Alfabeta - anno IX - n. 102 - novembre 1987

pagina Il l'individuo e del gruppo. Lo sviluppo della scrittura ha ulteriormente potenziato questa funzione, assegnando al testo scritto lo statuto di «archivio della memoria collettiva» (vedi lo scritto di Ricoeur) della specie. Questa distinzione fra due stadi di sviluppo del linguaggio consentirebbe quindi non solo di accettare l'idea di un linguaggio animale (zoosemiosi), ma anche, a maggior ragione, di non trovare nulla di inquietante nelle applicazioni dell'intelligenza artificiale. Ecco perché Sebeok parla con grande naturalezza della prospettiva del cyborg, di una forma di vita in cui informazione elettronica, informazione genetica e linguaggio umano convivano in stretta simbiosi pur senza «confondersi». Ma è una visione che si basa su un presupposto, e precisamente sulla convinzione della superiorità gerarchica del discorso come comunicazione intersoggettiva. Un presupposto che, per quanto riguarda il rapporto fra oralità e scrittura, rinvia alla concezione pre-moderna della scrittura come pura «notazione», supporto materiale del discorso (ne parla Barbieri nella prima parte del suo articolo, sul quale torneremo poco più avanti). Questa idea, come mette in luce Ferraris introducendo il testo di Ricoeur, ritorna nella svalutazione romantica della natura «oggettuale» del testo e della scrittura di fronte alla soggettività, alla «vita», della parola, e permane come residuo vitalistico nell'ermeneutica heideggeriana e gadameriana. È proprio Ricoeur a restituire al testo scritto autonomia, la sua autonoma capacità di produrre senso e, attraverso di essa, la sua natura inquietante. Certo, il discorso viene «prima», ammette Ricoeur, ma il rapporto che si instaura nell'esperienza della scrittura-lettura non è dialogico! La scrittura può funzionare come metafora forte di un ordine razionale del mondo, leggere il libro della natura (Vegetti), evocare i mondi possibili dell'immaginario umano (Sebeok), finché è ricondotta alla funzione referenziale-analitica del discorso, finché simula cioè l'esistenza di un dialogo fra soggetti sugli oggetti del mondo. Ma il testo scritto oscura la funzione referenziale del discorso, ne neutralizza le capacità «ostensive». La dimensione storico-ermeneutica restituisce al testo la sua opacità, la distanza temporale (il rapporto col libro diventa completo solo dopo la morte dello scrittore, dice Ricoeur!), toglie la finzione di un gioco di domandarisposta fra scrittore e lettore. Solo l'interpretazione è in grado di risvegliare il senso, di far parlare nuovamente il testo. Ma «chi» parla? Parla una «cosa». Torniamo all'inquietante della scrittura: la natura non si lascia più leggere, alfa bis. I parla in proprio; o meglio: non si lascia più leggere la seconda natura, quell'oggetto artificiale che è il libro. E quando la parola passa alla macchina, che cosa cambia? E eco nuovamente il quesito da cui siamo partiti. Nulla, o forse solo il fatto che col computer posso scrivere in silenzio, senza suscitare l'ira dei vicini di casa, risponde Calabrese elencando spiritosamente le piccole manie e i futili entusiasmi dei neofiti del persona! computer. Ma, fuor di battuta, è proprio vero? Le risposte di Daniele Barbieri e di Ezio Manzini mi pare che si muovano, con diversa penetrazione, nella stessa direzione: cambia l'economia temporale della scrittura. Barbieri ricorda opportunamente che i modi tradizionali della scrittura comportano lavoro, fatica, investimento «economico», mentre la scrittura elettronica, consentendo operazioni di assemblaggio modulare di informazioni memorizzate dal computer, rende infinitamente più agevole la produzione di scrittura. Ne derivano le ormai note perplessità sul rischio di un impoverimento di questa attività, di una «dequalificazione» della scrittura. La riflessione di Manzini, muove dagli effetti del trasferimento dell'informazione sui nuovi supporti elettronici. Il testo registrato in memoria non «si vede» più, si inscrive in uno spazio microfisico che (come l'informazione del codice genetico) ci appare puramente virtuale, del tutto smaterializzato, una specie di iperspazio dal quale - e questo è ciò che più importa - l'informazione può essere richiamata in tempo reale. Quando lavoriamo a un testo con i metodi tradizionali, dice Manzini, ci spostiamo in uno spazio fisico, cerchiamo i libri che vogliamo rileggere o citare nella nostra biblioteca, li scorriamo, li teniamo aperti sul tavolo, traffichiamo, correggiamo, torniamo a cercare, ecc. Con le nuove tecnologie niente di tutto questo: il tempo si contrae, la nostra ricerca si svolge in tempo reale, nello spazio virtuale della memoria elettronica. Ma Manzini non si limita a sottolineare, come Barbieri, la nuova economia del tempo di scrittura. Egli mette in luce come, nel nuovo modo di lavorare, si perda il carattere lineare della scrittura (che, rammentiamo, è quello che più consente di interpretarla come mera notazione, supporto materiale di un dialogo-discorso). Ma soprattutto, egli mette in luce come il testo elettronico generi così un effetto di «profondità» della scrittura: la parola non è parte di una sequenza unidirezionale, è divenuta un nodo di inte- • Alfabeta 102 razioni, è inserita in una rete di differenti percorsi testuali, via di accesso a una pluralità di mondi possibili generati dal potenziale interattivo reso disponibile dalla macchina. Questa idea di una «profondità» del testo elettronico ritorna, amplificata, nella conversazione di Umberto Eco, dove viene addirittura evocata la metafora di un «inconscio» del computer. Offrendo la possibilità di disporre istantaneamente di un pluriverso di significati, la scrittura elettronica ci rinvia quindi all'interrogativo sollevato dal lavoro di interpretazione di un testo che parla da una distanza temporale: chi parla? «Siede immobile, a gambe incrociate, il calamo in mano [... ] lo scriba attende. Che cosa? Il momento della dettatura. Nella rappresentazione non c'è alcuna traccia di intersoggettività [... ] Lo scriba è solo. È solo davanti a una scienza lontana [... ] Il sogno è un dettato: una scrittura che viene da altrove». È la bella immagine di Moustapha Safouan che Marisa Fiumanò ha scelto per «illustrare» il suo articolo sulla scrittura del sogno. Il testo onirico ripropone, radicalizzandoli, i problemi sollevati dalla riflessione ermeneutica di Ricoeur. L'opacità del testo, la sua natura irriducibilmente «casale», la neutralizzazione di ogni illusione di intersoggettività dialogica, nel pensiero ermeneutico si riferiscono alla distanza temporale, all'assenza di un autore morto. La psicoanalisi deve invece fare i conti non con la distanza ma con l'assenza di ogni prospettiva temporale nell.Jproduzione inconscia. È per questo che, come afferma Frne manò, l'interpretazione del sogno non può limitarsi - come quella ermeneutica - a risvegliare il senso, ma deve produrlo là dove il senso è assente per un'individualità conscia la cui essenza è esclusivamente temporale. Scimmie, codice genetico, libri, memorie elettroniche, immagini oniriche: le «cose>>parlano, e il loro «discorso» si inscrive nell'orizzonte di una atemporalità che costringe il linguaggio umano, che è fatto di tempo, al silenzio. Può darsi, come dice Calabrese, che la scrittura elettronica non cambi poi molto nell'esperienza del soggetto che scrive; ma nel secolo della psicoanalisi, dell'intelligenza artificiale, dell'informazione genetica, della nuova ermeneutica, l'immaginario evocato dalla produzione elettronica dei testi non può che incrementare il dubbio inquietante sul soggetto della scrittura. La metafora della razionalità classica, che permetteva di elevare la scrittura a modello di un ordine del mondo che· abbraccia soggetto e oggetto, non funziona più. ~ Glis eil • pa~e Le obiezioni a von Glasersfeld Le tappe principali dello sviluppo di sistemi artificiali di comunicazione tra uomo e scimpanzé sono rappresentate negli ultimi vent'anni dagli esperimenti di Allen e Beatrice Gardner, in cui venne utilizzato il linguaggio gestuale dei sordomuti americani, da quelli di David e Anna Premack, con pezzi di plastica colorata simbolizzanti parole, e da quelli del centro di primatologia di Atlanta del quale ha fatto parte Ernst von Glasersfeld, ideatore con Piero Pisani della simbologia utilizzata da Lana e qui descritta in breve. La possibilità di addestrare uno scimpanzé nell'uso del linguaggio dei sordomuti era stata prevista fin dal 1747 da J. O. de La Mettrie, il quale sosteneva che le strutture cerebrali di questi animali potevano essere sufficienti a renderli capaci di comunicare con l'uomo, mentre insufficienti erano le loro strutture fonatorie. Vano appariva quindi già a La Mettrie ogni tentativo del genere di quello effettuato intorno al 1950 dai coniugi Hayes con lo scimpanzé Viki, per fargli emettere suoni corrispondenti a qualcosa di più di tre o quattro delle nostre parole. Alle obiezioni citate da Glasersfeld si possono aggiungere aggio Ernst von Glasersfeld quelle apparse dopo la pubblicazione del suo articolo su «La Recherche». Per esempio, H. Hediger pensa che dal fallimento del tentativo degli Hayes discenda la conclusione, opposta alla tesi di La Mettrie, che lo scimpanzé non è privo degli organi fonatori necessari per parlare, ma piuttosto delle aree linguistiche della corteccia cerebrale (aree di Braca e di Wernkke). Come con la ghiandola pineale di Cartesio, si dà per certo a priori che tali aree siano presenti solo nell'uomo, e che ciò lo differenzi nettamente dagli animali anche dal punto di vista dell'anatomia cerebrale. Se poi gli animali mostrano, come Lana, capacità degne dell'attribuzione di caratteristiche umane al loro cervello, Hediger preferisce ricorrere all'argomento già usato da T.A. Sebeok, riferendosi ai famigerati cavalli «parlanti» degli inizi del Novecento: anche Lana può essere stata influenzata a loro insaputa dal comportamento degli sperimentatori, visibili attraverso le pareti di vetro della stanzetta in cui essa era confinata assieme alla macchina e contattabili durante la fase di istruzione nell'uso della relativa tastiera o durante le fasi di manutenzione dell'insieme. In conclusione, il sogno del Lana Project viene paragonato a quello della comunicazione verbale con i delfini e dichiarato irrealizzabile nonostante tutte le affermazioni dei suoi promotori. Poiché a queste critiche non sarebbe difficile replicare con esperimenti ancor più sofisticati, e poiché di fatto negli ultimi tempi la produzione in questo campo appare rallentata o nulla, è lecito chiedersi se vi sono altri motivi (non strettamente scientifici) che hanno ostacolato la continuazione dei tentativi di evidenziare una capacità linguistica negli scimpanzé. Vittorio Somenzi Bibliografia A.J. Premack, Perché gli scimpanzé possono leggere, Roma, Armando, 1978. T.A. Sebeok and J. Umiker-Sebeok, Speaking of Apes (A Criticai Anthology of Two-Way Communication with Man), New York and London, Plenum Press, 1980 (contiene l'articolo di H. Hediger, Do You Speak Yerkish? The Newest Colloquiai Language with Chimpanzees). N el mito non è raro che gli animali parlino con gli uomini. Nella realtà, invece, quando certi ricercatori affermano d'essere in grado di parlare con degli scimpanzé, suscitano reazioni d'incredulità più o meno violente. Questa resistenza nei confronti d'esperienze che hanno ormai più d'un decennio di vita, si spiega senza dubbio con il desiderio di conservare all'uomo il suo carattere d'«unicità»: in fondo, -con il progresso della ricerca scientifica, l'uomo ha visto ridursi sempre di più la pseudo esclusività delle sue caratteristiche. Da Darwin in poi, ha dovuto rassegnarsi ad ammettere di condividere con un certo numero di altri animali delle attitudini di cui si considerava l'unico detentore. Il linguaggio, più o meno, è il solo argomento di cui possiamo servirci per affermare la nostra unicità tra le specie animali: si comprende benissimo come l'idea di condividere anche le nostre attitudini linguistiche con gfì scimpanzé non susc1t1 presso tutti un entusiasmo delirante. Il mio proposito, comunque, non è quello di discutere il problema, ma quello di presentare gli studi fondamentali che hanno mostrato come l'uomo e lo scimpanzé possano comunque comunicare tra loro. [... ] Il duplice obiettivo che la nostra équipe del Centro di Ricerca sui Primati di Yerkes (Atlanta, Georgia) s'era prefisso era quello di 1. utilizzare un linguaggio artificiale dotato d'una sintassi piuttosto rigida (lo «Yerkish») e 2. utilizzare un computer per registrare tutti gli scambi linguistici 1 • Lo studio è stato condotto grazie a un lavoro di gruppo: Duane Rumbaugh e Timothy Gill si sono occupati della parte comportamentale (metodi di trattamento e di verifica riguardanti Lana, il nostro scimpanzé-cavia); io .e Piero Pisani abbiamo provveduto a mettere a punto la lingua artificiale, la sua grammatica e il sistema informatico. L'elemento base del sistema di comunicazione prescelto consiste in una tastiera simile, nel funzionamento, a quella d'una macchina da scrivere. Ogni tasto rappresenta una parola, raffigurata da un disegno geometrico (lessigramma). Ogni lessigramma corrisponde a un concetto: essi non hanno, come le parole in inglese, più d;un significato. Premendo successivamente più tasti si compongono delle frasi. Al di sopra della tastiera, una serie di visori fanno appa-

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