ogni progettualità politica, ogni filosofia politica declinata in termini affermativi? Eccoci così tornati al nostro problema di partenza. Ed eccoci anche a ridosso di quella categoria d'«impolitico» cui ho già fatto più d'un cenno nell'articolo discusso da Formenti (e sulla quale da tempo sto conducendo un lungo lavoro d'insieme). Impolitico è precisamente quell'atteggiamento, o, se vogliamo, quella forma di pensiero, che pur rifiutando l'esito spoliticizzante della secolarizzazione moderna, e anzi situandosi ai suoi antipodi - non anti-politica, semmai «ultra-politica» è la sua intenzione - rifiuta al contempo ogni ripiegamento sulla repraesentatio teologico-politica, ogni luogo trascendente di fondazione del politico. Questo punto dovrebbe essere chiaro. Più problematiche, naturalmente, relativamente alla dimensione dell'impolitico, sono le sue modalità interne, i luoghi, i tempi e i modi del suo prodursi per noi. Intanto va detto che anch'esso ha una «tradizione nascosta», la quale, a parte il decisivo antecedente nicciano (sul quale ha più volte, e con originalità d'accenti, richiamato l'attenzione Massimo Càcciari) tocca autori assai diversi - da Hermann Broch a Elias Canetti, da Simone Weil a Georges Bataille a Ernst Jiinger (ma includerei «à sorpresa» in questa linea anche l'ultima produzione di Hannah Arendt, oltre, ovviamente, il suo Benjamin) - ma tutti unificati dal più netto rifiuto del concetto teologicopolitico di rappresentazione-rappresentanza: il Bene, la Giustizia, è politicamente irrappresentabile; o meglio: è Antonio Porta
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