Alfabeta - anno IX - n. 102 - novembre 1987

Alf abeta 102 lamentava sconsolato che quando il giudizio sull'arte è affidato al pubblico vincono le specie e gli artisti peggiori, diceva che bisognerebbe affidarsi invece a giudici «bene educati». Ma Lei sa anche, credo, che oggi non possiamo contrapporre un «grande pubblico» ai «bene educati», che la ragione non sta da una parte né dall'altra né nel mezzo, che soltanto una dialettica tra le istanze più diverse può dare luogo a una prassi «utile» (a che servono tanti canali se si somigliano tutti e al peggio?). Non c'è purtroppo nessun passato da assuA più voci mere come modello. La complessità del contemporaneo è tale da richiedere soluzioni fantasiose, completamente nuove. Non dia perciò ascolto ai Vecchi Nuovi e ai Nuovi Vecchi che si uniscono nel reclamare una barriera contro la massa informe, in apparenza, costituita da chi ricerca un teatro capace di contrappunto ai bisogni e alle idee di oggi. Riuscirà Lei, ministro sportivo, a dare sostegno senza impedire la selezione? A non cedere all'arroganza delle specie più consolidate, a non credere alle loro carte false? Un modo empirico per capire di essere nel giusto c'è, forse. Se i rappresentanti di tutte le specie teatrali esistenti mostreranno una certa scontentezza, pur continuando a esitare e produrre, vorrà dire che nessuno è privilegiato. Se cominceranno a nascere dei veri centri di cultura teatrale, dove non si bada tanto agli indici di ascolto ma alla vivacità degli scambi, vorrà dire che forse siamo sulla via giusta. Nel teatro come nello sport ciò che vale è l'eccezione, non la regola, ma se la regola è sbagliata l'eccezione non può manifestarsi. pagina 9 Da molte parti Le chiedono di compiere un piccolo genocidio. Se Lei accettasse avrebbe probabilmente un buon successo personale e il suo potere crescerebbe; mentre nessuno si sprecherebbe a protestare per un crimine «culturale». Non sprechi l'occasione, signor ministro, di lavorare invece per la vita, contro l'abbrutimento corporativo e l'inquinamento politico. Si schieri, da sportivo, per un metodo corretto prima che per una categoria. E vedrà che non resterà solo. Con i più sinceri auguri di buon lavoro. Teatrdace danza S u queste pagine si avviava due anni fa un dibattito serrato sui rapporti tra danza e teatro («Alfabeta», n. 71), sulla nuova coreografia italiana («Alfabeta», n. 78), sulla cosiddetta «danza-danza», intesa nella riflessione attenta e incalzante di Giuseppe Bartolucci («Alfabeta», n. 80) come «stato attuale pertinente della nuova danza». Per quanto inimmaginabile, quelle lontane riflessioni continuano a essere di stretta attualità. Sorprendentemente appare ancora attualissimo, per esempio, il divario che separa chi sente il bisogno di ripetere che «la distinzione fra teatro e danza, fra attore e danzatore è un laccio peculiare quasi soltanto al moderno pensiero occidentale sullo spettacolo», e conseguentemente sconsiglia di elevare le specializzazioni a regole per ragionare, a norme per agire, «per non rendere sempre più sciapo e traballante il pensiero teatrale» (citiamo da Ferdinando Taviani, «Alfabeta», n. 78) e chi invece, co~ me Giuseppe Bartolucci, crede nell'utilità di «guardare, inseguire con pazienza e severità assieme, gli spostamenti, le modificazioni delle esperienze di nuova coreografia, di nuova danza». La scarsità, o addirittura la mancanza di analisi, di ipotesi di lavoro, di manifestazioni che oltrepassino nei progetti e non solo a parole questo scontro di opinioni avalla il mortificante sospetto che per la danza - la nuova danza, la danza di ricerca o comunque quella danza che tenta di rischiare fuori dalle convenzioni - esista ancora un serio problema di legittimazione e di autonomia. Autonomia di pensiero, di interpretazione. E legittimazione a esistere in quanto «teatro» con tutto il bagaglio oggi più che mai complesso di riferimenti, citazioni, rimandi a un moderno che ritorna ma disilluso, evitando le ricapitolazioni culturali del postmoderno, accennandosi come possibile neomoderno o altro ancora. Invece, per quanto si ricava da articoli di quotidiani, riviste o poco di più, il perno del dibattito sulla danza (ma in questa sfera, in realtà, si dibatte assai poco) è ancora un interrogativo fatale, anzi una scelta di comportamento. È giusto parlare di danza, immergersi nei suoi percorsi complessi, rivelare travagli, obbiettivi, diversi modi di fare e di farsi leggere, o è più giusto mantenersi a una prudente distanza dallo specifico per ancorarsi, all'occasione, a quel «pensiero teatrale» che da Artaud in poi sonda le sconfinate certezze del teatro orientale? È la domanda che si pongono critici, organizzatori, direttori di festival come Oriente e Occidente di Rovereto che da sei anni insiste a farsi crocevia di esperienze teatrali di confine pagando in realtà, con un'evidenza sempre più allarmante, l'attardarsi attorno a una formuletta i cui poli d'incontro sono, tra l'altro, largamente impari. Da una parte un Occidente che avanza ormai senza etichette, senza punti di appoggio se non il suo scorrere avanti e indietro nel tempo: spiazzante fagocita Oriente e Occidente insieme in un amalgama assai complesso. Dall'altra, un Oriente che a ogni appuntamento si rivela (con ecMarinella Guatterini cezioni s'intende) anacronisticamente legato alle proprie maniere tradizionali (persino il butoh) al cui confronto i tanto vituperati codici della danza occidentale appaiono come liberanti giaculatorie per la rifondazione del teatro. Logico aspettarsi che l'evidenza molto tangibile di questo impossibile scambio, il ridimensionamento dei confini che tendono addirittura a scomparire ma dentro le singole «opere» piuttosto che nei contatti esterni, non tocchi tutti coloro che studiano «l'arte che muove la macchina teatrale» a Q tavolino, né chi preferisce non rischiare di vedere troppì spettacoli «per non ottundere la propria esperienza del teatro» (Taviani, «Alfabeta», n. 78). Dovrebbe toccare, invece, tutti coloro che, senza accademismi, né pudori, seguono il dipanarsi delle esperienze contemporanee, vogliono verificare il grado di accelerazione e decelerazione della ricerca rispetto ai percorsi sin qui effettuati. E non deprezzano i riferimenti a testimonianze pratiche e teoriche piuttosto sconoo sciute o marginali (quanto è utile il pensiero di Rudolf de Laban per comprendere l'importanza e la novità per esempio di Salvatore Viganò) se si rivelano pertinenti ad arricchire non un'esperienza teatrale generica, ma un'esperienza particolare, e oggi non esistono che frammentarie esperienze particolari. Curiosamente, ogni volta che i riferimenti al teatro orientale come approccio alla danza si fanno più marcati cresce anche la diffidenza. Nasce una dubbiosità catastrofica, un'insistenza ossessiva proprio sulle disprezzatissime «distinzioni» (teatro-danza sì, forse perché evoca le mitiche reliquie d'Oriente, danza-danza no, «è cattiva coscienza» ammonisce Ugo Volli sulla «Repubblica» del 15 settembre) che si tramuta spesso in una ritrosia a leggere la scrittura coreografica, a tradurre e interpretare i suoi valori astratti o semplicemen-. te a riconoscere i segni che si mascherano dentro la velocità del movimento. S e la danza, la danza di ricerca, recupera la coreografia come oggi, senza ideologie, senza illusioni, ma per rigenerarsi, diventare «opera», farsi narraIl nascondiglio dell'iniquità zione, richiede una capacità di introspezione diversa - banalizzando potremmo dire che richiede una lettura musicale - ma non significa per questo che abbia soppresso le sue tensioni verso il nuovo, i suoi turbamenti. Né implicitamente costringe «lo spettatore a porsi dentro o fuori del suo linguaggio chiuso» (ancora Volli, su «Repubblica»), ammesso che la coreografia possa essere considerata un linguaggio e non piuttosto, in un'accezione più attuale, un espediente della danza per diventare linguaggio, e ammesso soprattutto che si tratti di un linguaggio chiuso e non piuttosto definito tale in virtù di quei luoghi comuni tanto comodi ma così generalizzanti da liquidare il tentativo di una scrittura scenica diversa che si iscrive nello spazio e nel tempo vincolata da un patrimonio di regole e di contravvenzioni a queste regole non più tradizionale ma comunque musicale, reclamando per questo una certa dimestichezza, un orecchio sensibile, un fine udito. La complessità della ricerca di danza è fortunatamente un salvagente e un utilissimo antidoto contro la banalità dilagante, non è affatto un ripiegamento verso il classico, e la sua lettura vorrebbe un allenamento che non ha nulla a che fare con la conoscenza dei codici della danza. Concordiamo con Taviani («Alfabeta», n. 78): «critici di danza e di teatro non si devono illudere di esser specialisti di forme teatrali diverse». Esiste però un problema di contributi. E uno dei contributi maggiori che si possano dare alla danza che tenta il nuovo consiste proprio in un continuo sforzo di deghettizzazione, di apertura, di approfondimento specifico verticale, più che orizzontale. Elitario più che emozionale. Il settore paga in questo senso un grosso ritardo strategico. La dipendenza dagli antichi talismani teatrali di ieri, come Oriente e Occidente, elude il rischio di una proposta che a partire dalla danza, dalla sua ricchezza stabilisca confronti e intersezioni, giocando con se stessa e con i linguaggi che vengono a contaminare, a spiazzare le sue certezze, seguendo cammini simili che si lasciano per strada i richiami a «un pensiero teatrale» granitico, uniforme, fuorviante rispetto ai disturbi crescenti, tutti da attraversare, da affrontare come emergenze già vecchie: la tecnologia, il video. Prudentemente, alcuni festival di teatro, quelli che da tempo contraddicendosi e rigenerandosi, come Santarcangelo, hanno comunque dimostrato di poter camminare al passo con certe utopie del teatro odierno, hanno per così dire cacciato la danza, forse presentando non tanto la sua alterità, una diversità, bensì la mancanza di autonomia, una debolezza di pensiero. Si sono invece moltiplicate le manifestazioni, i festival dedicati esplicitamente al settore, le vetrine che hanno dimostrato la verità di una presenza diffusa della danza nel mondo, ma per lo più secondo un piano, non si sa bene quanto consapevole (per esempio per il festival Torinodanza) di livellamento, di omologazione a carattere piuttosto televisivo e svilente (come sviliscono programmi non dedicati alla danza bensì alla mescolanza dei generi, ben distinti ma tutti moralisticamente importanti come ci ha insegnato la trasmissione in mondovisione, Le divine). Nella trappola dell'omologazione, nella disponibilità a credere che potessero vivere forme di diversità, di sperimentazione a partire da metodi di lavoro equivoci (un po' di espressività, un po' di esercizi di danza pura: ecco la ricetta del teatro-danza) più che ambivalenti o sinceramente interdisciplinari, siamo caduti di già. Oggi, fortunatamente, emerge l'erudizione degli operatori e il loro sorriso di distanza che impegna a essere vigili più che saccenti. Ma vale anche l'ipotesi che un velo di silenzio, una barriera difensiva contro aggressioni giornalistiche e televisive possa essere la vera salvaguardia di questi complessi ma fragili tentativi di ricerca. Visto che il silenzio è già una buona discriminante per isolare eventi diversi nell'affollamento dei balli sponsorizzati, tutti uguali.

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