pagina 6 nella formazione; e alcuni di questi saranno i primi del periodo che punta alla ripresa del «nuovo» e sboccherà nel 90, nettamente, forse ... Ora ii discorso confonde i tempi. Nel grosso tessuto degli scritti di scelta, organizzazione di mostre, indirizzo, valorizzazione, che costituisce il volume Antipatia (Milano, Feltrinelli, 1987) sono chiari presso Bonito Oliva gli stessi elementi. E li elenco: a) i riferimenti ai teorici: Lacan è citato a p. 19, si giunge sino a p. 60 con citazioni di Nietzsche e dei concetti inoltre di nomadismo e anche di turbolenza e di fluttuazione (Prigogine), con un Benjamin a mio parere frainteso, perché proposto in una diade costante di «mito e allegoria»; b) la serie di saggi sulla maturità di alcuni artisti della Transavanguardia, con ricupero mescolato di grandi delle avanguardie recenti e passate (Grosz, Depero, Beuys, Matta, Duchamp e anche Fabro); c) e alcuni più giovani artisti sono posti in rapporto di conseguenza coll'attenzione al passato e la «citazione» della Transavanguardia. Che ha azzerato certi precedenti, qui non precisati. E che sono, diciamolo: il concettualismo, l'arte povera e altre avanguardie del 60: ciò che riappare a Kassel. Con questo primo scritto, «Alfabeta» intende contribuire al dibattito in corso su diversi nodi tv>rici del pensiero politico della sinistra, ricapitolando in particolare alcune posizioni che si sono recentemente espresse sulle pagine della rivista «MicroMega», e proponendosi di ospitare ulteriori interventi su questa tematica. << Le ragioni della sinistra» recita il sottotitolo della rivista «MicroMega», che quindi sostiene la differenza della sinistra nell'orizzonte di una modernità malinconicamente attestata sulla trincea della «democrazia reale», e rifiuta di accettare l'irreversibilità di fenomeni come la partitizzazione e la corporativizzazione della vita sociale, la professionalizzazione della politica e la non partecipazione dei cittadini alle decisioni. In un suo recente, provocatorio intervento (In morte del riformismo, «MicroMega», n. 2, 1987) Massimo Cacciari ha tuttavia messo radicalmente in dubbio l'esistenza stessa di tali ragioni. Cacciari denuncia la sostanziale identità tra il principio moderno di rappresentanza politica e la tradizione di un linguaggio della sinistra che «ritiene legittima la dimensione statuale soltanto nella misura in cui essa rappresenti-esprima il movimento, il processo della soggettività, in cui essa appaia teofania della soggettività che si va storicamente emancipando da ogni vincolo tradizionale, da ogni religio»; concezione che nasce dalla distinzione-contrapposizione fra movimenti della vita civile e potere costituito. E tuttavia, al legame che si stabilisce fra questi due fattori attraverso la rappresentazione, è oggi subentrata «l'identità confusa, caotica che si stabilisce tra una 'società civile' che è multiverso di interessi costituiti e corporativisticamente organizzati e un ceto politico che o si confonde con essi o si costituisce esso stesso a specifico, parziale interesse corporato». Secondo Cacciari lamentarsi di questa situazione appare tuttavia pateticamente assurdo nel momento in cui si è indotti ad ammettere che il linguaggio della sinistra è oggi il linguaggio politico europeo, il cui senso esiste qui e ora in quanto «formidabile sviluppo di tutte quelle forme della democrazia di massa che organizzano la volontà di potenza dei diversi soggetti: partiti, sindacati, nuove forme corporate degli interessi costituiti». In breve: il principio di rappresentanza divora se stesso, per cui ogni progetto di riforma che fa appello alla teoria e alla pratica democratiche della sinistra è inevitabilmente votato allo scacco. L'intervento di Cacciari è tuttavia eccentrico rispetto a un dibattito che si prolunga da tempo sulle pagine della rivista, e che ha avuto come uno dei principali punti di riferimento un lungo saggio di Paolo Flores d'Arcais (Il disincanto tradito, «MicroMega», n. 2, 1986) che prendeva a sua volta avvio dalla critica dell'idea di democrazia come rappresentanza di interessi, alla quale contrapponeva una concezione della democrazia come libero confronto delle opinioni disinteressate, un modello «partecipativo» ispirato alla tradizione della polis greca e alla filosofia politica di Hannah Arendt. Qui non intendo però occuparmi di questi aspetti propositivi del contributo di Flores D'Arcais, ma piuttosto mettere in luce come egli, diversamente da Cacciari, consideri la «democrazia reale» non come esito necessario del disincanto, bensì come «tradimento» del disincanto, come conseguenza dell'incapacità, da parte della sinistra, di conA più voci Non intendo affatto polemizzare (Bonito Oliva direbbe che io tengo alle ideologie, e io, allora, che il termine-concetto di ideologia è parzializzante e nero, per me). Intendo riferirmi anzi al suo come al miglior modo, oggi, di escludere le tendenze, e invece curare le individualità e le loro operazioni come singole e sempre avvicinate. Bonito Oliva non si è interessato degli «anacronisti» (Mariani in testa) con quella pittura «colta» secondo Italo Mussa che ha qualche ironia sua propria (un pennello infilato nell'ano) e tutti i suoi gessosi personaggi del passatismo trionfante. Tuttavia è la virtù degli autori che Bonito Oliva vede esclusivamente. L'altro orientamento di vaglio critico si può dire: dissidio delle correnti. È il vecchio dibattito, con schieramento di idee. Certo non distoglie dalla valutazione sulla qualità di un artista individualmente inteso; premette, solo, fattori percettivi, stilistici-linguistici, e anche semantici e contestuali, certo, in quanto non ritiene che ognuno parta da zero, come pensava Croce. Quanti settarismi ci sono stati, col dissidio delle correnti, un tempo e anche venti anni fa. Ma senza dibattito di posizioni vien meno il Novecento, e vien meno anche la storia Carlo Formenti servare e sviluppare il nucleo originario del progetto moderno. Il.«disincanto tradito», sarebbe, in sostanza, conseguenza di un punto di vista che concepisce la storia ancora in termini di necessità naturale, della convinzione che esistano «leggi» di sviluppo della società umana, concezione che induce fatalmente a ingiustificate trasposizioni delle categorie epistemologiche delle scienze naturali in campo etico. Le origini del mondo moderno coincidono viceversa, secondo Flores D' Arcais, con la rigorosa distinzione fra legge e norma, fra la necessità che governa i fenomeni della natura e il dovere che è artificialità, regola sociale che nasce dal rapporto fra individui liberi e responsabili delle loro scelte. Solo conservando questa distinzione è possibile mantenere la promessa della modernità, secondo la quale il mondo sarà il rriondo per l'individuo. Il politeismo moderno va difeso contro ogni tentazione di rifondare una «teologia politica»; il progetto politico moderno è fedele ai presupposti solo se assume alla lettera la sentenza sulla morte di Dio: l'unica fonte di senso politico sono le nostre azioni e decisioni, che devono essere concepite come libere e responsabili da sovradeterminazioni, rifiutando di elevare la necessità storica (economica, biologica ecc.) a nuovo principio trascendentale. Ma chi decide? Secondo Flores D'Arcais il soggetto della decisione dev'essere, senza equivoci, l'individuo-cittadino. La promessa del moderno non è realizzata se il soggetto Alfabeta 101 degli stili. Il dibattito è quando Filiberto Menna e Lea Vergine anni fa criticarono duramente la biennale di Calvesi. È nel rapporto fra passione del cambiamento e ricerca formale, posto da tanti artisti del dopoguerra in antitesi a Guttuso. È nel neorazionalismo degli epistemologi del 50. È nel dibattito letterario così di Pasolini coine di Sanguineti. Forse siamo stati guastati oggi dall'eclettismo, oltre che dai media? Vale ancora, e non solo nella scienza ma anche nell'arte, la nozione di «compatibilità» (Stegmiiller) che da qualche anno definisce la modellistica, valorizzando la coesistenza di teorie come puri sistemi convenienti di simulazione, nella rinuncia inevitabile a una certezza del reale? È criterio pragmatico e operativo stretto, indispensabile forse in un tale campo, oggi. Non vale dove non serve la combinazione. Dove serve distinguere, discernere, descrivere criticamente, comprendere i presupposti, inferire i nessi dal linguaggio artistico e letterario, senza alcun settarismo, ma contrapponendosi a chi per la propria ideologica neutralità tira fuori «l'arte sociale» che oggi ritornerebbe, o tira fuori al contrario che tornerebbe «il grande freddo». Si deve aiutare con precisione aperta il nuovo lavoro. politico non coincide effettivamente con quella irriducibile differenza concreta che è l'individuo. La partecipazione degli individui alla vita politica dev'essere strenuamente difesa, promuovendo il confronto delle opinioni che non vanno incanalate dalle cattive mediazioni degli interessi istituzionalizzati, quindi, promuovendo una vigorosa opera di departitizzazione della vita sociale e di deprofessionalizzazione della vita politica. Ai due punti di vista che ho appena schematicamente delineato intendo contrapporre i seguenti argomenti, telegraficamente enunciati come tesi da offrire a una discussione: 1. il disincanto radicale non è compatibile solo con un progetto di democrazia partecipativa (comunque lo si intenda: come utopia, principio regolativo o ideale normativo) ma anche, e soprattutto, con l'assolutismo moderno; 2. la vocazione «impolitica» del pensiero della sinistra dev'essere conservata e sviluppata, liberandola dalla opposta vocazione «statalista» che con essa convive; 3. il politeismo moderno non è disincanto ma una nuova forma di teologia politica che trova la sua rappresentazione più matura nell'idea di complessità, elaborata in ambito epistemologico, da assumere positivamente quale presupposto di una critica del soggetto politico senza la quale nessun progetto di emancipazione dell'individuo appare praticabile. F lores D' Arcais è tanto consapevole della difficoltà che ho appena enunciato al primo punto che mette la mani avanti, affermando che l'individuo di cui egli parla non è l'Uno stirneriano «che negli altri concepisce esclusivamente un ostacolo alla propria sovrana volonta», bensì l'individuo che «si riconosce uno tra gli infiniti altri 'uno' a lui eguali in dignità». Hanno buon gioco a replicargli sia Gianni Vattimo (Il disincanto e il dileguarsi, «MicroMega», n. 2, 1987) che Roberto Esposito (Ritorno all'agorà?, «MicroMega», n. 2, 1987); il primo affermando che «la pura e semplice rivendicazione dell'uguaglianza, se è davvero disincantata, non ha argomenti razionali da far valere contro la riduzione della realtà a puro gioco di forze», il secondo ricordando, con Canetti, che «la società di massa si genera storicamente proprio dall'individualismo 'borghese' precedente, nel senso che ne riproduce moltiplicati tutti gli stereotipi, a partire da quello della 'volontà di potenza'». La filosofia politica moderna non può sbarazzarsi della identità fra individualismo e assolutismo se non si rassegna a ridurre le sue pretese pratiche: «Fa parte di quel disincanto del mondo a cui dovremmo essere fedeli anche una certa dose di scetticismo e comunque l'esperienza della inevitabile obliquità del rapporto fra teoria e pratica» (Vattimo, art. cit. ). In altre parole: la morale disincantata e le opinioni disinteressate non hanno sempre cambiato il mondo per il meglio, né sono state esenti da esiti violenti. Non ritengo tuttavia che il problema sia quello di perseguire l'ideale di un «vero», più radicale, disincanto; al contrario: mi pare abbia ragione Esposito (cfr. l'articolo sopra citato) quando afferma che il tradimento del disincanto non consiste nel rinunciare a lottare contro i residui pre o antimoderni della nostra cultura politica, bensì nell'ignorare che esso è il prodotto del «nucleo irriducibile teologico della stessa secolarizzazione». Siamo quindi al secondo punto. Cacciari afferma che il pensiero della sinistra è «teologico», I
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