Alfabeta - anno IX - n. 102 - novembre 1987

I Alfabeta 102 Lettera di Eugenio Barba e aro Franco, benché sia personale, diretta a te, questa non è una lettera privata. Volevo essere presente, almeno per iscritto, a Ivrea dove venni venti anni fa con Else-Marie e Torgeir a mostrare frammenti del primo spettacolo dell'Odin Teatret e gli esercizi del training. Tramite te, desidero rivolgermi anche agli altri, quelli che allora c'erano e quelli che di quel Convegno - che oggi appartiene alla Storia - hanno solo sentito parlare. Quando - in gran parte per opera tua - fui invitato a Ivrea, nel 1967, apparii - credo - come il rappresentante di un teatro monastico soddisfatto della sua clausura, addirittura affetto da un senso di superiorità morale. Per Else-Marie, per Torgeir, per me quell'invito fu invece uno dei primi segni di solidarietà, di curiosità e interesse capace di rompere un isolamento di cui soffrivamo. Volevamo seguire la nostra strada, quasi rifarci il teatro dalle fondamenta, visto che nel teatro già fatto non c'era posto per noi. Tutto questo per incontrare altri, per essere accettato e per accettare, malgrado e tramite la difficoltà a comprenderci, l'impossibilità di riconoscersi tutti in una stessa visione teatrale. Possono la solidarietà, il rispetto reciproco, l'affetto andar d'accordo con l'intransigenza? A questo si riduce il problema dei rapporti fra uomini che seguono strade diverse, che a volte non si incontreranno mai, e che pure non possono restare soli in un ambiente che è ostile, malgrado l'accettazione o il successo di cui, di tanto in tanto, possono godere i «teatri diversi». Quando nei tempi della permanenza nostra in Danimarca, l'Odin Teatret attraversò una crisi economica che ci avrebbe costretto a chiudere, fummo salvati dalla solidarietà dei colleghi del teatro «tradizionale», «commerciale», «boulevardier» che non comprendevano il nostro lavoro, che ne rifiutavano il senso sul piano teorico, ma dettero una «beneficiata» per raccogliere fondi che ci permisero di sopravvivere. In quella serata, per l'unica volta in vita mia, ho visto e mi sono goduta un'operetta. A vent'anni di distanza quella polarità tra bisogno di isolarsi e bisogno di sentirsi accettato non esiste più. Appartengo a una Laputa Teatrale che è sì una piccola isola, ma ha radici in ogni continente. So che potrebbe andare in pezzi da un mese all'altro. Ma so anche che a casa mia c'è una stanza grande abbastanza per poter far teatro, e che in giro per il mondo ci sono abbastanza persone - tante almeno da poterle contare sulle dita di due mani - con cui potremmo riunirci e lavorare. Eppure non è vero che di quella polarità non rimane più nulla. Oggi sento il teatro come una professione - un'azione - caratterizzata dalla tensione tra la propria identità storico-sociale-culturale e la propria identità professionale. L'una ci collega al nostro ambiente storico e geografico, l'altra ci spinge a non tenere conto delle frontiere fra le culture e ci stringe ai nostri diversi e distanti colleghi. Quanto più parlo e rifletto sulla dimensione eurasiana del teatro, tanto più ritorno a·pensare alla terra in cui sono cresciuto. Quanto più mi concentro sui livelli basilari che determinano il bros teatrale, tanto più sento il fascino e l'ossessione della Storia in cui viviamo. Lavoro a lungo sul pre-espressivo dell'attore, ma perché a teatro mi interessano solo i significati: non quelli ovvi, ma quelli personali che sono là dove io, l'attore, lo spettatore non li aspettavamo. • A più voci Taccuini Mentre invecchio e si fa più impellente la responsabilità di trasmettere un'eredità che io stesso ho rièevuto, provo la gioia di scoprire quali siano stati i miei primi maestri. Da alcuni anni non sono più cittadino italiano. Scrivo questa lettera da Otranto. La metto in bella copia a Holstebro da dove te la invio. Quando la leggerai sarò in Brasile. Spero che a Ivrea prendiate efficacemente posizione nei confronti di ciò che sta accadendo nel teatro italiano con le orecchie attente ai molti scricchiolii, alle voci ancora troppo deboli per farsi bene sentire, ma già vive. Spero che non ragioniate per categorie, per stili, per tendenze. Vi auguro anche che su Ivrea non passi solo aria italiana. Spero che l'attraversi il vento dei viaggi che ha sempre caratterizzato i teatri la cui permanenza è fatta da ciò che si trasmette da uomo a uomo e non dalla solidità degli edifici. Vi auguro i venti dei teatri orientali, apparentemente immobili nella profondità del loro sapere; i venti dei teatri latino-americani agitati dal rischio continuo Il nascondiglio dell'iniquità C!7 della perdita di identità, con l'odore acre della violenza subita, del sacrificio, della penuria, invisibili a coloro che amano solo il velo della grazia e dei capolavori. Personalmente, senza questi venti, mi sarebbe difficile riformulare a me stesso il senso del teatro, pensare al futuro. Per questo li auguro a te, Franco, nomade anche tu, e li auguro a tutti voi. Dalla relazione di Franco Quadri o ggi è sempre più labile la barriera che passa tra chi vede uno spettacolo e chi non lo vede; e la differenza, del resto, è pochissimo rilevante. Per parlare di uno spettacolo, non è necessario averlo visto: basta sapere di che si tratta, capirne il senso, possederlo concettualmente. I media· fanno il resto: una foto, un giudizio, una sequenza ripresa sono lo spettacolo. Questo non vale soltanto per i critici, sulle cui distrazioni, sui ritardi, le dormite, le assenze e scomparse circolano leggende, ma per gli spettatori in genere. •«Ho recensito Kantor senza averlo visto», mi diceva un giorno, con un pregiudizio negativo che non ammetteva repliche, Carmelo Bene. Vi sono infatti spettacoli replicati per pochissimi spettatori come Le Baccanti di Ronconi, replicati pochissime volte come il Winterreise nell'Olympia Stadium di Berlino, o mai replicati come Genet a Tangeri n~ macello di Riccione, che hanno visto moltiplicarsi negli anni il numero dei loro spettatori come i famosi Mille di Garibaldi. Quanti ne parlano e scrivono come se li avessero visti! E a volte sono così radicati nelle loro mitizzazioni da essersi convinti - in buona fede - di averli visti. La presenza, l'immediatezza di quel rapporto di comunicazione che è uno degli specifici del teatro, si svaluta e impallidisce davanti alla riproduzione trasposta, al semplice messaggio, al senso dell'acquisizione collettiva. Questo non depone a favore della diffusione e della rilevanza d'immagine del teatro, perché gli strati raggiunti da questi tipi di informazione rimangono sempre limitati, ma piuttosto di quel sentimento di superficialità diffusa, su cui giocano alcuni teatranti, per i quali conta più l'opinione della realtà, più il titolo di giornale del pezzo che lo segue. [... ] Cercando i testi (non solo quelli teatrali), alcuni registi sono arrivati a ricrearsi dei mondi, dal Brook del Mahabharata, al Ronconi di Ignorabimus. Altro che anni di transizione! Vogliamo aggiungere, al di fuori dei testi, Il Vangelo di Oxyrinco di Barba e, recuperando Wilson, Death Deshuction Detroit 2? Guarda caso, lo si confessi o no, sono tutti e quattro spettacoli di laboratorio. Quello di Wilson, in particolare con il suo prolungarsi su tutti e quattro i lati della sala di una fucina inesauribile di immagini, sul tema di una immaginaria biografia di Kafka, costruita come un puzzle di sistemi combinatori applicati alla. fiction. Quello di Wilson nasce alla Schacbuhne am Lehniner Platz, ovvero nell'ultimo vero laboratorio esistente al mondo, dove all'artista è concesso di provare a tempo indeterminato, dove ha la possibilità di modificare ad libitum lo spazio, e soprattutto una libertà assoluta di creazione. Lì negli stessi giorni Peter Stein presentava il suo Scimmione peloso, e non importa se il pamphlet propagandistico di O'Neill era fragile e contraddittorio; importa la creazione - trasferita dal «tempo» di Ignorabimus allo «spazio» - della vita di una nave in tutta la sua altezza, con i macchinisti schiacciati negli scomparti a vari piani come in una citazione di Piscator, per poi far posto, nella pagina 7 altissima scena svuotata, alla selva di luci di una New York di grattacieli-giocattolo. Era giustamente una follia, molto attaccata dalla critica, per Stein una prova del suo diritto a sbagliare, sempre che abbia sbagliato. Il pubblico delirante che gremiva la sala non era un assieme amorfo passivo di abbonati. Era un pubblico. Vogliamo dire che in Italia un'iniziativa del genere sarebbe impensabile, perché sappiamo com'è finito, proprio alla metà di questo ventennio, il Laboratorio di Prato. Eppure nel 1975, all'insegna del laboratorio, s'era celebrata la Biennale Teatro di Ronconi. Ma chi parla più della Biennale Teatro? Perfino i critici teatrali hanno dimenticato, a differenza dei loro colleghi di cinema, di reclamarne l'esistenza. A proposito di Ronconi, insistendo sul laboratorio, s'è già fatto l'esempio di Ignorabimus, al Fabbricone di Prato dove ora c'è Lerici; facciamo anche quello del «prototipo» che il regista prepara in due anni a Milano su testo suo; e del suo lavoro con le scuole di arte drammatica, sempre più attive in questo campo, anche se con programmazioni troppo schizofreniche. E citiamo alla rinfusa altri esempi: - i Magazzini Criminali nel periodo di Scandicci, prima della cacciata; - il Centro di Pontedera non solo col progetto Grotowski; - Giorgio Barberio Corsetti con l'applicazione tra video e teatro con Studio Azzurro; - Giorgio Marini, in prova per un anno a Roma con la Blixen prima e ora coi Fanatici; - la stagione di Leo a Nuova Scena; - le «Troiane» di Tierry Salmon in preparazione per Gibellina, con 39 ragazze di quattro paesi, in prove seminariali di otto mesi tra sedi di festival e di teatri, tra cui i Teatri Uniti napoletani che si trovano impiegati in un analogo progetto monotematico; - il Centro per la Drammaturgia di Fiesole e il Pasolini per il fondo Pasolini; - e Quartucci da Gennazzano a Berlino, a Erice, e poi gruppi come Remon e Caporossi, Santagata e Morganti, la Raffaello Sanzio o la Valdoca, ovvero il «duo dispari» di Cesena, ecc. Il laboratorio dunque esiste e si contraddistingue per i tempi lunghi di lavoro, per la costruzione di uno spazio personalizzato per ogni spettacolo, per l'esperimento sul linguaggio, per l'elaborazione di un metodo. Io credo che la vera sperimentazione sia un laboratorio permanente, e che lì debba trovare la sua strada, non bloccandosi su questioni di datazioni, sulle mode sancite dalle circolari ministeriali, sulle tentazioni della spettacolarità fine a se stessa, sulle sterili distinzioni tra processo e opera. Ci sarebbero pure degli ideali strumenti di promozione come i centri, una volta dotati dei mezzi necessari, perché ora ahimè sono per lo più occupati in tutt'altro, a farsi le proprie vetrine, o a studiare ragioneria tra le pieghe del sistema. Il laboratorio potrebbe essere il terzo elemento, evidentemente sostenuto dallo Stato nel suo contributo a nuovi linguaggi, in un'organizzazione a tre punte che metta fine alla confusione interessata e scialacquatrice di questo paese, ricchissimo di teatro, ma incapace di amministrarlo. I due argomenti sono estratti dalla relazione di Franco Quadri (all'inizio e in fine) al Convegno di Ivrea Memorie e Utopie, Per un Nuovo Teatro; 25-27 settembre 1987. La lettera • di Eugenio Barba è stata letta nella stessa occasione. • •

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