Alfabeta - anno IX - n. 101 - ottobre 1987

I Alfabeta 101 A più voci pagina 71 nel senso che esso legittima la dimensione statuale solo nella misura in cui essa appaia come «teofania» della soggettività che si viene emancipando dai vincoli della tradizione; il che equivale a dire che il pensiero della sinistra è irriducibilmente impolitico, votato alla spoliticizzazione. Ora io non ritengo che sia questo il peccato della sinistra. Condivido piuttosto il parere di Esposito, quando afferma che la difesa operata dalla sinistra (ma io specificherei: dalla sinistra di movimento) di uno spazio «esterno a quello che· Flores chiama partecipazione al mondo della polis» ha consentito «nelle grandi catastrofi della nostra storia più recente» di «custodire i frammenti di senso per un impegno futuro». Il peccato non consiste nel fondare l'azione politica su valori ad essa trascendenti, sul senso prodotto in altri ambiti dell'agire sociale, ma nello spendere questa riserva di senso sul terreno statuale, nel tentare di tradurre integralmente i valori non politici nel linguaggio della rappresentanza politica. Un imperativo che ha afflitto anche la pratica dei movimenti degli anni sessanta e (in minor misura) settanta, come tentativo di far coincidere la volontà di potenza dei soggetti sociali e l'emancipazione degli individui. È proprio questa identità fra soggettività e individualità che costituisce il cuore dell'assolutismo moderno, della traduzione violenta (anche nelle sue forme «democratiche» e «partecipative») di tutti i valori in valori politici. Per spezzare questa identità non serve rincorrere una illusoria rinuncia alla teologia politica, ma sviluppare il nucleo positivo di quella teologia politeista che è contenuta nell'epistemologia della complessità. Dell'idea di complessità la sinistra dovrebbe accettare proprio ciò che più sembra preoccuparla, vale a dire quella duplice operazione teorica che, da un lato, riduce la soggettività politica a prestazione funzionale di un sottosistema sociale, dall'altro, rifiuta di assumere l'individualità concreta a oggetto aella teoria politica, la concepisce come contingenza, ambiente del sistema so<:_iale. l E questa doppia operazione, infatti, che consente di delineare l'«etica della contingenza» di cui si è recentemente parlato su queste pagine (scritti di Serres, Luhmann, Marquard, Formenti, Cristin, in «Alfabeta», n. 100, settembre 1987) e che consiste sostanzialmente nel riconoscimento: 1. che nessun ambito di azione può determinare univocamente i valori di altri ambiti (ciò non significa che non vi sia interazione, ma che non esiste gerarchia dei sistemi sociali); 2. che nessun ambito di azione sociale può prevedere gli effetti della propria azione sugli altri ambiti né può prevedere gli effetti dell'azione di altri ambiti sul proprio, il che determina 3. che la progettualità (e la violenza) del soggetto moderno si dissolvono in un pluriverso in cui possono emergere, di volta in volta, le ragioni di individui concreti che non sono (come pensa Flores D' Arcais) astrattamente liberi di produrre autonomamente il senso delle loro scelte, ma che possono scegliere fra i sensi socialmente prodotti, che possono cioè giocare l'uno contro l'altro i vincoli dei differenti codici sistemici (la «seconda natura» sociale non opera con minore cogenza della «vera» natura e la scienza contemporanea non accetta più pacificamente la separazione del mondo della necessità e del mondo della libertà: il vincolo e la possibilità, come recita il titolo di un libro di Mauro Ceruti recensito su queste stesse pagine, abitano sia il mondo naturale che quello umano). Disincanto è libertà di avere molti dei. Intorno al tavolo D'A1111unzio a Yale Antonio Porta. Una domanda iniziale a Paolo Valesio: perché proprio D'Annunzio alla Yale University? Perché Gabriele D'Annunzio e non, per esempio, Giovanni Pascoli, che in Italia è considerato più influente per la poesia contemporanea? C'è qualche rapporto con la tradizione decostruzionista di Yale, qualche rapporto con l'ermeneutica, ci sono rapporti con una certa idea di post-modem nella quale D' Annunzio si potrebbe bene inserire? Paolo Valesio. È una domanda molto importante e rispondo a due piani: primo in un modo molto semplice e secondo in un modo più complicato, perché tutti e due gli elementi coesistono. Il modo semplice - a rischio di apparire immodesto, ma in realtà è una dichiarazione di limiti - è Niva Lorenzini, Antonio Porta, Paolo Valesio che da anni io batto e ribatto su Gabriele D'Annunzio. Con questo non voglio rivendicare la mia importanza internazionale, al contrario sottolineare che l'italianistica negli Stati Uniti è fatta da cinque o sei persone, e la nostra responsabilità è che se insistiamo a lungo su un autore, i nostri perfezionandi, che sono molto seri e diligenti, lo prendono molto sul serio. Questo è il primo piano della risposta che dà l'idea di uno sviluppo, secondo me, positivo della italianistica negli Stati Uniti, però ancora artigianale, nel senso che la scelta del docente si riflette molto rapidamente su un piccolo gruppo di ricercatori. Secondo piano della risposta è invece quello che tu hai intuito, cioè il rapporto particolare con la critica americana e soprattutto di Yale. Qui insisterei su un punto centrale, usando una frase che non so nemmeno quanto sia italiana - è anglo-italiana, forse, ma si usa ormai in italiano - e cioè «revisione del canone». A me sembra di notare una specie di schizofrenia nella critica italiana contemporanea, per cui da un lato la ricezione di tutto quello che è metodologia critica - la scuola di Yale, le scuole tedesche, francesi ecc. - è velocissima ed estremamente raffinata, cioè non abbiamo nulla da imparare dal punto di vista di una ricezione e discussione di metodologie. Poi però mi pare succeda abbastanza poco quando si tratta di rivedere il canone della letteratura italiana, cioè di portare queste inquietudini, chiamiamole così, sul nostro terreno, su quelli che sono chiamati native grounds, sul nostro terreno nativo. A Yale, e in alcuni altri luoghi, si è cercato di fare proprio questo. Dunque, riproponendo uno scrittore che nella versione liceale, diciamo pure, della storia letteraria italiana, quella che predominava nella vecchia italianistica statunitense fino a dieci-quindici anni fa, non era nemmeno considerato, perché troppo moderno, troppo decadente, troppo controverso ecc. - ci si fermava a Pirandello, in sostanza - riproponendo questo scrittore è stato un modo di applicare una istigazione decostruttiva: rivedere il canone dei classici. Antonio Porta. D'altra parte, lo dico per inciso, vi è una situazione analoga per la storia della poesia del Novecento in Italia. Siamo un po', come dire, sclerotizzati, irrigiditi in certi passaggi critici che sarebbe ora di rivedere. Con una difficoltà grossa, che è rappresentata dai dialetti. Molti grandi poeti italiani del Novecento hanno scritto in lingue diverse, come è noto. Niva Lorenzini. Intanto voglio sottolineare che io lavoro in una sede universitaria - che è quella di Bologna - in cui il dibattito critico sul problema del simbolismo è particolarmente vitale - e naturalmente mi riferisco sia all'interesse di Raimondi e di Anceschi per D'Annunzio, ma anche al recente interesse di Barilli, ad esempio, per il simbolismo pascoliano. Giustamente tu dicevi: perché più D'Annunzio che Pascoli in America? Questo è il punto su cui sarebbe anche interessante discutere. Forse perché D'Annunzio, come dice Valesio, è stato di recente più portato avanti presso l'attenzione degli studenti americani che non Pascoli. Ma, ecco, proprio partecipando ai due convegni a Viareggio e alla Yale ho riflettuto intanto sui titoli che erano stati proposti: Stabat nuda aestas e Gabriele D'Annunzio. I suoi scritti, i suoi tempi. A Viareggio un motivo iniziale di grande interesse era la presenza di poeti che venivano in prima persona coinvolti a confrontarsi con D'Annunzio. Rifiutarlo, accettarlo? Ci sono state le posizioni più diverse: da Viviani che ha sot-

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