Alfabeta - anno IX - n. 101 - ottobre 1987

pagina 18 I pacchetti di Alfabeta Alfabeta 101 Destini Lucentini & Fruttero Il colore del destino Milano, Mondadori, 1987 pp. 182, lire 20.000 Mario Soldati El Paseo de Gracia Milano, Rizzoli, 1987 pp. 269, lire 22.000 I I grande successo di popolarità raggiunto dalla coppia Fruttero e Lucentini induce ora i due autori a sostare Unmomento e a curare di più la loro immagine letteraria, con un grado maggiore di rispetto verso i canoni usualmente dominanti nell'ambito della critica. In pratica si tratta per l'uno di essi, Lucentini, qi recuperare i buoni titoli di un passato «sperimentale»; e per entrambi, di interrompere per un momento quella scomoda collaborazione «a quattro mani» che è un insulto, appunto, al canone dell'autenticità e del valore individuale. Infatti, se Lucentini ci offre, in questo curioso volume, un racconto del 1964, subito dopo il compagno, Fruttero, confessa che un racconto tanto più recente, Ti trovo un po' pallida, esce per intero dalla propria penna, offrendo così lo spunto ai commentatori per tentare di scindere le due _personalità e di assegnare le parti rispettive all'interno dell'impresa unitaria. Infine, il terzo racconto, Il colore del destino, prodotto solo pochi mesi fa, esprime di nuovo la collaborazione congiunta, ma a un livello di particolare sofisticazione, come se, dopo il bagno nell'autenticità e nel recupero dei rispettivi caratteri, i due si fossero proposti di elevare, comunque, lo standard del prodotto d'insieme. Chi scrive queste righe ha già avuto occasione più volte in passato di dire tutto il bene possibile di Notizie degli scavi, il rac- • conto steso appunto dal solo Lucentini nel 1964, ma idealmente riconducibile al clima dei tardi anni quaranta e dei primi cinquanta, in cui in effetti egli ci aveva dato due altri racconti del tutto simili, La porta e I compagni sconosc1ut1: gioielli perfetti, espressioni di una rara sintesi tra due esigenze diverse: collocarsi in un universo di esperienza «bassa», così da reagire duramente contro il clima «bellettristico» che si era stabilito da noi tra le due guerre (ermetismo, frammentismo, elzevirismo); far entrare in gioco la realtà nuda e cruda, sia nei temi che nelle forme linguistiche; ma nello stesso tempo evitare che un tale «effetto realtà» venisse deviato lungo il corso infausto del neorealismo. La deviazione neorealista si compiva se e quando l'autore non riusciva a mettersi in causa, e manteneva suo malgrado una distanza rispetto all'universo «basso» narrato, attribuendolo a classi inferiori e disagiate (contadini, operai) di cui, malgrado ogni buona volontà, lui stesso non faceva parte; da cui un atteggiamento compiaciuto, di distanza, di cattiva coscienza, di caduta arcadica; il che poi valeva a chiudere ancor più nei lacci del ritardo sociale e linguistico i membri delle classi subalterne, in luogo di affrettarne l'emancipazione; rinunciando anche a cogliere la trasformazione in atto nella nostra stessa società, sempre più «industriale» e sempre meno agraria. Rischi, questi, che non incombevano sul linguaggio di Lucentini, il quale non ricorreva al Renato Barilli dialetto (tipica espressione dell'inferiorità sociale), bensì a una lingua d'uso, strapazzata, tirata via, come in fondo ciascuno di noi parla nelle mille occasioni corsive dell'esistenza; e come in particolare la usa qualche soggetto «candido», tagliato fuori dalla vita per decadenza personale, e quindi in possesso di larghi margini di ozio per guardare le cose «con altri occhi». Ecco così il protagonista del racconto, il «profes- • sore», come viene chiamato con qualche intento ironico dalle donne di una «pensione», di cui è divenuto modesto ma prezioso factotum. Forse quell'epiteto ricorda una lontana dignità intellettuale che era in lui, da cui, forse, egli è stato espropriato da una «malattia mentale», o da un attacco di senilità precoce. Certo è che ora egli ci appare regredito a una condizione «candida», ma col conseguente vantaggio di poter offrire a se stesso, e a noi di conseguenza, una serie di magnifiche epifanie, nutrite di circostanze marginali o da nulla, prive d'altronde di ogni belluria letteraria perché pur sempre colte sul filo di quella straordinaria lingua «povera», magra, stenografica. Q uanto a Fruttero, a giudicare dal racconto Ti trovo un po' pallida, che dichiara essere interamente di suo pugno, dovremmo accreditargli un opposto stile «alto», quale può essere colto, quasi col registratore, sulla bocca di un membro delle classi agiate tuffato negli svaghi mondani. Ma è anche vero che in questi due o tre decenni tutto il contesto sociologico, e quindi linguistico, del nostro paese, è interamente mutato. Forse pure il «professore» oggi insinuerebbe nella sua «chiacchiera» tanti riferimenti in più di ordine culturale: di quella cultura che ci viene veicolata dai mass media, dalla pubblicità, dalla televisione. Comunque, se lo stile basso di Lucentini apriva la strada a Sanguineti, a Volponi, a Porta, la parlata straripante di Fruttero si pone a latere di quella di Arbasino. Volendo riprendere il gioco delle parti, dovremmo concludere che appartengono a lui i deliziosi dialogati appunto intinti di futilità mondana che costellano almeno gli ultimi due prodotti della coppia, Il palio delle contrade morte e L'amante senza fissa dimora. Ma al lettore resta il dubbio principale. Infatti da queste due prove separate si può agevolmente stabilire a chi spetti il tono «basso» e a chi quello alto-frivolo, e si può anche intravvedere senza difficoltà come gli autori pervengano al loro felice mixing, • sull'onda, della «chiacchiera», del dialogo divagante, deliziosamente leggero e «inu- \ incrociati tile»: lo abbiamo già osservato, il «professore» doveva pur crescere di statura, e oggi le distanze linguistico-culturali tra soggetti di censo modesto e esponenti delle classi superiori si sono notevolmente ridotte. Ma a chi dei due dobbiamo la perizia a livello di trama, di invenzione romanzesca, che pure è stata, per la coppia, la carta vincente, o almeno, l'elemento che li ha fatti uscire dall'agone ristretto degli «addetti ai lavori», dei valori sperimentali, per tuffarli nell'alveo della più vasta audience? Questa «ora della verità» non funziona in tal senso, non ci offre alcuna spia, dato che entrambi i racconti sono «fatti di niente», evitano il romanzesco (chi scrive queste righe li dovrebbe collocare nel filone dell' «estasi», piuttosto che dell '«azione»). E il bello è che perfino il loro «ultimo nato», Il colore del destino, si pone in questo medesimo ambito. Il racconto è costruito sul parallelismo di due «esistenze grige», un lui e una lei, entrambi lavoratori pendolari dello hinterland di Milano, di cui ci vengono offerti, in alternanza, brani di «vissuto», di «corrente di coscienza», e fin qui tutto bene, si può parlare di un buon incontro del «basso» di Lucentini con una revisione «alta» di Fruttero, nel senso che vengono meno le sgrammaticature più violente, le ripetizioni più «tirate via», mentre affluiscono in copia quegli elementi midcult, sottratti all'universo dei media, di cui oggi nessuno può più fare a meno. Alcuni di questi elementi assumono una portata mitica, fino a significare «il colore del destino» evocato nel titolo, fino a spingere i due umili protagonisti fuori dalle rotte del loro vivere monotono. Ma poi la deviazione non c'è, e il grigiore, la routine si affermano sovrani. Il romanzesco non si manifesta, in questa prova, come se gli Autori, almeno per una volta, avessero voluto insistere sulla strada dell'autentico, a costo di veder scendere il loro indice di popolarità. Ogni nuovo prodotto di Mario Soldati ci sottopone a una specie di doccia scozzese tra l'impulso al rigetto tediato e il recupero, anche qui, su un piano di autenticità, afferrata in extremis e per i capelli. Intanto, può colpire spiacevolmente la prolificità dell'Autore, così metodico e frequente nelle sue uscite, un po' come succede a Moravia (altro narratore suscettibile di provocare in noi la medesima reazione bipartita). Viene il sospetto della facilità, del mestiere, cui si accompagna una cauta reazione di difesa verso il narcisismo dei protagonisti, tutti bravi, salutati dal successo nella carriera professionale così come negli affetti domestici e perfino nelle fughe erotico-sentimentali: col sospetto aggiunto di dover riconoscere, dietro il protagonista, le sembianze dell'Autore, che ha la fortuna-sfortuna di essere anche lui personaggio pubblico. Si ha un bel dire che è erroneo confondere le due figure, ma quando sono entrambe nette e visibili, e per giunta si assomigliano tanto ... Per esempio nel Paseo de Gracia protagonista è un soggettista-scenografo per il mondo del cinema, tale Eugenio Crema-Donnini, salutato, beato lui, da tanto successo, da doversi trasferire a Los Angeles e da assumervi un cognome straniero, Kramer. Fortunato, s'intende, anche negli affetti, avendo a fianco una moglie perfetta, Irma, con tanti figli e nipoti. Fortunato negli affari, che lo vedono imbarcarsi, in questo romanzo, in una mirabolante sceneggiatura del Giudizio universale di Michelangelo, per un serial televisivo, commissionatogli da due produttori anch'essi improbabili a forza di rispettare tutti i luoghi comuni della materia. Ma poi, come sempre nelle «macchine» di Soldati, in mezzo a tanta irritante inautenticità scattano gli elementi autentici e «al recupero»: esattamente come avviene nell'altro nostro «cavallo di razza», Moravia, che sembra girare a vuoto per pagine e pagine, avvoltolarsi nell'ovvio, nella banalità, finché non emerge qualche nucleo davvero efficace. Nell'esercizio delle sue virtù e fortune, il nostro Eugenio Crema-Donnini incontra sulla sua rotta un «vinto», nella persona di un'amica di gioventù della moglie, tale Olga, che non ha avuto alcun successo, né nella vita né nella carriera; tanto che il protagonista la assume nel suo staff solo per pietà, per autorevole raccomandazione di Irma. Ma ne nasce una relazione che contrariamente a quanto sembrerebbe logico in base ai dati ricordati, non conferma l' «avere» del nostro eroe, non si traduce

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