Alfabeta - anno IX - n. 101 - ottobre 1987

Alfabeta 101 A più voci pagina 9 ci vuole questa simpatia. Antonio Porta. Un'osservazione a distanza di settanta-ottantacinque anni, che la poesia sia datata 1901 o 1903 è del tutto insignificante proprio se, a questo punto, decidiamo che D'Annunzio ci interessa. Ecco, allora torno alla domanda iniziale. P~olo Valesio ha detto: si è fatto il convegno perché da anni io lavoro su D'Annunzio, o meglio, provo questa simpatia e leggo D'Annunzio. Perché, se puoi dirlo, l'opera di D'Annunzio ti ha, per così dire, abbagliato? È forse legata a questo problema di grande energia che c'è in quest'opera, quest'energia che, tutto sommato, continua a essere trasmessa ai suoi lettori? «energia» io la c~iamo «vitalismo» o «energetismo» - non so come dire, le do un -ismo - la ridimensioniamo. Chiaramente l'energia di D'Annunzio è un aspetto energetico-vitalistico al limite lievemente ridicolo: tutti noi possiamo citare decine di frasi assurde in questo senso. Però c'è in fondo un'energia e quello che mi ha molto colpito è che recentemente Jeffrey Hartmann - uno dei capiscuola della cosiddetta scuola di Yale, anche se se ne sta andando a Princeton, ma questo è un altro discorso - parlando a Bologna ha usato l'espressione «energia negativa» per caratterizzare un certo tipo di critica decostruttiva. riferimento essenziali, poi dobbiamo decidere noi come italianisti, noi come ispanisti, appunto, che cosa diciamo - naturalmente prendendo il rischio di risposte parziali. Nel caso di alcuni di noi il discorso dell'energia- e questa volta non «energia negativa», ma come investimento positivo - è emerso fortemente. D'Annunzio, credo, ha rappresentato questo. Certo che dicendo «energia negativa» il lato - se..mi permetti - positivo è che energia negativa vuol dire energia critica, vuol dire energia raffinatamente distanziata: energia positiva vuol dire anche entusiasmi deteriori. Penso che nel caso dannunziano abbiamo un'energia positiva. stico-estetico, al polo opposto del populismo freddamente calcolato che sarà la retorica fascista. Io ho abbozzato, e penso che molti adesso lavorino anche in Italia - basti pensare al lavoro di De Felice - sul fatto che l'energia, .diciamo politica, di D'Annunzio ha molto a che fare con il fascismo, nel senso che vi è un contrasto continuo. Perfino il suo nazionalismo aristocratico - con tutti i lati ridicoli che esso può avere in certi aspetti, come nominarsi principe di Montenevoso e cose simili - è veramente molto diverso da quello fascista. lavorato molto, abbiamo già visto Montale ecc. - ma sia qualcosa di molto più semplice, di molto più importante, cioè una riscoperta dell'energia. Oso aggiungere un'altra espressione che due tre volte ·ha fatto capolino: riscoperta delle emozioni, con tutti i rischi che non _ènecessario che io vi indichi, ma che mi pare importante. Niva Lorenzini. È stata sottolineata, la parola giusta. Si può dire che nell'eclettismo di D'Annunzio 'c'è energia, come nel suo trasformismo e bisogna proprio richiamare Anceschi, che, nell'intervento che fece a Viareggio intitolato Nella sua diversità, sosteneva che nei furori di D'Annunzio, nel senso - cito proprio - «rigido e teso del sublime», è contenuto già l'opposto di tutto ciò, cioè è contenuto il senso di malessere e di sfiducia che D'Annunzio in tutti i modi vuole esorcizzare e mascherare, ma che rimane poi un segno forte della sua modernità. Credo che molti di noi italianisti Paolo Valesio. Fondamentalmente sì. Vorrei rispondere brevemente cercando di allargare dal mio caso particolare, sennò rischia di diventare un capriccio; ma hai usato la parola fondamentale. E qui si vede subito la differenza ideologica: se quella che tu chiami - insomma, più che i francesisti, direi gli italianisti e gli ispanisti, cioè coloro che hanno un contesto critico contemporaneo meno autorevole dei francesi - quando ci troviamo di fronte a questa critica decostruttiva a cui dobbiamo evidentemente moltissimo, e i punti di Un'ultima cosa che nessuno finora ha menzionato, che però evidentemente pesa, ed è il risvolto, l'aspetto politico. Oso dire che anche in D'Annunzio ormai dobbiamo riconoscere l'energia positiva, vale a dire un nazionalismo fondamentalmente ingenuo, di tipo miE allora anche guardando a testi della poesia italiana contemporanea, testi che oggi ammiro e amo, vi scopro, dopo un periodo direi di sperimentalismo gelido, che era pur necessario - non so se leggo troppo fra le righe, rischiando l'arbitrarietà - vi scopro dicevo, che il possibile nesso con D'Annunzio non sia tanto quello dei singoli debiti lessicali - su questo si è già Teatro: suòiial'allarme T eatro e politica: da quando l'una e l'altra sono state sottratte, deviate alla circolazione, all'uso? Da un decennio almeno, forse da un ventennio, in Italia. Rimetterle in strada, riesporle al confronto, è più che un senso vago, diffuso, oggi; direi quasi che è una necessità, un'esigenza da più parti. Teatro e politica dunque, per i nati dopo gli anni sessanta, soprattutto; cioè dopo lo scenario del messaggio utopico rivoluzionario del Living, dopo le barricate di Bene e di Leo in nome del mutamento del linguaggio. Questi ultimi infatti hanno giocato, rivendicato la forma, il linguaggio come arma di assalto come strategia radicale di fare nuovo teatro. Gli altri, dal Living al Bread and Puppet, e da noi penso a Fo e a Scabia, hanno sempre agito per forme e per contenuti assieme, ossia per contiguità di rapporti tra teatro e società. Tali esempi storici anni sessanta (leggasi quanto scrive De Marinis nel suo resoconto critico sulle ragioni del «nuovo teatro» di allora), divaricando radicalmente sui modi di produzione e sui fini della comunicazione, procedevano di riflesso, in bel rispecchiamento, nel rivendicare· teatro e vita, arte ed esperienza, romanticamente per utopie e per scontri, se non per memorie e radici. La loro offesa del sistema, la loro ribellione individualistica si sono comunque deprivate negli anni settanta per l'insofferenza del reale, per la riabilitazione dell'ordine, in un contesto sempre meno liberale e disponibile nei confronti del mutamento, delle rivendicazioni; salvo ripiegamenti o depistamenti che li si voglia chiamare sull'uso dell'immagine e del corpo, con brillanti prestazioni artistiche (Perlini per esempio), oppure per comportamenti moralistici ma di spessore sociale sempre minori e con forme di incisività sempre meno cen"trali (da noi la caduta del decentramento e dell'animazione). Spettacolarità e sensibilità sono state le nozioni che più seduttivamente e meno radicalmente hanno contrassegnato gli anni settanta (e dintorni); la spettacolarità come proiezione dell'individualismo «moderno» risolto in un paesaggio, in un ambiente metropolitano; la sensibilità come assorbimento ed espansione della vita dei giovani attraverso l'immagine, la sonorità, il look, l'abbigliamento ecc. Giuseppe Bartolucci La spettacolarità esplosa a Castelporziano come momento magico comunicativo e come trasmissione non consolatoria di poesia, ha ben presto allentato il rigore «autodiffamatorio» del fare teatro, ed ha assorbito via via il fare perverso dei doveri della produttività. Altrettanto la sensibilità, allenandosi più alla moda ed ai suoi passaggi, più alla scrittura artistica che a quella scenica, ha omogeneizzato e reso marginali le esperienze, anziché disporle sul piano dei conflitti. In altre parole questa cosiddetta postavanguardia partita nel «77» (CarellaBeat 72, Magazzini-Carrozzone, Gaia Scienza e dintorni) da una rifondazjone assoluta del teatro, subito dopo gli anni ottanta accusa il peso e la dispersione di tale spettacolarità e di tale sensibilità, e chiude i conti con se stessa, direi coraggiosamentè, e va contro la sua memoria, contro il suo richiamo, per un viaggio «altrove» (attraversamento del teatro, teatro di poesia, teatro d'arte ecc.). L ' opera, le opere sono state e sono tuttora al centro del discorso critico ed all'interno dell'operatività artistica negli ultimi anni. L'analisi delle opere è da intendersi come esplicitazione e come rafforzamento del lavoro artistico. Entrare nelle opere significa rintracciare l'eccentricità, l'aggressività e metterne a nudo la trasgressività, la vitalità. Questo interagire critico ed artistico ha permesso e tuttora favorisce di percorrere e di attraversare il teatro senza essere più protetti da tendenze, da movimenti, quindi da fiancheggiamenti di convenienza. Tuttavia questa procedura, questo modo di pensare e di agire, di vivere e riflettere la scrittura scenica, tendono inevitabilmente ad impiegarsi ed a rovesciarsi soltanto e prevalentemente sullo spettacolo, sulle sue forme e sul suo rendimento, per ragioni di uso e di competitività assieme. Tutto ciò crea una nevrosi più che un'energia, dà luogo ad una preminenza ed a relegamenti oggettivamente non utili ai fini della ricerca, della sua forza di pressione, oltre che della sua sana prospettiva. L'operatività allora si riaffaccia sull'opera, attorno alle opere, come modalità produttiva, come processo creativo al tempo stesso. Tutto ciò include sia il luogo di lavoro che la referenza istituzionale, sia l'interno dell'opera che le sta attorno. È probabile, che proprio da questo intreccio di punti di vista non soltanto artistici ma anche produttivi, non soltanto estetici ma anche reali, possa scaturire un respiro, un'energia, al di là delle zone di competitività e di poeticità. Teatro e politica: dove come perché: tale era l'enigmatico ma non troppo titolo dell'evento di Narni (Opera prima, fine giugno 1987): per gruppi nati dopo gli anni sessanta tendenzialmente, e con una folta partecipazione, circa trenta i gruppi, più osservatori. Per Leo De Bernardinis teatro è politica: è stato il richiamo a ricominciare daccapo, (dopo l'episodio «Nuova Scena), e con novella formazione di giovanissimi, cioè per esigenza di produttività artistica autonoma e per richiamo di lavoro di attore per giovani. Per i «Magazzini» (Tiezzi) è stato proprio il momento del messaggio a farsi avanti, a imporsi nel loro percorso, nel loro tracciato, di teatro di poesia, ed anche è stato il momento della società come luogo della rappresentatività in risposta all'inconsistenza attuale del reale. La «Raffaello Sanzio», dal centro della sua sotterranea ma divorante introduzione al politico, alla religiosità, come motore della ricerca, come punto di vita dominante, si è trovata a fare i conti con la morte, ossia con l'immagine alta che la morte sbandiera laddove vita e arte, passione e ragione scendono gloriosamente in campo. È evidente che su questi tre interventi aleggia l'ombra del corpo glorioso di Artaud («conta più la mia vita che l'opera», ha lasciato scritto), e si estende la vena ribelle di Genet (venti anni di silenzio artistico a favore dell'esigenza rivoluzionaria), come punto di sutura tra richiesta di politicità oggi e di rigore artistico, di riapparizione del sociale e di vocazione al mutamento, alla trasformazione. Teatro e politica: che questo tema provochi contagi, inneschi dibattiti, faccia saltare parecchie consuetudini critiche e produttive, che metta in allarme forme, opere artistiche un po' dappertutto, è nell'ordine dell'emergenza per così dire, e merita una diffusa ed intensa proposizione di punti di vista, di rispetto di memorie anche, infine di insospettabili prospettive. Ricordare alcune osservazioni svolte da Taviani a Nervi sul difetto di essenzialità, sulla mancanza di necessità di gran parte del giovane teatro vuol dire a mio parere rinviare ad una precisazione pertinente dello stesso Taviani a nome di un'area di teatro di gruppo muoventesi in passato attorno alla posizione di «terzo teatro». Ed altresì attenersi a quanto Attisani ha esposto sulla complicità tra centri di produzione e forze giovanissime, sulla velleità stessa di un ritorno al «politico» che non parta da una cruda e fitta schiera di ragioni reali di vita e di arte, di istituzioni e di gruppi, senza troppa memoria e senza astratta rivendicazione, significa indurlo a proporsi come testimone freddo di questo passaggio, se non di questo ritorno del politico sulla scena italiana. Ciò che a noi interessa in questo momento è dunque la rete di tentazioni e di occasioni da un lato e dall'altro lato il senso politico della loro rappresentatività e della loro politicità. Superficialmente può sembrare abbastanza fuori moda e fuori uso riproporre questo binomio teatro e politica nel momento in cui opere e produttività, scambi e competitività hanno generale predominio. E certamente esso è spiazzante dal punto di vista dell'esistenza e del lavoro artistico oggi, non tanto come nostalgia del passato e nemmeno come insofferenza del presente, quanto come tentativo di superamento della scissione incombente tra eticità ed artisticità, tra persona e gruppo, tra istituzione e ricerca. Ma per un gruppo emergente (insisto su questa data di nascita degli anni sessanta senza mandare al macero quelli nati nel quaranta, nel cinquanta) questo tentativo rappresenta un orizzonte di stimoli e di percorsi non legato ai modi imperanti ed alle pratiche in corso; tanto più che questi stimoli e questi percorsi gli nascono proprio in virtù di sollecitazioni e di esperienze proprio tra teatro e politica, mi pare. Senza strafare, e con diritto di pazienza (tre anni di lavoro e più come prospettiva) è possibile cominciare a riformulare una strategia politica della ricerca teatro, per questo fin di secolo oramai alle porte, senza la fissazione costante di un impossibile nuovo e di un'impassibile catastrofe, e in virtù di una trasgressione, di un intervento non soltanto per opere, ma anche per modalità di dentro e fuori?

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