Alfabeta - anno IX - n. 101 - ottobre 1987

Alfabeta 101 cioè in un suo facile ennesimo successo, in un trofeo di caccia erotica frettolosamente conquistato e dimenticato. Quella relazione lo intriga anche nell '«essere», in quanto la donna, testarda, silenziosa, tenace lo irretisce, né manca di far scattare in lui i meccanismi di colpa. Ma forse l'invenzione più bella di Soldati è di far sparire nel nulla quel personaggio, lasciandolo allo stato di larva che inquieta i. sonni e i sogni del protagonista, un'assenza, un buco nero che invano egli cerca di Gina Lagorio Golfo del paradiso Milano, Garzanti, 1987 pp. 174, lire 19.000 Giuliana Morandini Angelo a Berlino Milano, Bompiani, 1987 pp. 200, lire 18.000 D ue scrittrici, Gina Lagorio e Giuliana Morandini: molto diverse tra loro. Eppure, a leggere i due romanzi recentemente pubblicati, Golfo del paradiso e Angelo a Berlino, non è difficile trarne il segno di alcune affinità, forse meno di superficie di quanto a prima vista potrebbe apparire. Nell'uno come nell'altro, infatti, è il paesaggio che si pone all'attenzione del lettore come componente essenziale della costruzione narrativa: in Lagorio quello assolato della Liguria, in Morandini quello grigio della Berlino occidentale. Dietro queste scelte, rispettivamente, vi è una cultura, e, se si vuole, anche una cronaca, o storia, personale. Come non pensare agli studi su Sbarbaro di Lagorio, alla costante «mitteleuropea» che circola insistentemente nell'opera creativa e negli scritti critici di Morandini? Ma ancora: protagonista di Golfo del paradiso è un vecchio pittore; di Angelo a Berlino una giovane studiosa di arte, e più precisamente di «archeologia urbana», intenta a ricercare, attraverso i segni lasciati nell'architettura, la storia della città, e quasi la sua «anima». Arte e vita così vengono a mescolarsi in un nesso profondo, e questo nesso finisce per incidere, non solo metaforicamente, sugli stessi itinerari esistenziali dei personaggi trascelti. Si vuol dire che è da questa atmosfera «colta», «estetica», che vengono contrassegnati gli atteggiamenti affettivi dei personaggi, e persino i loro gesti, il loro modo di muoversi e di comunicare - non solo attraverso la parola - tra loro. E il paesaggio, appunto, inerisce in maniera non secondaria a questa modalità di comunicazione non verbale, è parte integrante della sottile rete dell'interscambio, degli equilibri, o dei punti di fragilità, nei rapporti reciproci. Ma veniamo allo specifico. Al centro del romanzo di Gina Lagorio è un pittore, Michele, che vive, nella casa del Pettirosso, a Portofino, la sua estrema stagione. Con lui è la moglie Giulia, una straordinaria figura femminile, trepida nei riguardi del marito e insieme sempre, in certo senso, sulle difensive p'er mantenere intatta, contro il rischio di farsi interamente assorbire dai sentimenti, la propria personalità. Il pittore ha un ·desiderio: ritrovare un quadro di moltissimi anni prima, Silenzio a Paraggi, direttamente connesso all'amore per Giulia, e del quale non conosce le sorti, anche se sospetta che non sia andato lontano. Lo aiuta un amico, Gibba, solerte e faccendiero; ma soprattutto lo aiuteranno il giovane nipote della moglie, Paolo, e la I pacchetti di Alfabeta riempire, attraverso una quéte, non ansiosa e prorompente, ma anch'essa tenace e sottilmente insinuante, come è nella natura di Olga. Del resto, Soldati è abbastanza consapevole del valore di quest'arma dell'assenza, al punto di citare nel corso del romanzo un suo autorevole predecessore nella medesima arte, il Calandra, che nel suo noto romanzo La bufera ha avuto il coraggio di far sparire fin dalle prime pagine il protagonista maschile, senza più darne notizie; e di chiudere la storia sull'eccidio dei protagonisti superstiti. Il Paseo de Gracia del titolo è la nota via barcellonese che appartiene alla scenografia turistica di Soldati, senz'altro compiaciuta, ostentata, e quindi in buona misura irritante, dove tuttavia il protagonista è condotto a fare i conti con se stesso, coi propri sogni e incubi. Egli infatti la percorre, col presentimento che Olga gli possa riapparire da un momento all'altro, così come l'ha cercata e ritrovata nel lavoro onirico notturno. Egli giunge al punto di voiScrittrici sua fidanzata/ragazza, Margherita, dalla quale Michele si sente vagamente attratto, suscitando in Giulia un moto intimo di gelosia. Alla fine la ricerca del quadro, soprattutto per merito delle femminili astuzie di Margherita, è coronata da successo: il pittore, commosso, lo regala alla ragazza, promettendo di «firmarlo» il giorno delle sue nozze con Paolo. Una trama, come si vede, lieve; ma è una levità che, ben lungi dal segnare un limite del romanzo, ne costituisce l'asse portante narrativo e stilistico costruito con grande sapienza da Lagorio. Se infatti si dovesse adoperare, per Golfo del paradiso, una denotazione riassuntiva, questa sarebbe certamente la «grazia»: una «grazia» che chiamerei mozartiana, per il felicissimo intreccio di gioiosità e di malinconia, di affettività e di riserbo, e pudore. Non è casuale perciò che il libro si apra su un paesaggio di uccelli, posti in difficoltà da una imprevedibile nevicata, ma amorosamente nutriti da Giulia: un'apertura, proprio nel senso musicale di «ouverture», che dà il leit-motiv alla tonalità della intera narrazione, il cui filo segreto è rappresentato, in larga misura, dalla intensa componente «materna» che è al centro delle modalità affettive, e dello stesso comportamento di questa donna. Ho scritto, volutamente, «paesaggio» di uccelli: con i fiori, le luci, le ombre, i colori, gli scorci di aria, di cielo, di mare, il paesaggio ligure irrompe infatti nelle pagine del romanzo e sembra avvolgere, come un alone luminoso, le figure umane che in esso si muovono, ne segna di una costante le variabili sfumature di umore. Quasi emblematicamente, si potrebbe attribuire all'esito felice di questa narrazione di Gina Lagorio quanto ella fa affermare a Margherita, del quadro ritrovato: «Sai, ti devo dire che c'è del viola. Tra terra mare e cielo, come una nuvola, o un'aria tesa, che li fonde». L a prima pagina del romanzo di Giuliana Morandini, Angelo a Berlino, ci parla di un confine, di una frontiera: quella segnata, a Berlino, dalla divisione in due della città e della Germania. Erika, la protagonista, questa frontiera l'ha già varcata molte volte: adesso dovrà fermarsi qualche tempo a Ovest, per una ricerca sulla architettura di ieri e di oggi, e, se vi riuscirà, per guardare da vicino alcùne partiture di Brahms, le cui parti strumentali erano a Est, quelle vocali a Ovest: un altro simbolo, o segno, della ferita anche culturale, inferta dalla divisione. Ma un'altra ferita, questa personale, affiora a tratti nella memoria della ragazza: la sorella Ulrike è morta, a causa di una pallottola vagante, su quella frontiera. Ma Erika lascia che siano i fatti a parlare; da parte sua non vuole farsi troppe domande. Al contrario, accetta la realtà così come è andata configurandosi: anche se certo non le sfuggono - come all'angelo di Walter Benjamin ricordato in esergo al libro - le macerie di cui è composto il passato; e, come accade all'angelo, una forza irresistibile la spinge verso il futuro. A questa forza ella si affida, in una apparente abulia che la iI)duce a vagare senza una meta, ad accostarsi a una ragazza turca incontrata sull'autobus, a seguirla a casa sua, a lasciarsi scambiare per una girovaga, p<,lgina19 tarsi più volte di scatto, nella speranza di vederla materializzarsi quasi per miracolo, oppure crede di riconoscerla in qualche profilo tra la folla. Ma per fortuna, delle sorti del romanzo e della gratificazione intellettuale di noi lettori, l'incontro non avviene, non c'è agnizione, l'assenza afferma il suo vuoto beante e inquietante sull'intera «storia», resta ad affliggere, e a riscattare, la vicenda del nostro eroe, che pure chiude banalmente rifugiandosi tra le braccia accoglienti ma insapori della famiglia. per una sbandata. Anche il suo riferimento, colui al quale era stata indirizzata per le proprie ricerche, Leonard, in prima istanza sembra mostrare «disinteresse per ogni cosa». Ma via via, le «cose» sembrano mettersi, almeno parzialmente, a fuoco. Leonard, nel passato, aveva conosciuto la madre di Erika, Sophie; e Ulrike, la sorella morta, si era recata spesso da lui. Vaghi fili di ragno affondano in un passato, marginalmente comune, ne fanno baluginare bagliori: le guerre, la Polonia, il Brandeburgo, i piccoli Stati tedeschi, il lento procedere dell'unificazione sono parte, anch'essi, di questo passato comune. Come lo è la crescita di Berlino, l'opera di Friedrich Wilhelm di Prussia, il progetto architettonico dell'architetto Karl Friedrich Schinkel, che dette forma alla città nei primi decenni dell'Ottocento. In questa ragnatela Erika rischia di rimanere invischiata per sempre; a sottrarvela, lentamente, faticosamente, è la vita, emarginata ma ricca di speranze, dei giovani che, entro la città-vetrina dell'Occidente, affrontano la realtà dei poveri, degli immigrati, dei non-integrati. Occupano e riadattano gli edifici semidiroccati, mettono in piedi spettacoli nei cortili, trovano solidarietà in qualche professore universitario cui non piace - come all'architetto Thomas - «stare chiuso con i libri e i tavoli da disegno». Ed è con Thomas che Erika, lentamente, faticosamente, troverà l'amore. Sulla scissura delle due Germanie si è scritto non poco, dall'ormai lontano Congetture su Jakob di Uwe Johnson, al più noto ILcielo diviso di Christa Wolf. Erano libri nei quali la lacerazione si presentava come più immediata, il taglio ancora fresco. Giuliana Morandini ha elaborato le sue pagine imprimendo ad esse lo spessore particolare della memoria, intrecciando passato e presente in un nodo fitto di implicazioni. Anche qui, come nei suoi romanzi precedenti, I cristalli di Vienna, Caffè Specchi, la continuità della storia emerge attraverso un percorso non lineare, entro cui gli eventi si ricompongono pazientemente attraverso uno strato di nebbia che, inizialmente, non lascia intravvedere che squarci, frammenti. Non è la storia, certo, dei libri di testo, ma quella che incide direttamente sulla sorte degli uomini e delle donne che ne vengono attraversati e plasmati: non senza che un varco rimanga aperto all'individualità, nella forma dell'attenzione sempre tesa al rapporto con l'altro, raggiunto come per una cauta marcia di avvicinamento, tra dubbio e sospetto, non disgiunta da una ferma volontà di incontro e di chiarificazione interiore. Così, questa scrittrice colta e raffinata, ci introduce ancora una volta in un mondo in cui è saggezza, come leggiamo in Angelo a Berlino, sforzarsi di «custodire l'angoscia», senza illusioni, ma anche, e forse soprattutto, senza mai abbandonare quel filo di speranza che, forse, potrà trovare, come in questo libro, un esito, per provvisorio che possa sembrare.

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