Alfabeta - anno IX - n. 101 - ottobre 1987

Alfabeta 101 larità «perfetta» del sistema, del suo carattere autoreferenziale e della sua chiusura organizzazionale, tende a rimuovere la strategia che decide del tipo d'astrazione che va a costruire la rappresentazione della realtà. Tale affermazione impedisce - come Barcellona sostiene nel saggio su Neoindividualismo e massificazione - la proposizione delle seguenti questioni: «Perché il sistema si differenzia in un modo piuttosto che in un altro? Perché si segue la strada della differenziazione funzionale e non quella della differenziazione stratificatoria ?(... ] L'astrazione funzionale della teoria sistemica è l'atto di forza con cui viene neutralizzato il conflitto e il disordine produttivo, è il dispositivo tecnico mediante il quale viene controllata la contingenza compatibile con il sistema e viene negato l'ingresso alla contingenza forte, all'irruzione I pacchetti di Alfabeta dell'imprevedibile. Il prezzo pagato è altissimo: la riduzione delle alternative della vita a pure scelte di consumo» (pp. 48-49). Ora, è possibile trarre da queste ricche e ben articolate analisi di Barcellona un elemento di riflessione che è utile sottolineare: la cosiddetta sussunzione reale della società civile nel capitale complessivo esprime la dicotomia sociale (se si preferisce: il conflitto) all'interno di un nuovo complesso socio-statale. Ciò significa che non è più pensabile una cancellazione o una soluzione delle dicotomie sociali nella forma della verticalizzazione (dello Stato): esse tendono - al livello del complesso socio-statalè - ad orizzontalizzarsi. Si pensi soltanto alla gehleniana post-histoire: essa esprime proprio l'orizzontalizzazione contemporanea dei rapporti sociostatali, la caratteristica qualificante della sussunzione reale, la «cristallizzazione» delle forze produttive, intesa come irreversibile. Quando Barcellona parla della sofferenza, del dolore, come espressione di qualcosa d'irriducibile, di non relegabile nella «cifra del contingente», che il sistema non riesce ad annullare, ecco che si prende in qualche modo atto che l'attuale orizzontalizzazione dei conflitti non toglie il segno di~otomico che è proprio del complesso socio-statale. La sussunzione reale cancella la possibilità di risolvere il conflitto nella forma della verticalizzazione, ma non ne elimina la permanenza (che certo viene comunque ad essere mistificata nelle teorie di Gehlen e di Luhmann) •nei nuovi rapporti sociali che si realizzano. Ciò spiega come lo scarto, il residuo, che si evidenzia nelle pratiche sistemiche, sia sempre più «abbandonato al terreno dell'occasionale, dell'impagina 17 previsto e dell'imprevedibile. L'unico terreno su cui l'imprevedibile, il nuovo, può essere governato è il terreno dell'emergenza, cioè il terreno della legge caso per caso. L'emergenza diventa quindi la dimensione permanente del vivere quotidiano di fronte a una forma che ha tagliato tutti i nessi col sistema dei mondi vitali, della vita quotidiana» (pp. 132-133). Così, è possibile allora affermare che da parte di chi non detiene il comando ci può oggi essere - contro il controllo dell'emergenza - un interesse a forme di stabilizzazione alternative rispetto a quelle date, entro cui possa ancora avanzare, divenire, l'opera di trasformazione umana, mai definibile una volta per tutte in istituzioni cristallizzate o in figure tecniche. Contrattosociale: crisi di un revival Il contratto sociale nella fi!osofia politica moderna A cura di Giuseppe Duso Bologna, Il Mulino, 1987 pp. 386 lire 34.000 L e teorie del contratto sociale - il plurale è ~bbligatorio, oltre due secoli di storia della filosofia politica hanno potuto moltiplicare le differenze di accenti e di impostazione - sono segnate da una sorta di destino hegeliano: il loro nascere è il loro perire. Ogni spinta alla rigorizzazione, alla ulteriore formalizzazione, alla purificazione teorica, alla sofisticazione concettuale, si risolve in una tappa di avvicinamento a quel punto in cui il contrattualismo, radicalizzando e raffinando le proprie pr~tese teoriche, si candida all'autodissoluzione. Nella sua forma più pura, che è probabilmente quella del contratto originario di Kant, il contrattualismo quasi si congeda da se stesso. Proprio perché il contratto sociale appartiene ad un travaglio filosofico-politico che pensa «alla grande», le debolezze e le aporie del suo edificio teorico sono distruttive, si sottraggono a interventi correttivi marginali. Mi è già accaduto di segnalare, in passato, che la sprovvedutezza teorica, e talvolta semplicemente informativa, di alcuni esponenti del neocontrattualismo americano contemporaneo nei confronti della tradizione classica europea non milita né a favore della chiarezza, né a favore di una ricezione delle domande autenticamente nuove veicolate dalla proposta neocontrattualistica. Vedere è tralasciare, sia pure. Ma tanta distrazione rispetto alle «origini» può solo alimentare il sospetto che sia stata una certa congiuntura del welfare americano a ridestare in modo un po' occasionale, e a rigonfiare in modo superficiale, l'interesse teorico-politico per il contratto sociale. Tanto più è oggi necessario riscoprire alla fonte gli ingredienti di questa miscela filosofica di grandezza e fragilità. I saggi raccolti e introdotti da Giuseppe Duso, che all'interno del volume interviene anche su Ficht~ e sulla polemica anti-giusnaturalistica dello Hegel jenense, tendono ad atteggiarsi sine ira et studio rispetto al loro oggetto: forse perché_non ruotano principalmente né attorno al consenso, né attorno alla giustizia. Il filo conduttore privilegiato, semmai, è quello della rappresentazione: il che suggerisce di leggere il volume, nell'ambito della letteratura recente, congiuntamente al fascicolo che la rivista «Il centauro» ha dedicato, qualche anno fa (n. 15, 1985), alla coppia concettuale idea/rappreBruno Accarino sentazione. È bensì vero che i teorici del contratto sono, in vario modo, soggiogati dal problema del consenso, ma è anche vero che il passaggio tipico e topico dallo «stato di natura» allo «stato civile» produce subito sperimentazioni 'concettuali - anche profondamente innovative - sulla rappresentazione; sul governo, sulla forma di statualità. Uno dei capitoli più affascinanti e più sconcertanti del contrattualismo classico è la negazione del diritto di opporre resistenza al sovrano: un diritto che il mondo feudale accettava e riconosceva, e che il pur avanzatissimo liberalismo seicentesco e settecentesco si affretta ad archiviare. È una mossa che risulta comprensibile solo sullo sfondo delle nuove dottrine della sovranità e della statualità, e di un'ansia ossessiva di unificazione del corpo sociale. Qui si misura davvero il paradosso autodistruttivo della parabola alla quale accennavo prima: il vertice del consenso si rovescia in un'obbedienza senza scampo. Analogamente, non basta affatto - è quanto emerge dai contributi di Alessandro Biral, che «coprono» l'arco Hobbes-Rousseau - addormentare o addomesticare le passioni per estrarre la figura di un cittadino da promuovere a soggetto contraente. Passioni individuali e contratto sociale non si lasciano comprimere in un passaggio schematico dalla indisciplina all'ordine. Occorre in realtà un dispositivo molto complesso di rifunzionalizzazione delle passioni al contratto: ecco perché la dinamica delle passioni non è mai - neanche in chi, come Kant, ne avverte un'eco ormai smorzata - una componente accessoria o preliminare. E vien fatto di pensare che, anche ai nostri giorni, chi non dispone di una teoria delle passioni difficilmente può affidare al contratto sociale compiti strategici e ambizioni propositive. Quanto poi al recupero di settori a lungo emarginati della riflessione classica, mi pare di intravvedere nei suggerimenti impliciti di Biral la possibilità che a discutere del contratto siano finalmente convocate, in un prossimo futuro, anche le parti (quasi la metà dell'opera) cosiddette «teologiche» del Leviatano di Hobbes: e che si ponga così riparo agli errori di omissione di tanta letteratura critica, ricostruendo i nessi tra critica biblica, teologia politica in nuce e ipotesi contrattualistica. Più che cogliere, nel volume collettaneo curato da Duso, insufficienze e manchevolezze (avrei salutato con favore, per esempio, un intervento sul primo Settecento scozzese), si possono indicare direzioni ulteriori di sviluppo e di approfondimento. L'arco cronologico della ricerca si ferma al primo Ottocento, e precisamente alla critica del giusnaturalismo nello Hegel jenense, per ragioni che, certo, non sono solo imputabili a ristrettezze di spazio. In re_altà è presumibile che larghe parti del secolo scorso, che è stato il secolo della «storia», avessero scarsa dimestichezza con l'area dottrinaria del contratto sociale, e come una ritrosia di fondo a riesumarne, se non polemicamente, la vicenda. Laddove, come in Inghilterra, la liquidazione hegeliana dei principi del contratto non poteva fare immediatamente scuola, al contrattualismo ha fatto da contraltare, o magari da sostituto, l'utilitarismo. Si può forse assumere come un dato quasi fisiologico una certa obsolescenza scientifica ottocentesca della tematizzazione del contratto. N on così stanno le cose, a me pare, nel Novecento. Perfino nelle zone più impensate del cosiddetto irrazionalismo europeo - è il caso di Ernst Jiinger - si parla di contratto. Naturalmente, finché manterranno la loro vigenza etichette ormai abbastanza implausibili, come quella che ascrive in toto l'opera di Max Weber allo «storicismo» contemporaneo, il campo di riflessione sarà occupato manu militari dall'antitesi giusnaturalismo-storicismo e difficilmente darà buoni frutti. Difficilmente, cioè, si potrà comprendere che la crisi del contrattualismo non mette necessariamente capo a soluzioni storicistiche (le soluzioni più originali e lungimiranti si inscrivono, semmai, all'interno della filosofia dei valori), e che essa è pienamente compatibile con la conservazione della prospettiva del soggetto trascendentale. Solo che non potrà più essere all'opera il soggetto di Kant. Non è un caso che a ridisegnare la mappa novecentesca del contratto possa oggi contribuire Habermas, che nei suoi ultimi lavori incontra e discute le formulazioni contrattualistiche più succinte, ma per certi versi più audaci ed estremistiche: quelle di Kant. Habermas ravvisa in Kant un inaridimento monologico: i soggetti contraenti esprimono uti singuli il loro consenso, oppure aderiscono ad una piattaforma normativa già data e immodificabile. L'accordo non è raggiunto per via comunicativa e interattiva. I partecipanti non 1zollaborano intersoggettivamente alla stipulazione del patto: si limitano a non violarlo. Più che una volontà comune strutturata da un processo di intesa comunicativa, es.siesprimono una volontà unica. A ben vedere, tuttavia, il carattere fondamentalmente dimesso e difensivo della teoria kantiana del contratto originario (idea puramente regolativa) è tutto ciò che si può esprimere in fatto di consenso. Oltre questa linea, secondo Kant, non era possibile andare. Quando Habermas propone di varcare questa linea, e di rendere meno evanescente il consenso e meno precaria la sua base normativa, mette inavvertitamente le mani su una polveriera: quella per cui il consenso deve continuamente cimentarsi con la frantumazione dello spazio e del tempo, e con la fisionomia conseguentemente nuova del cittadino odierno. Lungo questa linea non si perviene a contestare la pensabilità di un soggetto trascendentale-universale, ma la sua coniugabilità con il contratto consensualmente stipulato. Gli elementi pattizi della vita sociale si dispongono sul terreno non della norma, ma delle eccezioni, ed assumono il carattere di negoziazioni: cioè di trattative-transazioni condotte sulla base di rapporti di forza. Il contratto esiste, ma non esiste più il suo fondamento trascendentale. E poiché il soggetto kantiano era dotato di una immanente capacità critica, in grado di corrodere tradizioni e istituzioni e di approdare ad una originarietà senza presupposti e senza insidie empiriche, è lecito chiedersi se si possa presupporre una siffatta capacità in un soggetto trascendentale collocato alla fine del ventesimo secolo. • Una delle risposte che sono state date a questo quesito suona così: tra il protagonismo dei contraenti e l'obbedienza irriflessa, due delle prospettive più rilevanti che siano state incubate dalla stagione classica del contrattualismo, ha vinto la seconda. Come che stiano le cose, si ha l'impressione di trovarsi di fronte a costruzioni gigantesche, ma anche con molte giunture interne: sminuzzare le teorie contrattualistiche, sceverando ciò che è vivo da ciò che è morto, e non rispettarne quindi la forte progettualità e la compattezza, potrebbe rivelarsi un'operazione illusoria. Come osserva Duso nelle pagine introduttive, è stata non già la perdurante vitalità, ma il disfacimento irreversibile della costellazione concettuale del contratto a ridar fiato, quasi per contrappasso, a ritorni di fiamma contrattualistici. Ma la forma primitiva era data appunto da una costellazione politico-sociale, non dall'ingresso, tramite il patto, in una cornice di semplice «cooperazione sociale». Mutato lo scenario della sovranità e delle istituzioni, è ben problematico trarre in salvo la sola idea di una razionalità originaria fondativa della convivenza civile.

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