Alfabeta 101 I n una intervista del 1966, Heidegger confessava: «Non so se voi siete spaventati, ma io sono spaventato quando vedo la Terra inquadrata dalla Luna». È questo un eccellente punto di partenza, di cui ritengo meno la reazione emotiva di spavento, e più la sorpresa, lo choc suscitato nel filosofo tedesco dalla visione del nostro pianeta ripreso dal satellite lunare. Visione, fino ad avanti ieri, indubbiamente inedita tanto da giustificare a sufficienza lo sgomento come lo stupore. Per la prima volta nella storia dell'uomo, la Terra si è mostrata, si è disvelata nella sua totalità, grazie alla combinazione fra i razzi spaziali a propellente liquido e l'elefantiasi dei mezzi comunicativi. La incrociamo sopra lo schermo televisivo al termine di un breve tragitto dello sguardo; è cosa agevole indicarla col dito. Ed essa continua senza alcun intervallo a mostrarsi, a farsi vedere. Ora· l'assuefazione, se non il totale oblio, in cui è caduta simile rivelazione, è connessa ad una sua qualità di fondo. Col pianeta è ancora la cosa familiare a manifestarsi nella sua raggiunta completezza; e come tutto ciò che risulta familiare - anche la Terra sottostà allo statuto paradossale dell'intera quotidianità. La sua presenza si muove di continuo fra l'invisibilità e l'evidenza, il logoramento e il risalto, il troppo pieno e il troppo vuoto, l'esposizione da parte sua e la distrazione da parte nostra, che può toccare anche la completa dimenticanza. Così è accaduto e accade ininterrottamente a quella visione globale del pianeta, che il filosofo dell'essere e della tecnica tratteneva invece nel turbamento del proprio dichiarato spavento. Il suo oscillare fra la sorpresa e il fastidio è uno dei motivi che possono provocare immediatamente in noi l'accostamento, e quasi la sovrapposizione, fra l'immagine della Terra sospesa nel vuoto e quella di un ready made confinato in un punto dello spazio. L'operazione condotta a termine, su scala planetaria, dall'apparato spaziale e comunicativo presenta singolari affinità con gli esperimenti avviati da Duchamp nel laboratorio riservato del moderno. A cosa ci troviamo davanti se non alla messa in atto di due parallele strategie di dislocazione praticate nei confronti dell'oggetto e, di conseguenza, alla messa in funzione di un inusitato punto di vista, sempre allo scopo di gettare uno sguardo inedito sull'oggetto preso in esame? In Duchamp, assistiamo all'impiego originale dello spazio artistico come di un osservatorio, capace di mutare di segno a qualsiasi attrezzo introdotto dentro il suo campo estraniante e totalitario. Nell'universo tecnologico, assistiamo all'installazione di un osservatorio ottico nella dimensione spaziale del fuori, sia esso un satellite artificiale o il medesimo astro lunare. Mediante il suo accorgimento, Duchair-.pottiene il ready made, l'oggetto dozzinale trovato e spaesato. Mentre la tecnica, dal canto suo, trasforma la Terra in un mega ready made, in un gigantesco oggetto astrale egualmente trovato e spaesato, che si sposta davanti a noi nelle vuote distese stellari. La differenza più notevole è che il maestro dada modifica la collocazione dell'oggetto, mentre la tecnica si limita a mutare il luogo da cui l'oggetto viene inquadrato. A causa di questa espansione vertiginosa, lo spaesamento, da pratica artistica ed elitaria, è diventato un procedimento effettivo; raggiungendo e coinvolgendo l'intera Terra, esso ha acquistato un'ampiezza ecumenica. Offrendoci questo straordinario exploit, che cosa ha compiuto realmente l'apparato spaziale e comunicativo? In sostanza, esso non ha fatto che portare a conclusione il movimento costitutivo, non solo della tecnica, ma dello stesso spirito moderno. Come ha dimostrato Heidegger, questo movimento consiste nel «rappresentarsi», nel «porsi innanzi», ciò che è l'oggetto della propria attenzione. In definitiva, il tutto. Fino a ieri le singole, variegate presenze ed oggi la Terra medesima, catturata nella sua interezza da un colpo d'occhio abbracciante ed interessato, simile allo sguardo della Medusa che impietriva tutto ciò che incontrava, davanti a sé. Se la nostra è !'«epoca dell'immagine del mondo», se il «costituirsi del mondo in immagine» è quanto caratterizza il tempo moderno, ecco che l'epoca, giunta alla sua pienezza, ha saputo produrre un'immagine sintetica e continua della Terra. Siamo come riusciti a sfilare il pianeta di sotto ai nostri piedi e a collocarcelo davanti, come facciamo con qualsiasi altra cosa. Poiché è lo stare separato di fronte a noi che apre alla condizione dell'uso e del dominio, che rende possibile allungare le mani e mettere all'opera tutte le protesi strumentali che possediamo, nell'intento unanime di afferrarlo, di impiegarlo, di manipolarlo. Oggetto disponibile e sottomesso. Nostra proprietà. Nostra discarica. Bersaglio in potenza. Rumoroso mass media. Sferico super utensile. Niente altro poi che questa medesima vecchia Terra. Al numero degli elementi primordiali, dopo la terra e il mare, si è aggiunta la piena conquista di un nuovo elemento, quello aereo; ed è questa recente addizione che ha determinato la saldatura unitaria del pianeta. Come si è sostenuto con ragione, furono i cacciatori di balene a scoprire il globo terracqueo; ma occorre aggiungere adesso, che sono i voli spaziali che l'hanno disvelato. Dal momento che l'uomo ricava il suo punto di osservazione dal luogo che occupa ogni volta nello spazio, ne consegue che questo osservatorio ha subìto uno spostamento decisivo, e da orizzontale si è trasformato in un osservatorio verticale ed aereo. Incontrando il suo momento emblematico quando l'arido deserto lunare ha fatto da cornice al remoto profilo della Terra. In quella inquadratura, i rapporti astronomici e mitici che orientarono l'uomo per un numero incalcolabile di anni, dall'uomo del poleolitico all'utente della società urbana, sono apparsi d'improvviso completamente rovesciati. Risultava infatti la Terra a fare da cielo alla Luna. Cosa che accade sempre, ma il fatto sorprendente era che ci trovammo noi in grado di scorgere quell'insolito cielo terrestre. La splendida intuizione di Giordano Bruno incontrava, in quell'immagine in campo lungo, visibile conferma: «Atteso che non più la luna è cielo a noi, che noi alla luna». Anassimede di Mileto, col suo collocare l'aria infinita al principio delle cose, ha ottenuto la meglio, in un simbolico agone, rispetto all'acqua di Talete e al grande Oceano delle popolazioni del mare, ma rispetto anche alla terra, alla solidità del suolo e, dunque, nei confronti stessi di Gea dall'«ampio seno», che Esiodo, questo poeta e questo cosmogono contadino, poneva all'origine del tutto. Nel nostro tempo, Oceano e Gea appaiono infatti detronizzati e rischiano perfino di smarrire le loro chiare e mirabili caratteristiche, i confini che li tenevano ognuno nei loro ben delimitati domini, da quando si è innalzato di nuovo all'orizzonte il potere di Urano, il sovrano del cielo. La prevalenza, e quasi la vittoria, riportata dall'elemento aereo, assieme alle tecniche ascensionali e comunicative e agli strumenti ad esse collegati, finisce per attenuare, se non per cancellare, molte delle differenze che separavano gli oceani dalla terraferma. Per l'aereo e, in misura maggiore, per ogni messaggio elettronico, è irrilevante percorrere una distesa marina o una superficie continentale. Sopra una Terra dove l'elemento aereo si rivela predominante, è opportuno esaminare di nuovo i personaggi di Dedalo e di Saggi Icaro e sottolineare la distanza che separa queste due figure esemplari. Tanto più che la lòro relazione è quella fondamentale del padre e dt!l figlio, del maestro e del discepolo. A Dedalo, che incarna l'artefice mitico, imprigionato nel labirinto assieme al giovane figlio, sono escluse le vie di fuga rappresentate dalla terra. e dal mare: non gli resta che tentare audacemente l'ignota via dell'aria. Così, spinto dalla necessità, inventa l'arte del volo: impastando assieme penne e cera, appresta due paia di ali. Tuttavia due esiti diametralmente opposti segnano la loro fuga. Icaro, nel volo: le sue ali si sciolgono e incontra la morte precipitando nei flutti. Mentre Dedalo, che si mantiene alla giusta altezza, riesce a mettere di nuovo piede sopra il terreno e a salvarsi. Dunque, non è il volo in se stesso che viene punito, bensì la smoderatezza del volo icarico, che oltrepassa di troppo il quadro definito dal cerchio dell'orizzonte. Per colui che vola troppa in alto, non c'è né salvezza né felicità del ritorno. e on questa dislocazione dall'acqua e dalla terra all'aria, ci troviamo forse sulla soglia di una nuova rivoluzione dello spazio? Essa verrebbe dopo la rivoluzione spaziale compiuta nell'epoca barocca, determinata tre secoli fa dal capovolgimento copernicano, dalla formulazione di uno spazio vuoto ed infinito, e dalla scoperta del «nuovo mondo», che arrivò a modificare da capo a fondo la mappa del globo. A queste cause bisogna aggiungere lo spostamento del centro attivo del mondo dal chiuso delle terre europee all'apertura e alla fluidità degli oceani. Di tutto questo ci ha parlato, in modo serrato e smagliante, Cari Schmitt, abbozzando anche, in modo non affatto sistematico, una griglia di massima al fine di individuare che cosa propriamente sia una rivoluzione spaziale. Essa non sembra consistere tanto in una unitaria concezione che arrivi a racchiudere dentro di sé ogni campo del sapere e dell'attività umana, quanto in una nuova sensibilità e in una nuova immagine, comprendente assieme la Terra e il cosmo, che venga ad inquietare «tutte le forme d'esistenza, tutte le specie delle umane forze creative, arte, scienza e tecnica». Quali sono allora le novità che si candidano a porsi, oggi, all'origine di una nuova rivoluzione spaziale? Il punto di riferimento basilare resta sempre il grande quadro astronomico: in tal caso, bisogna precisare che non è certo mutato lo spazio copernicano, ma che è mutata la nostra collocazione all'interno di esso. Da una collocazione terrestre, contrassegnata dalla linea orizzontale, dalla stabilità e dal limite periferico, siamo passati ad una collocazione aerea, verticale e dinamica. Tutte le altre novità o si presentano come specificazioni interne di questa nuova collocazione o discendono direttamente da essa. Esse sono: la conquista dello spazio aereo, che non dispone di contorni netti come lo spazio continentale e marino e che si trova in una maggiore contiguità col cosmo. Lo sguardo che, riuscendo a stringere sotto di sé la totalità del globo, possiede il suo osservatorio nella dimensione del fuori. Il centro di gravità dell'intero pianeta che, spostatosi verso la sua periferia, mette capo ad uno spazio privo di equilibrio e del tutto sbilanciato. L'ultima novità riguarda infine da vicino l'inquadratura ottica, l'angolazione visiva, ed è possibile chiuderla in una formula compendiaria: è l'ingresso della Terra nel suo «stadio dello specchio». La grande novità è che la Terra è arrivata a vedersi, a specchiarsi, ad incontrare il proprio doppio, ventiquattro ore su ventiquattro ore. In una dilatazione gigantesca dello specchio, la Terra medesima, sdoppiandosi, produce l'immagine di se stessa, schiacciata dentro la logora superficie di un fotopagina 39 gramma. Per questa ultima novità, possiamo parlare forse di un ingresso dell'intero pianeta nella propria fase narcisistica, nel corso della quale la Terra guarda la Terra, in una mescolanza di disinteresse e di complicità, in una condizione di distanza e di vicinanza? È questa una ipotesi che ci consentirebbe di procedere per la strada dei confronti. Così è probabile che, approfondendo la sindrome narcisistica della grande ritrattistica della fine dell'Ottocento, riusciremmo per lo meno ad accostarci al presente stadio dello specchio della Terra. Nei loro autoritratti, Van Gogh e Munch si mostrano ad un tempo spaventati, paralizzati ed eccitati in maniera morbosa dalla rivelazione del se stesso apparso sopra la tela. Sembrano scavalcare sia il riconoscimento del proprio volto, della propria identità, come l'amore, la complicità del due, per esporsi in modo esclusivo alla estraneità e alla vertigine del terzo sconosciuto. Particolarmente nei suoi autoritratti allucinati, il pittore olandese si mostra diviso fra la tentazione di gridare al soccorso e l'impulso di scagliarsi contro l'estraneo che gli è emerso d'improvviso di fronte, come a tradimento. L'aggressione o il grido: superata l'indifferenza e l'atonia, non sembra questo l'atteggiamento che manifesta la Terra mentre si specchia in se medesima. L'arte visiva rappresenta, in ogni transizione cruciale, uno specchio privilegiato della nuova coscienza dello spazio che si va elaborando. In tal caso, in quale misura viene registrata dagli artisti l'attuale rottura del quadro terrestre, questa condizione di spazio capovolto, ad un tempo estraniato e sdoppiato, proiettato nel fuori e da questo medesimo fuori scrutato, tallonato, spiato? La serrata linea dello spaesamento, da Duchamp a De Chirico, da Magritte a Manzoni, si presenta assieme come un sintomo e come una chiara anticipazione. Nella sua disparata ricchezza, essa chiude in emblemi questo moto di dislocazione, che, con spinta centrifuga, sta sradicando la totalità delle cose che popolano il globo. Nella collisione dei corpi astrali di Magritte e nel «Sode du monde» di Manzoni, lo spaesamento ha raggiunto una ampiezza planetaria. L'artista italiano ha dotato di una base il mondo, innalzandolo con un gesto ironico e mentale sopra un illusorio e niente affatto solido piedistallo. Incontriamo un gran numero di indicazioni spaziali, assieme ad un embrione di concezione generale, in forma non affatto sistematica, nei combine-paintings e nei silks screens di Rauschenberg, comprese anche quelle straordinarie e attualissime tavole da lui eseguite per illustrare l'«Inferno» dantesco. È come se, annodando assieme una molteplicità di oggetti e di immagini egualmente trovati, il grande neo-dadaista avesse portato allo scoperto la spazialità implicita in ogni operazione di spaesamento. Ciò che emerge, come dopo una devastazione, è uno spazio privo di ancoraggio come di orientamento, nel quale risultano abolite le categorie oggettive del basso e dell'alto e, dunque, della terra e del cielo; e, assieme all'ancoraggio, che è sempre un ancoraggio terrestre, appare pure sospesa la forza costrittiva della gravità. Nei suoi lavori gremiti e trascorrenti, percorsi da differenti correnti di forza, tutte le presenze che li compongono, sembrano muoversi ed allacciarsi in uno stato di imponderabilità, disposte sempre a capovolgersi e a mutare direzione. Di punti di riferimento ne possiedono due soli: uno, centripeto ed implosivo, in loro stessi, nella porzione materiale di spazio che occupano transitoriamente, e l'altro riferimento, di ordine opposto, dispersivo e centrifugo, pronto sempre a stringere nuove relazioni con qualsiasi altra presenza
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