Alfabeta - anno IX - n. 102 - novembre 1987

A più voci Le classifiche Irrazionale ieri e oggi Antigone e Lacan Lettera a Carraro Teatro e danza ·.t1 ' Pacchetti di Alfabeta Simmel e Kant Hegel di Bodei Nazionalismo nell'Est Transmutazione Prove d'artista Luca Patella Lygia Fagundes Telles Brodskij alfabis.1 Saggi Il forte sentire di Carlo Michelstaedter (Mario Pernio la) loscimpanzé loscribae il computer ,, Nuova serie Novembre 1987 Numero 102 / Anno 9 Lire 6.000 Edizioni Caposile s.r.l. Via Caposile, 2 • 20137 Milano Spedizione in abbonamento postale gruppo 111/70• Printed in ltaly Cfr Evidenziatore Altri libri Spettacoli Mostre Convegni

pagina 2 Le immagini di questo numero Idise • di.JeanCocteau D isegnare significa rappresentare non definitivamente la realtà proprio perché il disegno ha la capacità di fermare, provvisoriamente una scena, un soggetto, lasciando aperto ogni altro itinerario descrittivo e interpretativo. I segni che definiscono uno spazio sono già una forma prima che chiunque possa definirla; all'interno di un tratto di matita che delimita pieni e vuoti, che include e esclude, appare già l'autore nel suo significato più alto, cioè nell'atteggiamento di colui che sceglie, della sua poetica, della sua visione del mondo. Il disegno rivela molto più chiaramente gli intenti costruttivi e simbolici de~'artista, prima di qualsiasi altro prodotto finito, già destinato a una collocazione gerarchica delle arti, e del sistema museale. La realtà sembra, nel disegno, non ancora completamente tradotta in una forma definita, per cui qua e là deborda, esce dal supporto fisico del foglio per diventare, nuovamente materiale rappresentabile, pronto per altre interpretazioni. Il disegno, proprio per questa sua natura apparentemente non finita, sembra essere un modo di rappresentare la realtà più facile di qualsiasi altra attività descrittiva, di tipo visivo; è vero, c'è la fotografia, ma il disegno mantiene una qualità artistica più vicina alla tradizione accademica delle arti come mestiere, come manualità e pura abilità non meccanica. I poeti hanno quasi sempre disegnato, spesse volte hanno accompagnato la loro testimonianza verbale con appunti e squarci visivi, indipendentemente da ogni ricerca di complementarietà tra parola e immagine. Forse il desiderio di attraversare altri linguaggi nasce dal fatto che lo sguardo discreto dei codici visivi sembra lasciare maggiore autonomia al lettore, da qui la necessità di parlare visivamente. Jean Cocteau ha parlato attraverso tutti i linguaggi della comunicazione, visiva e verbale; la poesia, la narrativa, il teatro, la scenografia, il cinema, la danza, la pittura, il disegno; il disegno, per Cocteau, era il momento in cui ironia, curiosità, e una certa vena antropologica, coglieva i momenti più segreti o, per lo meno meno apparenti di una situazione complessa, ma anche di un tratto del viso di una persona vicina, ma non ancora completamente conosciuta. I disegni di Cocteau, che «Alfabeta» presenta in questo numero, appartengono a una serie di immagini che hanno, come tema ricorrente, proprio l'ironia e Sommario Marinella Guatterini Teatro e danza pagina 9 la demistificazione di alcuni atteggiamenti, apparentemente convenzionali, ma ricchi e pieni di significati che svelano l'uomo, al di là dell'apparenza: la danza, il gioco, la convivialità, l'amore, ma anche la morte, l'artista e le sue manie piccolo-borghesi. Il libro, Jean Cocteau, Drawings, 129 drawings from dessins, uscito a New York nel 1971, a cura _...,"1,,,.-- ,;~ o ~t~;> i r---f 1/ di Edouard Dermit, non è molto conosciuto, forse perché non sempre i disegni di un poeta sono accolti come segni, altrettanto importanti dei suoi versi, senza, con questo, trasformare queste tavole in opere d'arte indipendenti dalla produzione letteraria. I disegni di Cocteau svelano, qua e là, l'ambiguità dei rapporti umani: La MorIosif Brodskij pagina 31 Antonio Porta te di un uomo illustre, dove l'atmosfera intorno alla salma raggiunge livelli di involontario umorismo, o L'espressionista, in cui un pianista completamente rovesciato all'indietro recita la sua parte, teatralizzando la cosiddetta ispirazione creativa; e, sempre nel panorama musicale, Musica da camera, un disegno nel quale la lettura del testo musicale si materializza in un gesto ambiguo, caratterizzato da una forte corporeità, poco conforme a una tradizione di trasporto mistico tra pianista e spartito. Anche una realtà apparentemente chiara e indubitabile può svelare inconfessabili segreti; gli ultimi quattro versi di una poesia di Cocteau, Le dimanche matin, sono emblematici: Je vous salue en vers, coureurs cyclistes/assis sur /es bancs de la banlieue,/Avec une grandelmain chaste au milieu/de vos jambes paysagistes.l(Jn versi vi saluto, ciclisti/in viaggio,lseduti sui bordi dei sobborghi./Con una grande mano bianca in mezzo/Alle gambe che scoprono paesaggi.I [trad. di A. Peronchi].) I disegni di Cocteau rendono visibile, anche se solo simbolicamente, le contraddizioni, a livello dei significati, della parola. Il ballo e la serie dei ritratti dedicati ai personaggi in Le mauvais lieu, forse un Cfr/Spettacoli pagine 18-19 Cfr/Mostre pagine 19-20 Omaggio a Iosif Brodskij pagina 31 Alfabeta 102 locale della malavita ma non solo della malavita, svelano le parole non dette, gli sguardi non confessabili, i desideri che non hanno il coraggio di diventare realtà. Il tratto di Cocteau è sicuro, anche se qualche volta si sofferma sull'accidentale, forse per q,escrivere il convenzionale attraverso l'inconsueto e gli interstizi visivi della rappresentazione: Raymond Radiguet, amico di Cocteau e autore, tra i 16 e 18 anni, del romanzo Le diable au corps, è descritto con un segno lieve, leggero, sentimentale, pur tra alcuni elementi forti che rivelano il rapporto sentimentale tra i due poeti francesi. Il ritratto di Radiguet di profilo che fuma una sigaretta ha intorno al viso, a mo' di aureola, la scritta Le ciel de mes mains vous protège. Ma il disegno che, sinteticamente, svela più di ogni altro come la matita di un poeta come Cocteau possa andare oltre il pensiero per cercare di cogliere la . contraddizione di riflessioni sedimentate, è quello di Humain, trop humain, dove il cavallo di Nietzsche si volta sdegnato verso il filosofo, forse per affermare, come scrive lo stesso Nietzsche, che «l'umanità è un pregiudizio, di cui per lo meno noi animali non soffriamo». Edizioni Caposile s.r.l. Aldo Colonetti I pacchetti di Alfabeta Giampiero Cavaglià I pacchetti di Alfabeta Laura Boella Le immagini di questo numero Mensile di_informazione culturale della cooperativa Alfabeta Redazione e amministrazione: via Caposile 2, 20137 Milano Telefono (02) 592684 Pubbliche relazioni: Monica Palla Direttore responsabile: A più voci Le classifiche. Vanno soppresse? pagina 3 David Avidan Cosa andava a cercare Kurt Waldheim dal papa polacco? pagina 4 Pier Aldo Rovatti La ragione e il pudore pagina 5 Marisa Fiumanò Compassione e timore pagine 5-6 Philippe Julien Un'etica del ben dire pagina 6 Teatro: memorie e utopie Eugenio Barba Franco Quadri pagina 7 Antonio Attisani Lettera aperta al ministro dello spettacolo pagine 8-9 Avviso ai lettori e ai collaboratori Col numero 101 «Alfabeta» intraprende una nuova serie. I suoi caratteri sono: un sostanziale cambiamento della impostazione grafica, una più precisa articolazione delle sezioni, la differenziazione della lunghezza degli articoli in funzione dei loro diversi caratteri (recensivo, informativo. critico, teorico, ecc.). La prima sezione, A più voci, ospita opinioni d'autore su argomenti di attività culturale e politica («Taccuini»), serie di interventi su problemi teorici di fondo («Temi»), registrazioni di dibattiti su temi e liIl nazionalismo nell'Est (Misère des petits Etats de l'Europe de l'Est e Valogatott tanulmànyòk, di I. Bibo; Un democratico senza democrazia, di A. Heller) pagine 11-12 Pietro Kobaii Hegel di Bodei (Sistema ed epoca in Hegel e Scomposizioni, di R. Bodei) pagine 12-13 Catherine Maubon Bataille, la morte all'opera (Georges Bataille. La mort à l'oeuvre, di M. Surya; La favola dell'occhio, di C. Pasi) pagina 13 Cfr Cfr/Altri libri pagina 15 evidenziatore pagine 16-17 bri, conversazioni e interviste («Intorno al tavolo»). Tutti i pezzi relativi a questa prima parte (meno le conversazioni) non devono superare le 3-4 cartelle da 2000 battute. La sezione denominata I pacchetti di Alfabeta raccoglie i consueti percorsi critici attraverso più libri, che non devono ora superare le 5 cartelle da 2000 battute. Nelle pagine centrali della rivista è inserito il Cfr, articolato in sezioni dedicate, rispettivamente, ai servizi dall'estero. ai convegni, alle mostre, alle riviste, alle rassegne, agli spettacoli; la sigla «Altri libri» seSimmel e Kant (Kant. Sedici lezioni berlinesi, di G. Simmel) pagina 21 Antonio Fabozzi e Gianni Mammoliti Transmutazione (La mosca, di D. Cronenberg; L'ultima fase, di G. Bear) pagina 23 Saggi Mario Perniola Il forte sentire di Carlo Michelstaedter pagine 24-25 Prove d'artista Prova d'artista grafica Luca Patella pagina 27 Lygia Fagundes Telles Signor Direttore ... pagine 28-30 gnala la produzione della piccola editoria di qualità (le recensioni brevi dedicate alla produzione della media e grande editoria non sono più inserite nel «Cfr», bensì nei «Pacchetti di Alfabeta»); questi materiali non devono superare le 2-3 cartelle da 2000 battute. Lo spazio per interventi lunghi è previsto nella sezione Saggi, che riguarda gli scritti teoricamente più impegnativi, e prevede anche la possibilità di anticipare capitoli di libri in via di pubblicazione e di proseguire il lavoro di documentazione dei materiali più interessanti dai I disegni di Jean Cocteau di Aldo Colonetti Alfa bis. 1 Lo scimpanzé, lo scriba e il computer Errata corrige Nel numero 101 per un malinteso non sono apparse le didascalie alle riproduzioni delle opere dell'artista Jiri Georg Dokoupil, ce ne scusiamo con l'autore. convegni, già avviato con la serie «Centri del dibattito». La sezione conclusiva del giornale ospita infine le tradizionali Prove d'artista, cui è dedicato più spazio, e prevede di pubblicare, oltre a poesie e racconti brevi, anche racconti lunghi, e di documentare il lavoro degli artisti. Le collaborazioni devono presentare i seguenti requisiti: a) gli articoli non devono superare i limiti di lunghezza indicati per le singole sezioni, in caso contrario sar~mo costretti a procedere a tagli;, b) gli articoli delle sezioni recensive . Direzione: Nanni Balestrini, Omar Calabrese, Maria Corti, ·Gino Di Maggio, Umberto Eco, Maurizio Ferraris, Carlo Formenti, Francesco Leonetti, Antonio Porta, Pier Aldo Rovatti, Gianni Sassi, Mario Spinella Paolo Volponi Redazione: Maurizio Ferraris, Carlo Formenti, Francesco Leonetti, Antonio Porta, Pier Aldo Rovatti Art director: Gianni Sassi Grafico: Ancilla Tagliaferri Antonella Baccarin Editing: Studio Asterisco Luisa Cortese devono essere corredati da precisi e dettagliati riferimenti ai libri e/o agli eventi recensiti; nel caso dei libri occorre indicare: autore, titolo, editore (con città e data), numero di pagine e prezzo; c) tutti gli articoli devono essere inviati in triplice copia ed è richiesta l'indicazione del domicilio del collaboratore. Tutti gli articoli inviati alla redazione vengono esaminati, ma la rivista si compone prevalentemente di collaborazioni su commissione. Occorre in fine tenei:e conto .che il criterio indispensabile del lavoro inLeo Paolazzi Composizione: GDB fotocomposizione, via Tagliamento 4 20139 Milano Telefono (02) 5392546 Stampa: Stem S.r.l. Via Feltre 30, Milano Distribuzione: Messaggerie Periodici Abbonamento annuo Lire 60.000 Estero Lire 80.000 (posta ordinaria) Lire 100.000 (posta aerea) Numeri arretrati Lire 10.000 Inviare l'importo a: Intrapresa Cooperativa di promozione culturale via Caposile 2, 20137 Milano Telefono (02) 592684 Conto Corrente Postale 15431208 Tutti i diritti di proprietà letteraria e artistica riservati tellettuale per «Alfabeta» è l' esp, sizione degli argomenti - e, negli scritti recensivi, dei temi dei libri - in termini utili e evidenti per il lettore giovane o di livello universitario iniziale, di preparazione culturale media e non specialista. 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I Alf abeta 102 Da quando ne sono stati contestati i metodi di rilevazione le 1. classifiche dei libri «più venduti» si sono moltiplicate. L'inattendibilità/a più notizia (cfr. «Novella 2000», da questo_ punto di vista il miglior settimanale italiano). 2. Titolo dominante (involontario) in testa a una classifica «autorevole»: Robot in delirio. Il titolo, propriamente riferito a un nuovo romanzo di Isaac Asimov, rischia di alludere alla categoria infelicissima dei «rilevatori». 3. Finalmente la Adhoc GPF & Associati (la sigla non è uno scherzo, è autentica) «rileva» la poesia. Risultato del 3 ottobre: 1. Alighieri, Inferno; 2. Alighieri, Paradiso; 3. Alighieri, Purgatorio (Ed. Signorelli); 4. Alighieri, Purgatorio (Ed. La Nuova Italia); 5. Alighieri, Paradiso (Ed. Signorelli). Per la narrativa italiana i risultati della stessa settimana sono i seguenti: 1. Alessandro Manzoni, I promessi sposi, 2. Svevo, La coscienza di Zeno; 3. Liala, Ungesto una parola un silenzio; 4. Manzoni, I promessi sposi (Ed. Zanichelli); 6. Manzoni, I promessi sposi (Ed. Palumbo). Che l'editoria scolastica dominasse il mercato in questa stagione lo si sapeva. Ora ce lo spiega anche la Adhoc GPF & Associati. 4. Cambiando campione di libreria (una rotazione tra 250 punti di vendita fatta dalla Demoskopea) la classifica si rivoluziona: lo mette in luce la «posizione» della settimana precedente: in 25 casi su 36 il libro entrato in classifica non era presente. Si conferma che in Italia, salvo la scolastica, si vende poco e a macchia di leopardo, salvo rarissime eccezioni: i best seller. Ora lo sa anche la Demoskopea. 5. Un notista letterario intelligente ha fatto rilevare che «ogni tanto anche Giorgio Bocca ha ragione». Nel caso specifico il Bocca nazionale ha scritto che le classifiche gli sembrano necrologie alla rovescia; annunci di morte per i libri che contano, naturalmente. Ma il pubblico fa i dispetti, anche in questo caso, ha scritto un altro notista, e compra regolarmente i libri cosiddetti «intelligenti», infischiandosene delle classifiche. Ma allora: per che pubblico servono le classifiche? 6. Le classifiche servono per gli scrittori molto ambiziosi che esigono dal Grande Editore di «entrare in classifica». C'è chi provvede alla bisogna, si dice. Il rappresentante di un Medio Editore di Prestigio ha dichiarato in pubblico che le classifiche, come i premi letterari, sono tutte truccate. 7., Se le cose stanno così, a chi giova la finzione sopra indicata? Forse alle tirature dei quotidiani a corto di idee che sono in caccia di una cosa qualsiasi, purché faccia più notizia? Che cosa fa più notizia di una finzione predisposta allo scopo di fare notizia? 8. Sembra che gli scrittori ci patiscano molto quando non «entrano» in classifica. .Per questo preferiscono la pietosa bugia .alla cruda v~rità: là pietosa bugia lenisce le. A più voci Taccuini classifiche. ansie. Ma c'è chi si domanda come mai? Come mai scrittori che si proclamano «alternativi» al sistema dei mass media bramano c,osìforte di.essere messi in luce non dal valore dell'opera ma da quello stesso sistema che dicono di aborrire? 9. Uno scrittore di buona volontà civile (e forse anche un po' deluso) ha constatato quello che tutti avevano notato da un pezzo: che diverse classifiche danno risultati diversi, fatti salvi alcuni casi di best seller incontnistati e lapalissiani (per i quali qualsiasi tipo pi classifica è inutile); di conseguenza ha'dichiarato alla stampa: «Occorre cancellare le classifiche dai giornali una ~/AM.,L., ~ --~ .D •· .... )~-- ~-~~ ! --,,. volta per tutte». La risposta del «suo» giornale è stata pronta: ha cominciato a pubblicare quelle classifiche che aveva sempre condannato in certi corsivi corrosivi, con i quali aveva innescato la polemica. Ma si sa che un giornale deve avere molte anime e alcune servono a vendere più copie di altre. 10. Le classifiche fanno vendere i giornali che le pubblicano più che i libri citati, Esiste un fervido tifo per le classifiche che .,va soddisfattQ, così. almenQ.la pensano al- .. cuni Direttori. Si teme che abbiano ragione. Esse rispondono allo spirito dell'epoca: quantità invece che qualità, dunque misurazioni e scommesse su chi ha di più, su chi è in testa ecc. Ma resiste per i «tifosi delle classifiche» un piccolo dubbio, quello dell'attendibilità. In una corsa di formula 1, per esempio, si sa chi arriva primo e secondo e terzo con assoluta certezza, nonostante il «pensiero debole» i computer funzionano. Nella «corsa» delle classifiche invece i risultati esposti sul tabellone sono diversi, cambiano i nomi dei vincitori e dei piazzati. Ci fosse un totalizzatore, come ai cavalli'non si saprebbe chi pagare. L'affermazione di un'esperta: «Le classifiche di libri pubblicate settimanalmente sono diverse perché usano metodi diversi», non è certo di quelle fatte per rassicurare. 11. Altra dichiarazione di un Superespertb: .«Allo slogan 'dimmi come vesti e ti ~, .... ,~ -~~ ""4,,C,C.1-4,C,~ ~ ........ ~ ~ - dirò chi sei' io ne preferisco :unaltro: 'dimmi che libro leggi e ti dirò chi sei'». Con questa affermazione si tagliano fuori tutti i lettori in cerca di identità, quelli che leggono per essere qualcuno capendo qualcosa. Lo stesso esperto sostiene che occorre includere nel campione di rilevamento anche le cartolibrerie. Il risultato (di cui al punto 2) è che l'editoria scolastica in certe stagioni prevale nettamente. Di sicuro gli studen- _tipoJ;sono.esser~ classificati _tracoloro. che pagina3 I ,, «sono in cerca di identità». 12. Il «culto della quantificazione», gabellato come antidealistico e antricrociano, porta alle distorsioni di cui al punto 10: si vuole attribuire una fisionomia anche a chi non può averla. I libri che i ragazzi comprano per la scuola sono per la maggior parte adottati e rispecchiano le esigenze dei programmi ministeriali. Ma non sembra che le classifiche abbiano come scopo l'identità del Ministero della Pubblica Istruzione (sempre fedele a se stesso sotto qualsiasi ministro dal dopoguerra a oggi). 13. Le classifiche sono una malattia ben . più grave dei premi letterari. I premi durano lo spazio di un mattino, come certi febbri innocue; le classifiche durano tutto l'anno, con la sola pausa dell'estate e bloccano la crescita di un pubblico più selettivo e inducono molti librai a infischiarsene del loro mestiere, tanto giudizi e scelte sono già confezionati. Qualcuno ha definito le classifiche «peste della libreria». 14. Le classifiche sono, in Italia e proprio a causa del loro moltiplicarsi, il più massiccio e mirato tentàtivo per far fuori la vecchia critica letteraria, che con tutti i suoi difetti e condizionamenti qualche indicazione di merito la dà ancora. Ma il marketing ha le sue leggi e soprattutto vuole avere sempre ragione, vuole cioè che le sue previsioni siano rispettate, dunque si preoccupa di condizionare il mercato affinché gli obbiettivi siano raggiunti. Onde evitare che qualche critico ingenuo e un po' fuori del gioco rompa le uova nel paniere, è meglio prevenire. Ecco il trucco «critico» delle classifiche: quantità invece che qualità. E si sa che la quantità è manipolabile, tanto è vero che i dati reali di vendita dei libri sono rigorosamente segreti. Se un libro viene lanciato sul mercato con 100.000 copie nessuno andrà mai a verificare dall'esterno se ne ha vendute 30.000 o 40.000 o meno. Il best seller annunciato deve restare tale. 15. Il lettore ancora non condizionato e in cerca di avventure (leggere è anche un'avventura) entra in libreria e comincia a sfogliare, a leggiucchiare, a conversare col libraio; ma capisce subito se il libraio è stato colpito dalla «peste delle classifiche», se l'infelice non è in grado di dar consigli e suggerimenti di percorso al di fuori delle strade ben preparate dal marketing e dalle classifiche. Controprova: il colpito dalla «peste» non tiene in nessun conto la residua critica letteraria. Lo scrittore di cui al punto 9 chiedendo l'abolizione immediata di tutte le classifiche voleva (e vuole) in realtà salvare il giudizio critico. 16. Se gran parte del pubblico, così dice qualcuno, non tiene conto delle classifiche per le proprie scelte, quale tipo di pubblico contribuisce alla loro compilazione? Zombi? Senza volto? Replicanti? In questo caso le classifiche sarebbero utili per indicare quello che non si deve leggere.

pagina4 A più voci Alfabeta 102 I Taccuini • Cosaandavaa cercare Kurt aldheim David A vidan Una domanda strana: cosa cercava Kurt Waldheim dal Papa polacco? Johanan Paulus, il primo e non l'ultimo, l'ha ricevuto nel suo Sacrario e cosa, in effetti, è accaduto là dentro? L'esausto Presidente austriaco cercava un sacerdote, semplicemente un sacerdote, ma certamente non un sacerdote semplice. Egli infatti cercava il Padre-dei-Padri, il Super-Sacerdote perché la sua sincera confessione potesse trovare assoluzione completa. E quello è ciò che ha fatto, Pana Papieza, esattamente quello che ha fatto. • Dall'alto della Sua Nobiltà austriaca, lui che detesta lo Slavismo, i contadini, salsicce al posto di pasticcini, si è inchinato al suolo di fronte a Sua Santità, il contadino polacco, ex-pugile, che conosce l'ebraico, in relazione con i Kurt, poi ha detto esattamente cos'era realmente accaduto, come tutte le piccole viti furono avvitate e strette e organizzate e incastrate. All'improvviso il condono fu infine concesso, come una pioggia radioattiva, Hiroshima e Nagasaki e il muro di Berlino e Hitler, che rimediò la sua educazione di base a Vienna, e il cui (probabile) capolavoro, Mein Kampf, gli studenti d'Israele stanno ora cercando con zelo in tutte le librerie, la versione ebraica arriverà quanto prima. La HIT-Ler ovviamente farà crollare il mercato editoriale, i neri baffi squadrati spaccheranno mille Scatole nere. «Una nazione che non combatte almeno ogni vent'anni è destinata alla degenerazione», lui disse da qualche altra parte, in Conversazioni segrete con il suo Quartier generale o in qualsiasi altra Fiirfantesca occasione. E la gioventù d'Israele esaminerà attentamente la suddetta risoluzione, principio assiòmatico demenziale. Hitler era un toro con ascendente Ariete e incornò incalzando l'armata rossa sino a Mosca. Odiava gli Ebrei perché avevano dato origine alla Cristianità ed essa aveva violato l'antica Armonia ellenica (virgolette). I Giapponesi (virgolette) avevano una forte coscienza razziale, perciò l'Ebraismo non poté penetrare la loro cultura - I Tedeschi l'avevano in grado minore, perciò l'Ebraismo penetrò nel loro cervello avendovi bioprogrammato, con la teoria della Relatività nazionale, sia l'olocausto che lo stato d'Israele, che sembra impegnarsi a fare una guerra ogni vent'anni. E se dimostreremo che i Giapponesi hanno sempre avuto una tendenza perversa a sfidare giganti (la Cina, Pearl Harbour) contraria a tutte le dottrine classiche sulle arti marziali, qualcosa di maniacale, da Kamikaze, cerca-guai - allora dove siamo noi dentro questa struttura globale, dove, per quel che serve, era la Germania e che cosa è, di fatto, l'Austria? E il Presidente sì il Presidente - cadde sulle ginocchia davanti al Papa polacco e gli disse: .«perdonami, padre, perché ho peccato, ho fatto il male, non sapevo quel che facevo». E Paulus-Nie-Pierwszy stava versando Vodka santa sul suo cranio pelato, testa d'uccello, uccello infausto forse, definitivamente spaventato a morte - tuttavia uccello da preda, senza dubbio - poi fece oscillare su di lui la Croce greca dell'Ellenismo armonioso che precedette di molto la Croce cristiana e di gran lunga più tarda della Swastika, quest'ultima trasferita dai Tedeschi, segno grafopolitico, dall'antico simbolo originario Buddistico-tibetano, apparentato con lo scudo di Davide, un Mandala che indica il sorgere del sole un Solstika, infatti, come ho già detto - tramutato in simbolo di rovina e distruzione per disinquinare l'Europa dalle razze inferiori e ora a Roma l'autorità suprema del Vaticano sta restaurando la carriera ormai sbiadita del Presidente di una repubblica di pasticcini ed elettronica, quasi un'Italia ducesca di lingua tedesca, solo senza le pizze e i bombardieri Fiat che hanno bombardato Tel Aviv - un piano e mezzo nella fattoria delle lavoratrici, circa dieci metri da dove mi trovavo, Karen Kayemeth Boulevard, fottuto goffo bombardamento avendo preceduto il segnale d'allarme di parecchi secondi - poi me ne tornai a casa completamente illeso, pronto a scrivere entro X anni questa poesia politica dovere oneroso, omaggio ai Canti di Ezra Pound, una storia in sé - che fece per la poesia del ventesimo secolo molto di più di qualsiasi altro poeta della sua generazione, includendo Eliot - suo discepolo - e Auden e Dylan Thomas e Allen Ginsberg che lo intervistò alla fine degli anni cinquanta o all'inizio dei sessanta (meglio controllare) e gli garantì l'amnistia (i paria ebbero pietà dei paria) e ricevette in cambio espressioni senza senso, dichiarazione terminale. Così cosa si aspettava Kurt Waldheim dal Papa polacco? Intanto: probabilmente il punto mediano di un ultimo onore perduto. La Polonia non è ancora perita e l'Austria, Austria iiber alles. Mondo misero, pericoloso, ancora dominato - in tutti i ranghi e a tutti i livelli - da plebei, buoni o cattivi che siano, criminali di guerra del passato e criminali di guerra del futuro - e l'élite intellettuale, scrittori, scienziati, sta facendo commenti, suggerisce, firma petizioni su piazze e plazas, niente Sesnas - la Piazza rossa è off-limits. Cosicché forse Gorbaciov che si ricorda di Stalin che si ricordò di Zhukov che aveva fatto a pezzi la Vehrmacht - potrebbe rammentare a Reagan che si ricorda di Roosevelt, che inserì l'America nel contesto mondiale (Cina più Europa molto obbligata) che una parola dovrebbe esser detta all'orecchio del Papa polacco, -etwas stark, estratta dal vocabolario di Dov Zakheim, talché si ricordi della sua infanzia e giovinezza, accolito, salsiccia al sangue, magia nera lassù nella cupola. Buttati in ginocchio, Panie Janie Pawle, buttati in ginocchio, e confessa al libero mondo glasnostico la tua accoglienza peccaminosa al Fiihrer austriaco - poi un tuffo nel Mar Morto e una preghiera a Gerusalemme e il Santo dei Santi sorveglia dall'alto, e l'assemblea dei Veterani del Vaticano negli Edifici pubblici e Yad Va 'Shem e il raggio laser e la lampeggiante tonante guerra stellare . ... Traduzione di Lisabetta Serra

Alf abeta I 02 U mberto Eco si è recentemente interrogato con qualche apprensione sulla vague irrazionalistica del nostro presente (vedi «Alfabeta», n. 101). Girando per gli stand della fiera del libro di Francoforte (ma poteva bastare il metrò di piazza San Babila a Milano), osserva che da ogni parte spuntano alchimia, astrologia, divinazione e magia nera. Ci invita a scavare sotto la superficie del fenomeno e a fare con lui una rapida ricognizione «per identificarne le radici». Eco si sofferma sull'ermetismo del II secolo e sulle sue riapparizioni storiche e tenta poi di combinarne gli effetti con quelli dello gnosticismo in una sorta di modello «ermetico-gnostico» che si riaffaccerebbe nel nostro secolo e che oggi conoscerebbe un revival particolarmente sensibile. Si tratterebbe, fin dall'inizio, di una «deviazione dalla norma», intendendo per norma la normale razionalità che caratterizza la nostra cultura e che si può riconoscere nella logica del modus ponens ( se p allora q) e della non contraddizione (a = a), codificata una volta per tutte da Aristotele. Questa deviazione produrrebbe, infine, alcuni effetti perversi che Eco chiama «sindromi», la sindrome del segreto e la sindrome del complotto. L'idea che la verità resti avvolta nel segreto rinviando via via a un ignoto sempre più ignoto (e dunque incontrollabile) e l'idea che il .male è già avvenuto prima e sopra di noi alimenterebbero le sue sindromi che risultano così aristocratiche e paralizzanti. Il quadro - che adesso ho cercato di riassumere nei suoi punti essenziali - è costruito con grande acume, invidiabile chiarezza e stringente consequenzialità. Però non è convincente. O, almeno, non mi convince per una serie di motivi che mi provo ad accennare. La vague irrazionalistica (prendendo per buona l'ipotesi di Eco che di «irrazionalismo» si tratti) è comunque un'onda di ritorno. Identificarne le radici è importante ma con questo non è detto perché il fenomeno dovrebbe ripresentarsi come sindrome e proprio oggi. L'ipotesi implicita sembrerebbe quella più consueta e automatica: la «decadenza» dei tempi. Ma allora il «modello razionale» dovrebbe a propria volta essere riguardato come soggetto a cedimenti e dovremmo se non altro interrogarci sul perché di questa sua scarsa tenuta: chiederci se tra le domande di sapere attuali e le risposte vi sia congruità e, verificando che uno scarto esiste, sospettare che le incongruità non stiano solo dalla parte delle domande ma pongano anche problemi non irrilevanti alla «limitatezza» di tale modello. L'argomento di Eco potrebbe infatti es~ere rovesciato. Tralascio le questioni di stretta pertinenza storica (se cioè la ricostruzione del modello ermetico-gnostico, così come ci S cegliendo di svolgere un seminario sull'Etica nel settimo anno del suo insegnamento, Lacan lo contrassegna con un numero simbolicamente pregnante. Preceduto, nel 1958-1959 dal seminario su Le désir e seguito, nel 1960-1961, da quello su Le transfert (ambedue inediti), L'etica della psicoanalisi abbandona apparentemente il terreno della clinica e, in una certa misura anche quello della teoria analitica, per scendere su quello della filosofia. Il confronto con la disciplina che, da Aristotele a Kant, referenti privilegiati, ha affrontato il problema morale, è imprescindibile. Forse l'intento è di contrapporre, a quella di tradizione filosofica, una nuova visione del mondo? Si rischierebbe di dire sì, a patto di intendere per etica lo stile con cui il soggetto assume l'essere gettato nel mondo, e il suo essere per la morte. Un'etica dell'essere piuttosto che del dover essere. Non si tratta però di una riduzione a una posizione esistenziale rovesciata rispetto, ad esempio, alla normatività kantiana, in quanto la necessità del ribaltamento non viene da un esercizio di pensiero, ma da un'evidenza della clinica. Era stata la clinica, infatti, a rivelare a Freud (Al di là de/principio di piacere, 1920) che la pulsione di morte lavora, silenziosa e instancabile, l'essere umano; che A più voci Temi. L'irrazionale ieri e oggi viene offerta dalla sua sintesi, sia completamente accettabile), sulle quali immagino che altri possano più opportunamente di me prendere la parola. E mi chiedo: il gioco tra modellò razionale e altre spinte (che Eco definisce appunto irrazionalistiche) si può ridurre al rapporto tra norma e deviazione? Non credo; e porto a suffragio del mio scetticismo in proposito il fatto che è possibile (e mi pare anche più produttivo) vedere il medesimo fenomeno da una angolatura del tutto diversa. Proviamo allora a considerare il lato non autoritario di queste spinte e a tenere al tempo stesso ben presente il lato autoritario del modello razionale ritenuto normale. D Erik Satie Rispetto al primo punto, possiamo affermare che per tutto il corso della cosiddetta «modernità» (Hegel non escluso, come insistono a dire numerosi studi contemporanei), con evidenza nel caso di Nietzsche ma anche di Freud, e poi palesemente in Heidegger, insomma fino all'ermeneutica contemporanea, la scena filosofica è percorsa non marginalmente dalla esigenza di far «esplodere» il tradizionale modello di ragione aprendo il discorso del filosofo a un territorio più vasto, meno rassicurante, e comunque più ricco. Un esempio banale può essere l'idea di «inconscio». Non è un oggetto tradizionale di sapere e certo rifugge al modus • Temi. Antigone e Lacan essa regola, ostacolando la tendenza al piacere, l'apparato psichico dell'uomo per accompagnarlo al naturale compimento del suo ciclo vitale. La proposta di Lacan non è una visione del mondo nel senso filosofico del termine perché si giustifica altrove. Le sue pezze d'appoggio sono il sintomo, l'atto mancato, il motto di spirito, il sogno: in queste, che si definiscono come formazioni dell'inconscio, si rivela il carattere aporetico del desiderio. Aporetico, vale a dire senza mezzi, incapace di servire il principio di piacere. Il desiderio, lo stesso che regola il sogno freudiano della Traumdeutung, quello incistato nell'ombelico del sogno, nella teoria di Lacan fa parte del registro del reale. Reale e desiderio si congiungono nel nuovo campo da dissodare; sarebbe più opportuno definirlo un campo da recingere, da contornare. Intorno a questa forma del desiderio, che non è soddisfazione di un desiderio (rivalsa per un desiderio diurno inappagato, ad esempio) ma desiderio al secondo grado, desiderio di desiderio, ruota il seminario di Lacan. Affondando nel registro dell'impossibile, il reale, può procedere o affrontando il suo soggetto a contrario - con la traversata filosofica che compie nella prima parte del seminario - o pagina5 I ponens: eppure la filosofia e la nostra cultura non possono farne a meno. Ma è il secondo punto il più delicato. Proprio in quanto definito dai suoi limiti rigorosi, il modello razionale si è rivelato stretto e di conseguenza restrittivo, al punto di dover codificare il rapporto con il fuori nei termini autoritari della norma e della deviazione. Quali sindromi - potremmo chiederci - sono scaturite da questo? Scrive Jung (in un suo saggio divulgativo della fine anni cinquanta): «L'uomo moderno non si rende conto di quanto il suo 'razionalismo' lo abbia posto alla mercé del mondo sotterraneo della psiche». E in ogni caso questo modello, che noi continuiamo a pensare e ad usare come universale, nella sua limitatezza può solo illudersi di disporre di ponti per diventare globale. Scrive Serres: «Siamo lucidi: non abbiamo un operatore che ci permetta di passare dal locale al globale [... ] mentre viviamo su quest'idea classica così particolare che esista una ragione comune al locale e al globale» (Passaggio a nordovest, 1980). La «lucidità» invocata da Serres è qualcosa di evidentemente diverso dal modus ponens e dalle sue catene logiche. Inoltre, contiene un nucleo etico che al'pare in netto contrasto con le sindromi enunciate da Eco. E lo stesso nucleo che possiamo ritrovare anche in Jung o in Heidegger, insomma in tutta la linea di pensiero che Eco non esita a penalizzare come irrazionalistica. A mio parere, la chiave filosoficamente importante di questo «ritorno» consiste proprio nella proposta di un atteggiamento pudico, «debole» se si vuole, e comunque di distanza discreta rispetto a ogni verità che pretenda di essere globale, abbagliante, o comunque già istituita. È curi~so: noi associamo quasi meccanicamente la ragione illuminata alla tolleranza (e alla democrazia), ma se· guardiamo le cose dall'angolo che ho cercato di suggerire il modello razionale ci appare insieme tollerante e intollerante, democratico e autoritario, al punto che le due caratterizzazioni sembrano talora confondersi. Mentre dal cosiddetto «irrazionalismo» ci proviene un sospetto su ogni modello, un invito al dubbio e alla cautela, un'etica del pudore; e questo proprio mentre esso si sforza di mantenere una qualche comunicazione con il territorio che tradizionalmente abbiamo chiamato «il sacro», cioè evitando un taglio netto, un'evocazione in massa degli «dèi» (di tutto ciò che questo simbolo ha tentato di indicare). È perlomeno sintomatico che proprio da qui noi possiamo ricavare una più adeguata consapevolezza della sindrome autoritaria che sembra affliggere il modello razionale . circoscrivendolo con qualche trucco che serva a segnalare che è «lì» il luogo da scandagliare. Il trucco che Lacan impiega consiste nel ricorrere alla lettura della tragedia classica. Un'abitudine certo non estranea neanche a Freud che fonda la sua costruzione teorica sul mito edipico. Lacan lo segue accostando agli eroi della tragedia classica quelli del moderno dramma shakespeariano (Amleto, re Lear). La tragedia racchiude, nel suo cuore più segreto, il peso insopportabile del reale. Questa volta è l'Antigone di Sofocle che funge da segnale per indicare il sito. Viene assunta come portabandiera ideale dell'agire umano, dell'agire analitico, soprattutto, che deve sapersi regolare sul tono più alto e rigoroso di umanità. Antigone funge da modello esemplare di radicalità nel difendere un'etica che risponde solo del desiderio che la abita. L'Antigone di Lacan, va precisato, non è l'eroina cui comunemente si fa appello in occasione di conflitti fra il singolo e la legge che regola la vita della comunità. Pur costituendo ormai un luogo comune della riflessione filosofico-politica, ha ancora da rivelare la potenza di un messaggio finora mai fatto risaltare. Esso si rivela proprio. quando la tragedia adempie la sua funzione, quella messa in eviden-

I pagina6 za dalla definizione aristotelica: «[... ] attraverso la compassione e il timore mira a liberare da passioni siffatte». La tesi di Lacan è che questi sentimenti agiscano - nel Coro con cui lo spettatore si identifica - in un momento preciso e centrale dell'azione tragica. Il momento per cui la tragedia è costruita e verso cui l'azione precipita. Allora si compie il destino dell'eroe e si produce la catarsi, scioglimento del dramma e purificazione. Per chi è la compassione? Per che cosa il timore? Ecco il punto: intorno all'oggetto di «compassione e timore» ruota l'azione. L'oggetto è un'immagine. Non Antigone, ma la sua immagine in un momento preciso della tragedia, quello verso cui precipita il dramma insieme alla sua eroina. L'azione è costruita in funzione di questo precipitare à-bout-de-course del personaggio che assume l'etica dell'eroe. La scansione fondamentale dell'evento tragico si segnala con l'immagine di Antigone che appare in tutto il suo éclat - splendore, scalpore, luminosità e scandalo sono i significati di questo termine adottato da Lacan per coniugare l'etica all'estetica dell'immagine. Perché allora? Il suo stile, dall'inizio della tragedia, non è mutato. Già il Coro l'aveva definita omòs, cruda, indigesta, inumana; inflessibile nel suo proposito di obbedire a quelle leggi non scritte, nomma agrapta che ordinano di dare l'onore della sepoltura a ogni essere che, in quanto umano, A più voci abbia avuto diritto a un nome. Polinice, suo fratello, nato da una stessa madre, autadelfos, deve, qualunque sia stato il suo delitto, essere sepolto. A qualunque prezzo. Antigone, che è disposta a pagarlo, si dichiara morta per il mondo dei vivi, pur essendo ancora giovanissima e vergine, promessa sposa a Emone. «O pais» la chiama il Coro: fanciulla quasi bambina. Pure non è questo a produrre la compassione e il timore. La funzione catartica della tragedia è assolta quando, dopo la condanna di Creonte - essere chiusa viva in una tomba - Antigone appare, gli occhi splendenti di un desiderio d'amore - «ìmeros emarghés» è, letteralmente, il «desiderio reso visibile» (p. 311) - che resterà insoddisfatto, a recitare il suo lamento. Eccola, bellissima e luminosa, condannata a restare sospesa in un insopportabile territorio di confine; dove il bello e l'orrore si confondono e lo splendore consente la visione dell'orrore. Non, banalmente, orrore della morte, ma «di una vita che si confonde con la morte sicura, morte vissuta in modo anticipato, morte che sconfina nel territorio della vita, vita che sconfina nella morte» (p. 291). La funzione catartica della tragedia consiste nel circoscrivere questa zona - tra l'anticipazione soggettiva della morte e la morte reale - che l'eroina abita. Per poterlo fare deve essersi resa impermeabile ai sentimenti - umani - del Coro, al timore e alla compassione. È per questo che è lei il vero eroe. Temi. Antigone e Lacan Alfa beta 102 I· L'indistruttibilità alla sofferenza caratterizza l'immagine della vittima. In questa immagine sacrificale, che la sofferenza non riesce ad annichilire, Lacan coglie le radici del fenomeno estetico (in questo senso Philippe Julien, nell'articolo pubblicato in questo stesso numero parla di congiunzione di un'erotica e un'estetica). In questo senso è esemplare, fa notare Lacan, l'immagine eretta dal Cristianesimo come significante del limite, «immagine esemplare che tira segretamente verso di sé i fili del nostro desiderio, l'immagine della Crocifissione» (p. 304). • L'umanità indigesta di Antigone funziona per Lacan da modello ideale, esempio difficile ma imprescindibile soprattutto per chi, come un analista, deve saper introdurre la vita a patto della morte. «La vita ha qualcosa a che fare con la morte? Si può dire che il rapporto con la morte supporta, sottende, come la corda l'arco, la curva della discesa e della salita della vita?» (p. 341). Ma, occorre precisare, la morte di cui si parla è una morte sofferenza, quella che l'immaginario umano ha sempre collocato al di là della morte. Nei termini della metapsicologia freudiana si chiama istinto di morte. Etica, nella proposta di Lacan, è assumerlo; riconoscervi, nella dinamica che lo struttura, il meno sradicabile e umano dei desideri, l'essere proiettati verso (pros), e al di là (ektòs), del limite. Come Antigone; come Elettra. O come Amleto. n'eticadelbendire N el corso dell'anno accademico 1959-1960, a Parigi, lo psicoanalista Jacques Lacan teneva un seminario sull'etica della psicoanalisi. La sua pubblicazione, avvenuta lo scorso autunno, a cinque anni dalla morte, è un avvenimento importante per il futuro della psicoanalisi freudiana. È notevole che vi si parli di quanto molto spesso gli psicoanalisti tacciono nascondendosi dietro il paravento medico della tecnica terapeutica e della neutralità scientifica, del grande problema, cioè, che ogni essere umano si pone molto presto, fin dall'infanzia: come sbrogliarsela col proprio prossimo, il Nebenmensch di Freud. Qui trovano inciampo le due etiche tradizionali dell'Occidente. La prima, l'etica del Bene, ci ordina di volere il bene del prossimo; il fatto è che non posso niente nei confronti della sua radicale cattiva volontà: più voglio e gli dico qual è il suo bene·, più lui si precipita nel suo contrario. La cosa mi sembra scandalosa fino a quando non capisco che il bene che voglio per lui è solo l'immagine del bene che auguro a me stesso; non è un granché! Scambio l'altro per il mio specchio, per il mio simile senza riconoscerne la dissimiglianza e l'alterità, al di là della buona o cattiva volontà, al "di là della bontà o cattiveria. Il buco nella sua immagine, il luogo vuoto (intorno a cui ruotano le mie rappresentazioni) è lo stesso che è in me: la stima (ex-time) è assolutamente intima per me. Il suo nome è: desiderio. Ma qual è la legge del desiderio? A questo punto, storicamente, incontriamo un'altra etica: quella formulata da Kant che prescrive la sottomissione al puro imperativo categorico che vale sempre e ovunque non per ciò che dice, ma perché lo dice: l'imperativo è dettato dalla voce della coscienza interna, ma in realtà viene dall'esterno, dal Super-Io freudiano, «figura oscena e feroce» (Lacan), voce sadica che gode e divora; quanto più le obbedisco, tanto più domanda e ridomanda. Eccomi di nuovo incappare in una strana malvagità. Il Super-Io non è, però, la legge del desiderio. A essa si accede, invece, solo spogliando, sgombrando il luogo del- !' Altro, mio prossimo, da qualsiasi buona o cattiva intenzione, da qualsiasi preoccupazione di godimento. È questa la sublimazione: elevare l'oggetto amato o temuto allo statuto di luogo vuoto: Tu! Tu al di là di qualsiasi cattura invadente esercitata dalla tua immagine;riflesso di te stessa, fino alla pura interiezione: tu! Come agisce la sublimazione? Là dove l'Etica del Bene fallisce di fronte alla malvagità, là dove la legge kantiana la reintroduce a sua volta, va sostituita un'altra etica: un'etica del bello, più precisamente del ben dire. Il ben dire è generato dal luogo del desiderio: vacuolo al centro dell'Altro e di me stesso, vuoto impenetrabile; da qui, da questo niente, ex-nihilo, c'è creazione di nuovi significanti. Lacan ne fornisce due esempi: l'amor cortese del XII secolo e l'Antigone di Sofocle. Con l'arte del canto il trovatore supera l'arbitrarietà della prova che la Dama impone all'amante. La bellezza del linguaggio eleva l'oggetto in- .quietante allo statuto di vuoto impenetrabile che è il puro desiderio. Così Dame Ena è cantata da Arnaud Daniel, Raimon de Durfort e Truc Malec. Ancor più con Antigone Sofocle fa nascere negli spettatoPhilippe Julien ri un'etica diversa da quella di Creonte, il buon rappresentante dell'etica del bene della città. In loro la paura e la pietà per la fanciulla si purificano poco a poco e fanno posto alla purezza del desiderio: esso prende fuoco da quello di Antigone. Con la sua arte Sofocle introduce al di là della crudeltà del destino di cui Creonte non è che lo strumento. Allora, al cospetto del viso di Antigone, il coro può lasciare che prorompa il canto: «Desiderio invincibile, desiderio che la notte riposi sulle gote della fanciulla. Così il desiderio trionfa, desiderio visibile nelle pupille della sposa in attesa del letto nuziale». È il culmine della tragedia: la presentazione del desiderio reso nella sua visibilità unisce un'etica, un'erotica e un'estetica. Un ultimo problema: come viene introdotto in ognuno il lavoro della sublimazione? Attraverso la funzione paterna. Agli occhi del bambino, dai cinque anni in poi, il padre reale viene cancellato e velato, dal sovrapporsi, al suo posto, di un padre di elevata statura. Il bambino si costruisce un padre ideale, supporto del Super-io, in luogo del padre reale che ha la madre come oggetto del desiderio. Il padre ideale è l'agente della privazione, in quanto è ciò che il bambino non è e in quanto ne è considerato responsabile. All'epoca del declino dell'Edipo, il bambino deve effettuare il lutto del padre ideale: potrà farlo solo rimproverandogli d'averlo fregato così malamente. Il rimprovero persiste fino a quando il lutto è portato a termine: morte del Padre, luogo da cui si enuncia la legge del desiderio. È così che più tardi il bambino e poi l'adulto sapranno che la sola· cosa di cui ci si possa sentire colpevoli è d'aver ceduto sul desiderio che ci abita. Si cede, certo, in favore del servizio dei beni (famiglia, lavoro, patria) ma vi si perde la bussola come una banderuola. A che servono i beni? Non sono inutili, nient'affatto! Servono a pagare il debito della legge del desiderio. Ogni essere umano deve pagare questo debito per accedere al desiderio. Questo implicherà il poter essere impunemente traditi, cioè che di fronte alla malvagità del prossimo non ci si ritiri nella propria tenda oppure non si diventi inclini alla denuncia virtuosa. Al contrario il debito permette di continuare ad andare verso l'Altro, proprio nel luogo dell'enigma del suo desiderio e di accettare di essere vittima della regola di struttura che ci ha fatto l'uno simile all'altro. Nel suo tracciato essenziale questo è il filo rosso che percorre la trama del seminario di Jacques Lacan sull'etica della psicoanalisi. Non è un filo sempre facile da seguire, certo, ma il-lettore che si lasci avvincere dal libro ne uscirà comunque trasformato. Traduzione di Marisa Fiumanò Il nascondiglio dell'iniquità

I Alfabeta 102 Lettera di Eugenio Barba e aro Franco, benché sia personale, diretta a te, questa non è una lettera privata. Volevo essere presente, almeno per iscritto, a Ivrea dove venni venti anni fa con Else-Marie e Torgeir a mostrare frammenti del primo spettacolo dell'Odin Teatret e gli esercizi del training. Tramite te, desidero rivolgermi anche agli altri, quelli che allora c'erano e quelli che di quel Convegno - che oggi appartiene alla Storia - hanno solo sentito parlare. Quando - in gran parte per opera tua - fui invitato a Ivrea, nel 1967, apparii - credo - come il rappresentante di un teatro monastico soddisfatto della sua clausura, addirittura affetto da un senso di superiorità morale. Per Else-Marie, per Torgeir, per me quell'invito fu invece uno dei primi segni di solidarietà, di curiosità e interesse capace di rompere un isolamento di cui soffrivamo. Volevamo seguire la nostra strada, quasi rifarci il teatro dalle fondamenta, visto che nel teatro già fatto non c'era posto per noi. Tutto questo per incontrare altri, per essere accettato e per accettare, malgrado e tramite la difficoltà a comprenderci, l'impossibilità di riconoscersi tutti in una stessa visione teatrale. Possono la solidarietà, il rispetto reciproco, l'affetto andar d'accordo con l'intransigenza? A questo si riduce il problema dei rapporti fra uomini che seguono strade diverse, che a volte non si incontreranno mai, e che pure non possono restare soli in un ambiente che è ostile, malgrado l'accettazione o il successo di cui, di tanto in tanto, possono godere i «teatri diversi». Quando nei tempi della permanenza nostra in Danimarca, l'Odin Teatret attraversò una crisi economica che ci avrebbe costretto a chiudere, fummo salvati dalla solidarietà dei colleghi del teatro «tradizionale», «commerciale», «boulevardier» che non comprendevano il nostro lavoro, che ne rifiutavano il senso sul piano teorico, ma dettero una «beneficiata» per raccogliere fondi che ci permisero di sopravvivere. In quella serata, per l'unica volta in vita mia, ho visto e mi sono goduta un'operetta. A vent'anni di distanza quella polarità tra bisogno di isolarsi e bisogno di sentirsi accettato non esiste più. Appartengo a una Laputa Teatrale che è sì una piccola isola, ma ha radici in ogni continente. So che potrebbe andare in pezzi da un mese all'altro. Ma so anche che a casa mia c'è una stanza grande abbastanza per poter far teatro, e che in giro per il mondo ci sono abbastanza persone - tante almeno da poterle contare sulle dita di due mani - con cui potremmo riunirci e lavorare. Eppure non è vero che di quella polarità non rimane più nulla. Oggi sento il teatro come una professione - un'azione - caratterizzata dalla tensione tra la propria identità storico-sociale-culturale e la propria identità professionale. L'una ci collega al nostro ambiente storico e geografico, l'altra ci spinge a non tenere conto delle frontiere fra le culture e ci stringe ai nostri diversi e distanti colleghi. Quanto più parlo e rifletto sulla dimensione eurasiana del teatro, tanto più ritorno a·pensare alla terra in cui sono cresciuto. Quanto più mi concentro sui livelli basilari che determinano il bros teatrale, tanto più sento il fascino e l'ossessione della Storia in cui viviamo. Lavoro a lungo sul pre-espressivo dell'attore, ma perché a teatro mi interessano solo i significati: non quelli ovvi, ma quelli personali che sono là dove io, l'attore, lo spettatore non li aspettavamo. • A più voci Taccuini Mentre invecchio e si fa più impellente la responsabilità di trasmettere un'eredità che io stesso ho rièevuto, provo la gioia di scoprire quali siano stati i miei primi maestri. Da alcuni anni non sono più cittadino italiano. Scrivo questa lettera da Otranto. La metto in bella copia a Holstebro da dove te la invio. Quando la leggerai sarò in Brasile. Spero che a Ivrea prendiate efficacemente posizione nei confronti di ciò che sta accadendo nel teatro italiano con le orecchie attente ai molti scricchiolii, alle voci ancora troppo deboli per farsi bene sentire, ma già vive. Spero che non ragioniate per categorie, per stili, per tendenze. Vi auguro anche che su Ivrea non passi solo aria italiana. Spero che l'attraversi il vento dei viaggi che ha sempre caratterizzato i teatri la cui permanenza è fatta da ciò che si trasmette da uomo a uomo e non dalla solidità degli edifici. Vi auguro i venti dei teatri orientali, apparentemente immobili nella profondità del loro sapere; i venti dei teatri latino-americani agitati dal rischio continuo Il nascondiglio dell'iniquità C!7 della perdita di identità, con l'odore acre della violenza subita, del sacrificio, della penuria, invisibili a coloro che amano solo il velo della grazia e dei capolavori. Personalmente, senza questi venti, mi sarebbe difficile riformulare a me stesso il senso del teatro, pensare al futuro. Per questo li auguro a te, Franco, nomade anche tu, e li auguro a tutti voi. Dalla relazione di Franco Quadri o ggi è sempre più labile la barriera che passa tra chi vede uno spettacolo e chi non lo vede; e la differenza, del resto, è pochissimo rilevante. Per parlare di uno spettacolo, non è necessario averlo visto: basta sapere di che si tratta, capirne il senso, possederlo concettualmente. I media· fanno il resto: una foto, un giudizio, una sequenza ripresa sono lo spettacolo. Questo non vale soltanto per i critici, sulle cui distrazioni, sui ritardi, le dormite, le assenze e scomparse circolano leggende, ma per gli spettatori in genere. •«Ho recensito Kantor senza averlo visto», mi diceva un giorno, con un pregiudizio negativo che non ammetteva repliche, Carmelo Bene. Vi sono infatti spettacoli replicati per pochissimi spettatori come Le Baccanti di Ronconi, replicati pochissime volte come il Winterreise nell'Olympia Stadium di Berlino, o mai replicati come Genet a Tangeri n~ macello di Riccione, che hanno visto moltiplicarsi negli anni il numero dei loro spettatori come i famosi Mille di Garibaldi. Quanti ne parlano e scrivono come se li avessero visti! E a volte sono così radicati nelle loro mitizzazioni da essersi convinti - in buona fede - di averli visti. La presenza, l'immediatezza di quel rapporto di comunicazione che è uno degli specifici del teatro, si svaluta e impallidisce davanti alla riproduzione trasposta, al semplice messaggio, al senso dell'acquisizione collettiva. Questo non depone a favore della diffusione e della rilevanza d'immagine del teatro, perché gli strati raggiunti da questi tipi di informazione rimangono sempre limitati, ma piuttosto di quel sentimento di superficialità diffusa, su cui giocano alcuni teatranti, per i quali conta più l'opinione della realtà, più il titolo di giornale del pezzo che lo segue. [... ] Cercando i testi (non solo quelli teatrali), alcuni registi sono arrivati a ricrearsi dei mondi, dal Brook del Mahabharata, al Ronconi di Ignorabimus. Altro che anni di transizione! Vogliamo aggiungere, al di fuori dei testi, Il Vangelo di Oxyrinco di Barba e, recuperando Wilson, Death Deshuction Detroit 2? Guarda caso, lo si confessi o no, sono tutti e quattro spettacoli di laboratorio. Quello di Wilson, in particolare con il suo prolungarsi su tutti e quattro i lati della sala di una fucina inesauribile di immagini, sul tema di una immaginaria biografia di Kafka, costruita come un puzzle di sistemi combinatori applicati alla. fiction. Quello di Wilson nasce alla Schacbuhne am Lehniner Platz, ovvero nell'ultimo vero laboratorio esistente al mondo, dove all'artista è concesso di provare a tempo indeterminato, dove ha la possibilità di modificare ad libitum lo spazio, e soprattutto una libertà assoluta di creazione. Lì negli stessi giorni Peter Stein presentava il suo Scimmione peloso, e non importa se il pamphlet propagandistico di O'Neill era fragile e contraddittorio; importa la creazione - trasferita dal «tempo» di Ignorabimus allo «spazio» - della vita di una nave in tutta la sua altezza, con i macchinisti schiacciati negli scomparti a vari piani come in una citazione di Piscator, per poi far posto, nella pagina 7 altissima scena svuotata, alla selva di luci di una New York di grattacieli-giocattolo. Era giustamente una follia, molto attaccata dalla critica, per Stein una prova del suo diritto a sbagliare, sempre che abbia sbagliato. Il pubblico delirante che gremiva la sala non era un assieme amorfo passivo di abbonati. Era un pubblico. Vogliamo dire che in Italia un'iniziativa del genere sarebbe impensabile, perché sappiamo com'è finito, proprio alla metà di questo ventennio, il Laboratorio di Prato. Eppure nel 1975, all'insegna del laboratorio, s'era celebrata la Biennale Teatro di Ronconi. Ma chi parla più della Biennale Teatro? Perfino i critici teatrali hanno dimenticato, a differenza dei loro colleghi di cinema, di reclamarne l'esistenza. A proposito di Ronconi, insistendo sul laboratorio, s'è già fatto l'esempio di Ignorabimus, al Fabbricone di Prato dove ora c'è Lerici; facciamo anche quello del «prototipo» che il regista prepara in due anni a Milano su testo suo; e del suo lavoro con le scuole di arte drammatica, sempre più attive in questo campo, anche se con programmazioni troppo schizofreniche. E citiamo alla rinfusa altri esempi: - i Magazzini Criminali nel periodo di Scandicci, prima della cacciata; - il Centro di Pontedera non solo col progetto Grotowski; - Giorgio Barberio Corsetti con l'applicazione tra video e teatro con Studio Azzurro; - Giorgio Marini, in prova per un anno a Roma con la Blixen prima e ora coi Fanatici; - la stagione di Leo a Nuova Scena; - le «Troiane» di Tierry Salmon in preparazione per Gibellina, con 39 ragazze di quattro paesi, in prove seminariali di otto mesi tra sedi di festival e di teatri, tra cui i Teatri Uniti napoletani che si trovano impiegati in un analogo progetto monotematico; - il Centro per la Drammaturgia di Fiesole e il Pasolini per il fondo Pasolini; - e Quartucci da Gennazzano a Berlino, a Erice, e poi gruppi come Remon e Caporossi, Santagata e Morganti, la Raffaello Sanzio o la Valdoca, ovvero il «duo dispari» di Cesena, ecc. Il laboratorio dunque esiste e si contraddistingue per i tempi lunghi di lavoro, per la costruzione di uno spazio personalizzato per ogni spettacolo, per l'esperimento sul linguaggio, per l'elaborazione di un metodo. Io credo che la vera sperimentazione sia un laboratorio permanente, e che lì debba trovare la sua strada, non bloccandosi su questioni di datazioni, sulle mode sancite dalle circolari ministeriali, sulle tentazioni della spettacolarità fine a se stessa, sulle sterili distinzioni tra processo e opera. Ci sarebbero pure degli ideali strumenti di promozione come i centri, una volta dotati dei mezzi necessari, perché ora ahimè sono per lo più occupati in tutt'altro, a farsi le proprie vetrine, o a studiare ragioneria tra le pieghe del sistema. Il laboratorio potrebbe essere il terzo elemento, evidentemente sostenuto dallo Stato nel suo contributo a nuovi linguaggi, in un'organizzazione a tre punte che metta fine alla confusione interessata e scialacquatrice di questo paese, ricchissimo di teatro, ma incapace di amministrarlo. I due argomenti sono estratti dalla relazione di Franco Quadri (all'inizio e in fine) al Convegno di Ivrea Memorie e Utopie, Per un Nuovo Teatro; 25-27 settembre 1987. La lettera • di Eugenio Barba è stata letta nella stessa occasione. • •

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