I Alfabeta 101 smo - continuiamo a pensare che il dialogo dell'arte non è sempre a lieto fine. Quell'arte che da un secolo a questa parte (anche se oggi forse in declino) ha cercato di rinunciare alla propria vocazione rappresentativa - parlando non-a-tutti ma solo a chi ne è complice - non è solo gioco, simbolo e festa. Scherzando un po', è stata anche un giocare a guastare la festa; o un far festa (piuttosto che dolersene) per la perdita del simbolo; o anche fu simbolizzare la fine del gioco ecc. Per esempio, se consideriamo «gadamerianamente» la ripresa, fatta da Picasso e dagli altri cubisti, di forme e tratti dell'arte africana, cioè di un'arte il cui contesto vitale ci è del tutto estraneo, ciò che emerge è la «comprensione», da parte del fior fiore I pacchetti di Alfabeta dell'arte europea di allora, di forme a noi lontane. Eppure possiamo vedere, invece, l'impresa cubista come un modo per introdurre nell'orto coltivato dell'arte europea l'enigma «barbarico» di forme altre, a noi incomprensibili (magari bellissime per noi, ma non nello stesso senso in cui sono belle per i loro destinatari). In particolare, l'esotismo così ripreso (come la grezza musica popolare russa ad opera di Strawinskij) rimanda ad una nostalgia per la Civiltà come Gemeinschaft, come «barbarica» solidarietà conviviale, da parte di noi, egoisti cittadini di una società frammentata, individualistica, secolarizzata, non più culturalmente solidale. Di converso, ciò che ci lascia alquanto reveurs sulla grandiosa ripresa gadameriana del senso del «classico», è il fatto che nel frattempo siamo stati impressionati, e talvolta anche affascinati, dagli studi storici e filologici che ci hanno introdotto ad una comprensione del cosiddetto mondo classico - in particolare dei Greci - come anch'esso in qualche modo «barbarico», cioè per noi opacamente altro. Non per svalutarlo, per criticarlo, per espellerlo definitivamente dal nostro patrimonio tradizionale - ma anzi per stabilire con questo mondo di testi un nuovo amore. Questo amore (suscitato dai !'avori di Dodds, Vernant, Détienne, Veyne ecc.) nasce proprio da una paradossale umanizzazione dei testi antichi, nella misura in cui sospendiamo la nostra appropriazione nei loro confronti, in quanto condividono con i nostri testi una pagina 35 certa insensatezza ed alienazione. «Barbarizzare i classici» è certo, sempre, un modo di moderna appropriazione: ma in quanto, come di riflesso, essa ci rinvia ad una barbarie e ad una alterità che è in noi, e che come tale sfugge alla nostra appropriazione. Insomma, l'ermeneutica gadameriana è tradizionalista nella misura in cui non cerca di incontrarsi davvero con l'altro, con questo ospite inatteso alla festa dialogante. Certo, perché l'ospite inatteso giunga, è necessario che ci sia già dialogo, e che la festa sia stata già organizzata - ma è anche importante che, per quanto inatteso, l'ospite venga riconosciuto proprio come inatteso. Gli obiettividelcinema _DudleyAndrew Concepts in Film Theory Oxford University Press, 1984 Dudley Andrew Film in the Aura of Art Princeton University Press, 1984 Edoardo Bruno Film come esperienza Roma, Bulzoni, 1986 pp. 140 lire 13.000 Maurizio Grande Abiti nuziali e biglietti di banca Roma, Bulzoni, 1986 pp. 266 lire 23.000 David Bordwell Narration in Fiction Film University of Wisconsin Press, 1985 David Bordwell, Janet Staiger, Kristin Thompson The Classical Hollywood Cinema Columbia University Press, 1985 L'image, l'imaginaire «Hors Cadre» 4, 1986 Cinéma & Narration «Iris», 7, 1986. e he ne è della teoria del cinema? E se esiste ancora, quali sono i suoi modi e i suoi andamenti? Quali i suoi obiettivi e le sue funzioni? Quale il suo senso? Prendiamo la questione un po' da lontano. A metà degli anni sessanta, Christian Metz osservava come al di là dell'aneddotica giornalistica delle monografie storiche e della critica in senso proprio, i discorsi che volevano affrontare il cinema in quanto tale si dividevano in due grandi classi. La prima comprendeva tutti quegli approcci «interni» al fenomeno che, dopo averne evidenziato l'appartenenza al dominio dell'arte, cercavano di metterne in luce la specificità. La seconda comprendeva invece quegli approcci «esterni» che pensavano al cinema come ad un fatto oggettivo di cui conviene distinguere partitamente le dimensioni psicologiche, sociologiche, economiche ecc. Metz, con questa distinzione, coglieva lucidamente la linea di scontro allora attiva: l'esistenza da un lato di un discorso che voleva essere estetico, e che in realtà finiva con l'essere essenzialista; dall'altro lato di un discorso che voleva essere scientifico, e che in vista di ciò sposava la causa àel metodico. Ricordiamo brevemente le caratteristiche di questi due discorsi. L'uno considerava il cinema come un mezzo d'espressione, attraverso cui si manifesta una personalità, un'ideologia, una cultura; l'altro considerava il cinema come una realtà oggettiva, da esaminare nelle sue componenti tangibili e nel suo funzionamento effettivo. Ancora, l'uno cercava di arrivare a definire la natura ultima del fenomeno per poterne esaltare la peculiarità; l'altro cercava piuttosto di Francesco Casetti ricavarne una serie di osservazioni, da confrontare tra di loro, da usare come spunti di lavoro, e da verificare attraverso nuovi esperimenti. Inoltre l'uno tentava di abbracciare il cinema nella sua totalità, quasi a volerne esaurire con una sola occhiata tutti i lati; l'altro tentava invece di distinguere le diverse prospettive da cui esso va colto, ciascuna connessa ad un particolare tipo d'occhiata, e perciò ad un particolare metodo di indagine. Infine l'uno, dopo aver individuato le caratteristiche di fondo del fenomeno, ne traeva motivo per suggerire delle linee di tendenza da seguire; l'altro, esaminata la ricorrenza di certi dati, ne ricavava delle leggi con cui spiegare quanto viene accadendo. Si sa che negli anni seguenti a quelli in cui Metz avanzava quella sua osservazione, il discorso metodico ha avuto la meglio. Fino a farsi qualche volta ingombrante: il bisogno di elaborare degli strumenti di indagine ha finito spesso con il prevalere sul piacere di esplorare dei fatti; i modelli da applicare sono diventati spesso più importanti dei risultati derivati dalla loro applicazione. Ma ecco che, proprio a causa del- !' «ingessatura» cui porta un metodo usato per se stesso, si viene disegnando una nuova linea di confine. A metà degli anni ottanta, e in un libro costruito su otto analisi di film (Film in the Aura of Art), Dudley Andrew osserva come oggi si scontrino due nuovi tipi di discorsi: da un lato ci sono le teorie che affrontano il cinema come una riserva di esempi cui applicare delle categorie già perfettamente sistematizzate - siano esse categorie semiotiche, psicoanalitiche o ideologiche; dall'altro ci sono le teorie che pensano al cinema come ad un luogo di interrogativi con cui entrare in sintonia e a partire dai quali formulare criteri di osservazione sempre più avanzati. Vediamo un po' meglio le caratteristiche di questi due tipi di discorsi, il primo prosecuzione diretta dell'approccio «scientifico», il secondo tentativo di rompere uno schematismo incombente e di recuperare una maggior larghezza di orizzonti. L'uno vede nel cinema un campo ben definito, afferrabile sia nei suoi singoli aspetti che nei suoi contorni di massima; l'altro vi vede invece una realtà aperta, irriducibile ad una formula fissa, e pronta a rivelare facce nascoste, zone buie, pieghe impreviste. Ancora, l'uno procede attraverso prospezione, rilievi, misurazioni, sondaggi; l'altro attraverso una sorta di colloquio tra lo studioso e l'oggetto del suo studio, un colloquio capace di modificar~ progressivamente entrambi i protagonisti. Inoltre l'uno . preferisce applicare al cinema dei criteri di osservazione già rodati, la cui efficacia non dipende dal tipo di fenomeno investigato; l'altro si impegna a sperimentare delle categorie che, pur senza essere ad hoc, vengono tuttavia apertamente influenzate dalla particolarità del campo di indagine. Infine l'uno punta a restituire un quadro il più possibile esaustivo della realtà osservata, perlomeno rispetto alla prospettiva scelta; l'altro sa che le sue domande sono inesauribili, e nondimeno continua a formularle, approfittando di ogni cenno di risposta. Possiamo ben riassumere quest'insieme di caratteri dicendo che il fronte che si viene disegnando vede da una parte un approccio fondamentalmente analitico-deduttivo, dall'altra un approccio interpretativo o ermeneutico. Dunque dopo un discorso essenzialista opposto ad un discorso scientifico, abbiamo oggi una mera applicazione di categorie opposta ad una volontà di interrogazione dell'oggetto. È indubbiamente la seconda tendenza ad apparire oggi come la più promettente. Non necessariamente antimetodica, essa fa della qualità delle domande, più che della pertinenza dello strumento, il suo punto di forza. N aturalmente, le preoccupazioni .e gli accenti mutano da studioso a studioso. Dudley Andrew in Concepts in Film Theory spende ben 230 pagine per ricostruire il dibattito americano con le diverse «parole d'ordine» che vengono organizzando, l'osservazione del campo e la discussione tra gli studiosi, dalla nozione di rappresentazione a quella di significazione, da quella di figurazione a quella di identificazione, fino al problema della valutazione e a quello del desiderio. Noi non possiamo che puntare a qualche brevissimo prelievo, privilegiando solo i punti emergenti. Abbiamo accennato all'area americana, oggi forse la più interessante. Qui le domande che si rivolgono al cinema fanno riferimento soprattutto alla sua storia. Lasciamo ovviamente da parte le semplici ricostruzioni documentarie: pensiamo a ricerche come quelle condotte da David Bordwell. In esse non c'è una semplice applicazione di strumenti (soprattutto socio-semiotici) a delle situazioni la cui identità è data in partenza: al contrario si interroga la complessità dei fatti per vedere ciò che è irriducibile a degli schemi o a dei modelli consolidati. Il risultato è di mettere in questione certe categorie di larga diffusione, ma non sempre di sicura consistenza, come quelle di cinema narrativo e di cinema classico. Aggiungiamo che ciò avviene in un quadro di ricerca assai strutturato: in questo modo il gioco di messa a fuoco e di continua sfuocatura consente di evitare la semplice somma di dati senza pregiudicare la comprensione del periodo in esame nel suo insieme. Più esplicito ancora il testo di Dudley Andrew. In Film in the Aura of Art egli affronta otto film che in qualche modo hanno fatto la storia del cinema in quanto arte; li affronta attraverso una ricognizione minuziosa, pronta a convocare più metodi senza farsi mai ridurre ad essi, e decisa a recuperare di questi testi la loro concretezza di eventi; e li affronta interrogandoli, e interrogandosi, sul senso che ha il termine arte nel cinema, sul ruolo che vi svolge l'unicità di certi fatti, sulla funzione che ricopre l'anomalia rispetto agli _standard consueti. La conseguenza è di far scontrare storie e storiografie, oggetti osservati e criteri d'osservazione: con qualche piccolo brivido, e qualche soddisfazione. Passiamo velocemente alla Francia. Qui troviamo una più robusta tradizione analitica, ma anche un maggior allenamento alla messa in discussione dei metodi. La specificità tuttavia è che a fianco del lavoro dei singoli, opera da sempre il lavoro di grup- .pi. Segnaliamo perciò due riviste: «Iris», animata da Jacques Aumont, Roger Odin, Jean Paul Simon e Mare Vernet; e «Hors Cadre», diretta da Michèle Lagny, Marie Claire Ropars e Pierre Sorlin. La prima, dopo aver affrontato temi come la parola nel cinema (n. 5) e l'effetto Kulesov (n. 6), dedica il suo ultimo numero a cinema e narrazione. Si tratta di un'eccellente occasione non solo per rivisitare alcune nozioni tradizionali come quella di diegesi (Branigan), o personaggio (Vernet), ma anche per affrontare un nodo emergente, quello della capacità o della responsabilità dello sguardo nell'organizzare il racconto (Bellour, Sjogren, Dagrada). «Hors Cadre», che riserva l'ultimo numero, il 5, al cinema nella scuola, esplora nel precedente un'altra nozione tradizionale, quella di immaginario. Anche qui il concetto viene messo alla prova facendolo scontrare con delle situazioni concrete, con dei casi che fanno problema. In più c'è il particolare metodo di lavoro della rivista, che consiste nel giocare sulla pluralità di discipline che fanno uso del concetto, fino a produrre un continuo spostamento, un'incessante deriva. Passiamo infine all'Italia. Stiamo vivendo una decisa contrazione nella pubblicistica cinematografica, come anche denuncia Lino Micciché nell'ultimo repertorio bibliografico dedicato ai libri del settore e pubblicato dalla Provincia di Pavia. La teoria non gode più degli spazi di una volta. Tuttavia, per limitarsi agli ultimi mesi, ci sono perlomeno due testi che si inseriscono in quel riaggiustamento di misure di cui abbiam detto. Il primo è il libro di Maurizio Grande dedicato alla commedia cinematografica: questo genere, anziché essere sottoposto a autopsia, diventa qui l'occasione per riproporre alcune domande ricorrenti, quali la raffigurabilità del reale (su cosa si fonda la rappresentazione?) o il valore sociale di certe figure simboliche (in che senso si può parlare di società tragica e di società comica?). Il secondo è il libro di Edoardo Bruno: vi si affronta il rapporto tra schermo e spettatore (un tema in questo momento frequentato: si pensi agli eccellenti lavori di Roger Odin), ma lo si fa recuperando una riflessione scarsamente presente nelle nostre teorie cinematografiche, quella fenomenologica. Bruno ricava dal suo riferimento non un dispositivo disciplinare, ma appunto delle questioni «di qualità»: ed eccolo infatti interrogarsi sul contributo che il film chiede a chi sta in sala, sulla specularità e sull'alterità introdotte dallo schermo, sull'irriducibilità dell'esperienza della visione ecc. La rassegna è del tutto sommaria: serve solo ad illustrare quanto si diceva all'avvio. Comunque concretezza nell'esplorazione e densità delle domande: se la teoria del cinema cercava nuove misure, è attorno a questi due snodi che le ha trovate.
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