Tadini Tadini tenta il colpo di dadi: scrive una storia d'Italia (cominciò giovane con Pisacane, mettendo i verbi al futuro). Ora (con La lunga notte, Milano, Rizzoli, 1987) dà tutto il fascismo ultimo come una periferia grottesca ironica a scene madri dolorose, e la Resistenza che lo butta via - con la sua propria modernità poi perduta. C'è all'esordio del Poema del Comandante un vecchio cinema e c'è un reporter che per una storia di tesoro entra nella lunga notte del '43: ricostruisce tutto un gerarca attraverso gli sproloqui di una vacca o sibilla affezionata al maledetto bidone vecchio italiano. C'è manierismo con elementi espressionisti. Ma il segreto di Tadini, che io stimo con Malerba e Balestrini e Spinella l'autore grosso che nel 1987 è salito sulle onde di un viaggio (libri lunghi e politici da storie letterarie), è che lui spacca la sintassi. Nella sua grande narrazione tra Vittorini e Nievo, incredibilmente oggi si cammina sulla gamba terribile di legno o «protesi» antica della letteratura ... Oramai, da pirati. Ecco alcuni piccoli passi tadineschi, sfogliando: «Nel momento, eravamo capitati - pura scarogna - dell'accelerazione». «Che occhiate, noi, da sotto! Da quadrumani! Volubili ... ». «Lavoravano, le donne. Bastava che alzassero una mano. Con quel gesto soltanto, bloccavano tutti i motori. Cedeva, al loro fluido, la meccanica.» «No_nero io, per caso, a Milano, in quell'inverno - con soprascarpe di gomma e geloni alle dita?» «Neve sporca, cadeva. E quelle strisce di grasso nerastro che colavano sulle facciate, dai tubi delle stufe ... ». «Restava, come una cerimonia, il mestiere.» Sono anche accensioni neovociane di frammenti, strappi, vocaboli, interiezioni. Una volta Dorfles scrisse che la modernità produce un «divorzio» fra l'opera d'arte e il pubblico. Tadini ha da tanto divorziato. Il Pubblico cosiddetto - per esempio al Premio Campiello - scheda per lui ma alla fine elegge non lui (né Troisi) ma piuttosto degli sceneggiatori pittoreschi nel Palazzo Ducale ... Tadini scrittore-pittore di grido e di fondo si è forse dimenticato il divorzio? No, sempre il grande pubblico è presente idealmente a chi scrive e dipinge: ma non è quello delle classifiche, è quello della nostra civiltà. Tadini ha scritto una storia di ricerca come in cuor suo sperava; e su un passato politico, di cui è stato testimone, non fa romanzo storico, che è formula passatista ... È forse possibile che poco oltre la sua piccola frase strana e continua (col microlinguismo moderno che nel narrare vie- . ne da Céline) sia goduta dalla civiltà residua? Sì, se essa ci sarà, fuori dal Palazzo. Francesco Leonetti Cfr evide11ziatore Poeti dialettali Dopo le attenzioni di questi ultimi anni alla poesia in dialetto, e l'uscita di una rivista ben centrata come «Diverse lingue» (Campanotto Editore, Udine, direttore Amedeo Giacomini) ci si poteva aspettare un titolo diverso da quello scelto da Franco Brevini, Poeti dialettali del Novecento (Torino, Einaudi, 1987). Per esempio: Poeti italiani in altra lingua, tanto per fare un esempio. Ma il curatore dell'antologia difende bene la sua scelta nell'intelligente introduzione : si tratta, in sostanza, di riproporre la «naivetiit come alternativa allo sperimentalismo». Franco Brevini è ben conscio che si tratta di una naivetiit molto consapevole dei propri mezzi, e proprio per questo può essere considerata progettuale; programma di «resistenza alla modernità» più efficace qel «sarcasmo sperimentale delle avanguardie», secondo il curatore. Proprio perché il lavoro di Franco Brevini è a livello alto, conviene cominciare da qui una discussione che si presume proficua e annotare che: 1. risulta ancora poco chiarita l'affermazione che il poeta dialettale «insegue la rappresentazione del mondo più prossima alla sua esperienza». Varrebbe la pena di aggiungere a quel «mondo» l'aggettivo linguistico, ancorché possa apparire ovvio. Serve infatti per dissipare l'equivoco di un'aspirazione naturalistica, anziché realistica, dei dialettali. Il dialetto (o la lingua minore, come il friulano, per esempio) è uno strumento per far musica, in quello e in nessun altro modo, e quella musica mima e interpreta la realtà che il poeta ha attraversato soprattutto nell'infanzia. 2. Quando la questione del dialetto come scelta musicale non viene messa abbastanza in evidenza, anzi viene in qualche caso rimossa, in nome dell'ideologia antimodernista, succede che si può scambiare la lingua poetica di Franco Lai per un «milanese» composito e impuro, mentre si tratta di una trascrizione in musica linguistica del miscuglio di lingue e dialetti che la metropoli lombarda esibisce tutti i giorni. 3. L'opposizione troppo rigida tra naivetiit e avanguardie costringe Brevini a parlare di «cadenze ottocentesche e crepuscolari» per Delio Tessa, opposte alla «primavera noeva» fascista. In tutta evidenza le forme di Tessa sono quanto di più sperimentale e moderno abbia dato la poesia in Italia in questo secolo. Nel caso di un poemetto come De là del mur Delio Tessa è in anticipo su tutti, come aveva acutamente rilevato Pasolini nel suo ancor oggi fondamentale studio La poesia dialettale del Novecento (Guanda, 1952 e ristampato in Ideologia e Linguaggio, Torino, Einaudi, 1985). Lo stesso può dirsi per la musica di Raffaello Baldini, che può servire da modello a una poesia nuova in lingua. 4. Non è cosa certa, anzi contestabilissima, che esista un «italiano standard» bloccato e morto, per disprezzo chiamato «itagliese» da certi dialettali. L'italiano non è stato bloccato dalla Tv come non lo sono stati i dialetti. I giochi sembravano fatti a Pasolini, ma risulta chiaro, adesso, che si era sbagliato e di molto, confondendo, soprattutto, lingua e funzioni linguistiche. Si dice che lo abbia fatto a bella posta per ragioni polemiche. Se è vero si può constatare che quella polemica oggi non può essere impostata in questi termini. È vero invece, come rileva Brevini, che se c'è un pericolo di arcadia e· di blocco linguistico in poesia (con il cosiddetto «poetese», per esempio) questo pericolo è corso allo stesso titolo dai poeti in lingua come da quelli in dialetto. 5. Per quel che riguarda le scelte di Franco Brevini, esclusioni e inclusioni ovviamente intrecciate tra di loro (è difficile giustificare certe inclusioni quando il prezzo è pagato da certe altre discutibilissime esclusioni) il discorso verrà ripreso un'altra volta. Antonio Porta Michelstaedter Un convegno a Gorizia, la «sua» città, ai primi di ottobre; l'editore Adelphi che pubblica le Poesie (un documento più che un contributo alla poesia contemporanea) dopo aver pubblicato l'Epistolario (primo volume delle Opere) e La persuasione e la rettorica (che è poi l'unica «opera» di Michelstaedter); altre iniziative editoriali e di studio (come il volumetto utile di Francesco Muzzioli sulla «fortuna» di questo singolarissimo pensatore, ora uscito da Milella). Il caso Michelstaedter, suicida a 23 anni alle soglie della laurea (che doveva discutere con il classicista Vitelli nella Firenze modernista dei «vociani»: siamo nel 1910), torna in grande evidenza, e non è certo una gonfiatura. Se Michelstaedter ha già trovato uno spazio nella storia della cultura e della letteratura (anche con discreti echi internazionali), fa però fatica a trovare un posto nelle storie della filosofia. Ed è curioso perché si tratta essenzialmente di un filosofo: ma controcorrente e anticipatore. Al convegno di Gorizia, Alberto Asor Rosa ha detto che in lui c'è un'unica «idea pesante»: per Michelstaedter la «persuasione» contrapposta al «cigolìo» rettorico dei discorsi, dei saperi, delle transazioni culturali, è un difficile, paradossale e anche tr~gico «possesso di sé». I presocratici, il Platone del Gorgia e del Fedro, Schopenhauer, Leopardi, Nietzsche, alimentano variamente questa «idea», ma il «pessimismo» di Michelstaedter si proietta piuttosto in un orizzonte filosofico che appartiene al nostro presente e i cui fili passano per una rilettura di Nietzsche e di Heidegger e anche per una rielaborazione dei temi fenomenologico-esistenziali. Il «possesso di sé» - ,come lo pensa Michelstaedter - esige un sentire intenso: richiede che il soggetto faccia «deserto» intorno a sé, che percorra fino in fondo l'«abisso della propria insufficienza» per giungere al paradosso di uno «stare» che è al tempo stesso un esporsi alla «furia del mare». Ma quello che mi colpisce di più in Michelstaedter è la sua consapevolezza che il linguaggio della filosofia deve allora esplodere al proprio interno, nutrirsi di metafore, di apporti narrativi é di scarti continui di stile. La «parola del persuaso» deve insomma tentare di rappresentare paradossalmente ciò che non è rappresentabile. Come se cercassimo di vedere l'ombra del nostro profilo sulla parete. Pier Aldo Rovatti Europa Il progetto politico di un'Europa unita sembra non andar oltre l'idea di Stato plurinazionale; agli ipotetici Stati Uniti d'Europa si attribuisce un ruolo storico analogo a quello svolto dagli Stati-Nazione alle origini del moderno: sostituire i particolarismi regionali con un nuovo ordine politico, delineare un'identità europea non più definita in relazione ai conflitti interni ma alle sfide esterne. Nel suo ultimo libro (Penser l'Europe, Paris, Gallimard, 1987) Edgar Morin propone un'idea di Europa del tutto diversa, che prende le mosse dalla sua ricerca nel campo del metodo delle scienze della complessità. L'occhio esercitato allo studio della physis tenta di mettere in luce un'evidenza che sembra essere sfuggita allo sguardo della filosofia politica: l'identità europea esiste già. È una verità che sfugge al pensiero abituato a ragionare in termini di Unità, Ordine, Sovranità, dell'armonia fra le parti di una totalità gerarchicamente strutturata. Infatti l'identità europea non esiste (né potrà mai esistere) in ragione di un principio fondatore; l'Europa non è espressione di una realtà geografico-politica; l'Europa di fatto, secondo Morin, esiste proprio perché non esiste un'Europa di diritto; esiste come un tourbillon storico auto-organizzatore che si alimenta di una lunga successione di opposizioni fra culture, religioni, classi sociali, etnie, ideologie. Il «concerto» bellicoso fra gli Stati-Nazione europei rappresenta la moderna espressione politica del fatto che l'Europa non si è mai definita in relazione a un comune nemico esterno, ma al gioco sempre rinnovato delle sue opposmoni interne. L'Europa non è mai stata (né sarà mai) Organizzazione trascendente delle sue componenti ma è stata e sarà sempre ecosistema. Morin propone il modello di un'Europa Provincia Meta-nazionale, di un'entità in cui possano convivere regionalismi, corporativismi, dialetti, particolarismi di ogni tipo con uno «stile» culturale unitario (e tendenzialmente universalizza bile). Uno stile di cui sono costitutivi conflitto e plurali- \ smo, un 'idea di democrazia che non si fonda su Certezze, Valori, Verità, ma su una regola del gioco che permette di mettere a confronto diverse verità. Questo modello consentirebbe all'Europa di trasformare in forza quella che è la sua apparente debolezza: è proprio la «periferizzazione» della potenza politica europea rispetto ai grandi imperi d'Oriente, e di Occidente che può creare le condizioni per elaborare una «arte di vivere» europea che non può essere che arte di convivere nella differenza. Carlo Formenti Habermas L'ultimo libro di Habermas tradotto in italiano, Il discorso filosofico della modernità (uscito in luglio da Laterza) compone una sorta di distico antitetico con un altro suo libro per altri versi così affine, Conoscenza e interesse (1968). Lì Habermas ricostruiva un frammento importante del discorso filosofico del moderno, la transizione dalla teoria classica della conoscenza alla teoria positivistica della scienza, dove questa si caratterizzava rispetto a quella per la sistematica esclusione della soggettività in campo gnoseologico, e per la feticistica e unilaterale idolatria del concetto di scienza. La via per il superamento della Logie of Science positivistica era indicata da Habermas proprio nella riabilitazione del ruolo della soggettività nella conoscenza - che si annuncia, sebbene con autocomprensioni ancora positivistiche, in Peirce, Nietzsche e Freud. Conoscenza e interesse si inseriva quindi programmaticamente nell'orizzonte delle filosofie radicali, che superano l'autoinganno del positivismo e della sua scientificità attraverso un recupero del soggetto che è però al tempo stesso una critica della soggettività, delle sue pretese di porsi come spettatrice disinteressata e astrattamente teoretica (che era l'equivoco della teoria classica della conoscenza in cui già incubava l'esclusione della soggettività nel positivismo). L'obsolescenza della critica della ragione soggettocentrica è invece il filo conduttore del Discorso filosofico della modernità. Seguendo le indicazioni della filosofia analitica del linguaggio, Habermas coglie bene l'invecchiamento della «scuola del sospetto», l'aura di decrepitezza che aleggia intorno agli svelamenti degli autoinganni costitutivi della soggettività, della razionalità metafisica, della tradizione. Da questo punto di vista, la posizione di Heidegger e Derrida risulterebbe contraddittoria, in quanto l'oltrepassamento della tradizione, della ragione soggettocentrica ecc., viene da loro condotto in termini archeologici, di risalimento i;iipresupposti metafisici che orientano il nostro soggetto e la nostra idea di razionalità: il pathos dell'oltrepassamento e dell'auto-oltrepassamento reintrodurrebbe un radicalismo oramai
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