Alfabeta - anno IX - n. 102 - novembre 1987

Alfabeta 102 alfa bis. I pagina Xlll L' ombeliCOnèdsoel~ ~~Jo P er diventare psicoanalisti, di regola, è necessario aver fatto esperienza di una propria analisi. Che cosa diventa quest'esperienza quando il «tempo delle sedute» è finito? Per cercare di fornire qualche elemento di risposta, mi servirò di un sogno sopraggiunto a qualche mese dall'inizio della mia analisi: Un regolo era inseguito da una donnola. La donnola gli aveva già strappato le piume della coda e al loro posto si vedeva una macchia di sangue. L'uccello allora si girava indietro e con le ali faceva un gesto d'impazienza. Siccome mi soffermavo a descrivere il gesto, il mio psicoanalista, che fino a quel giorno era rimasto in silenzio, domandò: «Come chi?» Mi si presentò subito davanti l'immagine di mio padre che con le braccia faceva un suo gesto abituale, come a scusarsi di aver sbagliato. Il sogno, che all'inizio mi era sembrato muto, cominciò a produrre una lunga serie di associazioni, come un cavo che, tirato giù dal peso dell'ancora, scorre cangiando nell'acqua scura. Riduco all'essenziale le associazioni. Strano, certo, aver rappresentato mio padre con un regolo - «per lei un regolo è un fardello pesante». Per me non era stato affatto pesante. Era andato via di casa quando avevo quattro anni. Ogni tanto lo vedevo, ma non provavo nessun sentimento nei suoi confronti. La sua morte, un anno prima, mi aveva lasciato indifferente. La macchia di sangue risvegliava un ricordo penoso della mia primissima infanzia. Per errore, con la pinzetta delle sopracciglia di mia madre, mi ero strappata, non le sopracciglia, ma le ciglia. All'improvviso vedo nello specchio l'occhio coperto da una macchia di sangue. Ero stata punita per aver voluto fare come mia madre? Perché la macchia era stata trasferita dal mio occhio alla coda del regolò? Del regolo mio padre? Mia madre era bellissima. Spesso mia nonna diceva che l'aveva vista crescere come un giunco. Il regolo è un fardello pesante per il giunco. Forse il regolo ero io? Non ero forse stata un pesante fardello per mia madre che aveva dovuto allevarmi da sola? Che mi aveva portato nel suo ventre? Sì, come un giunco, a differenza delle altre donne della famiglia che erano piccole e grosse - «l'uomo è un giunco che pensa» - ed ecco che mi appaiono mille le ragioni che mi avevano incitato ad annoverare mia madre fra gli uomini. E mio padre? Forse non l'avevo annoverato fra le donne, ma neanche, in ogni caso, fra gli uomini. Uomo, donna ... ero come mio padre o come mia madre? Laurence Bataille I... ,J .. Ero forse io che facevo quel gesto d'impazienza perché non ero un maschio? E siccome non ero maschio mi sentivo «come mio padre»! E la donnola? Vago ricordo di un'altra favola di La Fontaine ... (Alcuni anni dopo ho scoperto di aver mischiato due fiabe: Il cane, la donnola e il coniglietto e La donnola nel granaio.) Una donnola era entrata nella tana di un coniglio e non poteva più uscirne perché aveva mangiato troppo. Ventre greve - gravidanza - per aver mangiato troppo. Per aver mangiato la coda del regolo. Il sintomo che mi aveva indotto a cominciare un'analisi aveva un rapporto diretto con questo tema. Dopo l'analisi di questo sogno l'indifferenza che provavo per mio padre si trasformò in rabbia esplosiva. Come aveva potuto essere così vigliacco? Come aveva potuto permettere che fossero le donne a portare i pantaloni? Poi tornò ancora l'associazione: mia madre, un giunco. L'uomo è un giunco. Un giunco che pensa. Tutta la differenza consisteva nel «che pensa». In effetti in famiglia il pensare era riservato esclusivamente agli uomini. Era «il loro solo privilegio», l'attributo virile; la sua ordinata ripartizione bastava ad evitare il caos. Neanche a parlarne che una donna potesse appropriarsene. In ogni caso non io. Per questo motivo mi ero sempre astenuta dal pensare. Cominciai allora a prendere le distanze dall'irruenza dell'immaginario. Il regolo che pesa sul giunco mi apparve come la rappresentazione dell'atto sessuale tra mio padre e mia madre. Una rappresentazione derisoria e muta del desiderio che forse aveva presieduto al mio concepimento. Il mio sintomo più fastidioso non aveva più ragion d'essere. Il sogno del regolo tornò a più riprese nella mia analisi; un vero e proprio crocevia in cui si congiungevano fantasmi, avvenimenti, fobie e ossessioni della mia infanzia rimaste ancora molto attive. Quando vi ripenso adesso, non vedo più le immagini che descrivevo raccontandolo. L'unica che permane è l'immagine di un regolo di profilo sicuramente derivata da un'illustrazione della fiaba La quercia e il giunco. Qualcosa come il finalino di chiusura di un libro: non si saprà mai ciò che la storia non ha detto; l'uccello fa in qualche modo da epitaffio, iscrizione enigmatica sulla tomba che nasconde per sempre l'ultima verità. Regolo (roitelet), reuccio. Con una rappresentazione derisoria mi ero presa gioco del re che mio padre era stato per me al di là dei miei ricordi; re rispetto all'assurdo della vita, re di cui sarebbe venuto il regno e sarebbe stata fatta la volontà sulla terra; una terra in cui la parola non fosse men- - zognera e potesse dire tutto, dove il desiderio fosse semplice ed ogni cosa avesse un senso. Un re che, al contrario del Dio della Bibbia e di mio padre, sapesse quello che faceva e non dovesse sacrificare le sue creature (e addirittura il proprio bambino) per raccapezzarsi nel grande disordine di un mondo che aveva lui stesso creato. Non è che un regolo. Dice solo che ormai è chiusa per sempre la bocca che avrebbe potuto rivelare il senso dell'esistenza, il senso della vita e della morte, il senso della sessuazione. Perdura tuttavia, figura enigmatica contro cui domande e risposte subiscono un incessante rilancio. Rappresenta il punto attraverso cui l'essere fugge verso sotto, parte perduta, da sempre sul punto di perdersi; che si perde sempre più come il cavo, tirato giù dall'ancora, scorre sotto l'acqua. Smetterà di scorrere e sparirà il giorno in cui la Parca lo taglierà. Il regolo, a mo' di gancio, mantiene in sospeso e viva la domanda che fa di me un'analista. In che consiste il privilegio smisurato di questo sogno? Va detto che colpisce il suo aspetto animale: è una storia di bestie alle quali vengono oltretutto affibiati dei diminuitivi («et»-«ette»; roitelet=regolo; belette=donnola) che ne accentuano la leziosaggine. Che cosa assegna al sogno un posto centrale? Avrei potuto, per altre vie, arrivare alle stesse scoperte. Innanzitutto, perché l'ho raccontato all'analis_ta?Non si raccontano tutti i sogni all'analista. L'unica cosa di cui mi ricordo è che mi era sembrato che il sogno non volesse dire nulla. Oggi mi sembra evidente da una parte che il tema della castrazione vi era contenuto in modo manifesto, dall'altra che, siccome mi ero servita della forma vezzosa della fiaba, certo dovevo dire qualcosa di sgradevole. Tipo: «Lei non ci capisce niente. Si prende per uno psicoanalista, ma non vale più dell"aggeggio di piume' di Zizi Jeanmaire». Ma l'analista aveva parlato. Non per dire che aveva capito tutto, ma per chiedere: «Come chi?» Di fronte alla castrazione non era fuggito, non aveva fatto un gesto d'impotenza ma neanche di potenza. Non si era fatto sviare dalle mie leziosaggini. Con la sua domanda aveva stabilito un collegamento che mi aveva ingaggiato nell'analisi. È questo che ha conferito al sogno il suo valore esemplare, strategico. E oggi, che occupo per alcuni il posto dell'analista, proprio non posso dimenticarlo. Tratto da L'ombilic du reve. D'une pratique de la psychanalyse. Paris, Seui!, 1987. Traduzione di Marisa Fiumanò Il momentodelladettatura I ntroducendo la seconda edizione (1908) dell'Interpretazione dei sogni, Freud tiene a rilevare di non avere avuto bisogno di mutare quasi nulla rispetto all'edizione precedente. Lo ripeterà in altre prefazioni alle edizioni successive, aggiungendo, in occasione della traduzione americana e inglese (1931), che il libro «contiene, anche secondo il mio giudizio di oggi, la più valida di tutte le scoperte che io abbia mai avuto la fortuna di fare. Intuizioni come questa capitano, se capitano, una volta sola nella vita». (Freud, Opere, voi. III, p. 9). Non può neanche «cancellare le tracce» del fatto che questo straordinario momento della sua vita costituisce la reazione alla morte del padre, «dunque all'avvenimento più importante, alla perdita più straziante nella vita di un uomo» (ibidem, p. 5). Un lutto fecondante e fecondo, dunque, che dà vita ad un testo poco rimaneggiabile e che «perlomeno soggettivamente [... ] ha superato la prova del tempo». Qui, a differenza di altri lavori in cui ha ripetutamente «oscillato tra interpretazioni differenti», ha sempre trovato la sua «sicurezza». Ancora un'altra singolarità fa l'unicità di questo testo: la sua «intraducibilità» in altre lingue dovuta al metodo di interpretazione degli elementi onirici che verte di frequente su assonanze o somiglianze di parole. A riprova di quest'affermazione Freud cita uno straordinario precedente storico narrato da Artemidoro di Daldi (II sec. d.C.). Non si tratta proMarisa Fiumanò priamente di un sogno, ma di qualcosa che, più avanti nel testo, Freud definirà di struttura omologa ad esso. Si tratta di un sintomo, più propriamente di un'allucinazione: «[... ] Il più bell'esempio di interpretazione che ci sia stato tramandato dall'antichità si basa su un gioco di parole. Artemidoro racconta, Spiegazione dei sogni, Ib. 4, cap. 24: 'Mi pare però che anche Aristandro abbia dato una felice interpretazione ad Alessandro di Macedonia, quando questi cingeva d'assedio Tiro (Turos). Irritato o rattristato dalla grande perdita di tempo, Alessandro ebbe la sensazione di veder ballare un satiro (Saturos) sul suo scudo; Aristandro si trovava per caso nelle vicinanze di Tiro e al seguito del re che combatteva contro i Siri. Scomponendo la parola saturos in sà turos, egli fece in modo che il re stringesse d'assedio la città con più forza e se ne impadronisse' (sàTuros = tua [è] Tiro). Del resto il sogno è così intimamente legato all'espressione linguistica che S. Ferenczi [... ] può a buon diritto affermare che ogni lingua ha un proprio linguaggio onirico. In genere un sogno non è traducibile in altre lingue e ne·mmeno, direi, un libro come questo». (Aggiunto nel 1930, Ibidem, cap. Il, pp. 101-102 nota). L'interpretazione dell'allucinazione è ottenuta attraverso la fonetizzazione di un'immagine. L'intuizione di Aristandro è davvero straordinaria, ma il suo intervento non consiste tanto in un gioco di parole, come lo definisce Freud, quanto in una scomposizione in elementi significanti. L'immagine del satiro, fonetizzata e suddivisa, rivela il suo carattere di voto, di augurio: «Possa Tiro essere tua»; di desiderio direbbe Freud. Il sogno è appagamento di un desiderio: qui la Traumdeutung ha il suo asse, in quest'assunto sta la felice «intuizione» di Freud. Aristandro rinvia ad Alessandro, con l'interpretazione, il suo desiderio; con essa la necessità di perseguirlo. La rivelazione di questo «voto» restituisce al carattere condensato dell'immagine del satiro la pienezza e la radicalità del suo messaggio. L'operazione non è dissimile da quella indicata da Edmond Jabès in una recente e puntuale intervista condotta da Folin, come il

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