Alfabeta - anno IX - n. 101 - ottobre 1987

pagina 12 I pacchetti di Alfabeta Alfabeta 101 Il testosecondo Stanley Fish Stanley Fish C'è un testo in questa classe? Torino, Einaudi, 1987 pp. 228, lire 14.000 P rovocatorjo, irritante, e anche «scorretto», Stanley Fish offre tuttavia, o forse proprio per questo, alcuni spunti interessanti di discussione. Per elaborare e motivare la sua nozione centrale di «comunità interpretativa», egli ricorre tra l'altro a due aneddoti, che rimandano a due vere e proprie trappole metodologiche. Nel primo una ragazza che aveva appena frequentato il corso di Fish, iniziandone un altro chiede al professore: «C'è un testo in questa classe?» Alla sua innocente risposta («Sì, è la Norton Anthology of Literature»), la ragazza replica: «No, no, voglio dire, nel suo corso crediamo nelle poesie e nelle cose, o ci siamo solo noi?» (p. 143). Riteniamo cioè che il testo sia un'entità indipendente dall'interpretazione, o che esso venga invece prodotto dalla comunità interpretativa e dalle sue strategie (come le era stato insegnato nel precedente corso)? Qui Fish, al di là della provocazione, ~uol sostenere che una frase è diversamente intelligibile, a seconda della «strutturia di norme» (sociale) in cui viene formulata e recepita, e non a seconda di un significato ad essa intrinseco (p. 157). La domanda, fuori dalla comunità alla quale ragazza e professore appartengono, non sarebbe intelligibile in nessuno dei due significati relativi; e perfino tra professore e ragazza si determina una sia pur temporanea incomprensione, come tra due diverse sottocomunità. Tesi, questa, che Fish si propone di estendere, non soltanto all'interpretazione di una poesia ma allo stesso riconoscimento di essa. Ed ecco appunto il secondo aneddoto. • Fish tiene due corsi nella stessa aula: alle 9,30 parla delle relazioni tra linguistica e critica letteraria, e alle 11 di poesia religiosa inglese del XVII secolo. Un bel giorno lascia scritto sulla lavagna un elenco di nomi di autori relativi al primo corso, e dice agli studenti del secondo corso che si tratta di una poesia religiosa di quel genere, invitandoli a interpretarla. Il che avviene puntualmente, con una vasta gamma di ipotesi. Qui in sostanza Fish vuol dimostrare che il riconoscimento di una poesia non dipende da sue caratteristiche formali e tratti distintivi intrinseci, ma da un certo tipo di attenzione, convinzione, conoscenza di convenzioni letterarie, e in definitiva dall'appartenenza del lettore a una ben precisa comunità interpretativa. Ancora una volta, al di là dell'esperimento paradossale e delle discutibili conclusioni («tutti i testi, potenzialmente, possono essere presi per letterari», p. 15), resta pur sempre un nucleo problematico meritevole di riflessione: in assenza di una comunità interpretativa così disposta e dotata, o in presenza di una comunità condizionata da limiti culturali o linguistici (situazioni, va detto, che non possono essere escluse in assoluto), lì una poesia (una poesia vera, non una trappola come quella dell'aneddoto) non c'è, ma ci sarà comunque altrove, in condizioni e momenti diversi, o magari nello stesso momento. Ci sono dunque nella proposta di Fish: 1. la contestazione di una oggettività assoluta del testo, data una volta per tutte, Giancarlo Ferretti con particolare riferimento alla critica formalistica, strutturale e semiologica; 2. il passaggio, a livello teorico e metodologico, dalla centralità immobile del testo alla centralità dinamica della lettura e interpretazione. Scrive infatti Fish: «Il testo inteso come un'entità indipendente dall'interpretazione e (idealmente) responsabile del suo destino cede il posto a un'idea del testo che emerge come una conseguenza delle nostre attività interpretative. Le caratteristiche formali continuano a esistere: esse tuttavia non giacciono più innocentemente nel mondo, ma sono al contrario costituite dall'atto interpretativo. [... ] Il rapporto tra interpretazione e testo viene così rovesciato: le strategie interpretative [... ] danno ai testi la loro forma, producendoli piuttosto che esserne [... ] il prodotto» (p. 18). Non più insomma un testo «stabile» preesistente e delle interpretazioni successive che «possono cambiare», ma un testo che «può cambiare» nel momento stesso in cui quelle interpretazioni intervengono (p. 115), e che non può escludere «nessuna lettura» come «intrinsecamente impossibile» (pp. 15, 188). Ne consegue una valorizzazione della lettura e interpretazione come esperienza fondamentale che (in situazioni concrete e determinate, da parte di questa o quella epoca e comunità interpretativa) può riconoscere il testo, leggerlo in modo sempre diverso e perciò riprodurlo diverso ogni volta. Un tale decentramento e anzi policentrismo, si presenta come un processo di moltiplicazione all'infinito della durata e del destino di un testo, ben più attivo e fecondo di quanto non lo sia l'inesauribile scavo di un testo considerato nella sua centralità immobile e oggettività immodificabile. Alla critica di relativismo interpretativo del resto, Fish risponde in modo abbastanza convincente, richiamando le convenzioni e criteri che la comunità viene elaborando, e le verifiche e superamenti che viene sviluppando. Tutte le implicazioni teoriche e metodologiche generali che si sono fin qui rintracciate nel discorso di Fish, traggono ragione soprattutto dalle pagine in cui vengono delineate le caratteristiche primarie, elementari, in senso letterale, della comunità interpretativa, indipendentemente dalle sue qualificazioni ulteriori, regionale o nazionale, sociale o intellettuale ecc.: finalità, interessi, scopi, decisioni, credenze, presupposti, norme, opm10ni, assunzioni, punti di vista, strumenti, e altro ancora (pp. 15, 20, 158-61, 172, 176-8 e passim). Ma già qui si manifesta un primo limite e pericolo grave, giacché Fish finisce per annullare ogni libertà, indipendenza, consapevolezza, produttività del l~tore individuale dentro la strategia collettiva della comunità, che si qualifica poi tout court come istituzione letteraria accademica, chiusa nelle sue regole e convenzioni, nelle sue logiche e pratiche, e articolata in sottocomunità altrettanto chiuse e autosufficienti. Quello che è stato definito il «neopragmatismo» di Fish (da C. Di Girolamo, nella Prefazione, p. XV) si risolve così in determinismo istituzionale. Il lettore insomma, e cioè il critico, opera sempre «entro i vincoli incorporati nell'istituzione letteraria» (p. 211). Dall'intera impostazione di Fish rimane inoltre esclusa, con ulteriore grave impoverimento, l'esperienza del lettore comune, mentre non si capisce bene se egli arrivi a riconoscere nella lettura non-specialistica, extraletteraria, eminentemente impura, fatta di emozioni e interessi personali, di motivazioni esistenziali e sociali, di sentimenti e valori sostanzialmente non diversi da quelli di altre esperienze umane, un livello (fondamentale) della stessa lettura critica. Tutto viene circoscritto, in ogni caso, alle sue comunità e sottocomunità accademiche, i cui membri restano di fatto i soli e autosufficienti interpreti autorizzati e i soli abilitati a verificare e modificare lo statuto e la procedura di una certa interpretazione, in definitiva ad autorizzarla (pp. 184-7, 192, 199). I n tal modo Fish viene a trovarsi nonostante tutto in compagnia dei suoi stessi avversari, sostenitori della centralità e interpretazione oggettiva del testo: sul terreno di una versione solo apparentemente diversa della separatezza e del privilegio intellettuale, e in definitiva dello specialismo. Tutte le più interessanti e producenti implicazioni teoriche della scelta contestuale e interpretativa di Fish trovano qui il principale ostacolo allo sviluppo delle loro potenzialità. C'è anzi un altro motivo che, proprio per essere completamente eluso da Fish, risulta ancor più efficacemente disvelatore in questo senso: il motivo (cui Fortini ha dato particolare rilievo e pregnanza teorico-critica) delle masse mute, quelle masse cioè che nelle situazioni più diverse e lontane vivono una condizione di subalternità intellettuale, di privazione della conoscenza e della coscienza. Sull'interpretazione e vita di un testo infatti pesa anche l'assenza e impotenza delle masse mute, private ed escluse della stessa possibilità di approccio ad esso. Questa assenza pesa come un enorme carico di silenzio, di esperienze irrealizzate e inespresse, delle quali nessun intellettuale può arrogarsi un diritto di delega. È come una infinita prospettiva di vita (di sempre nuove interpretazioni-produzioni, per dirla con Fish) negata di fatto al testo; è come una barriera insormontabile contro la quale il destino del testo si scontra, e oltre la quale si intravvedono quelle infinite potenzialità ancora inerti. Per queste masse, davvero, il testo non c'è. La contrapposizione di fondo, sottesa alle implicazioni teoriche generali del discorso di Fish, si può riformulare allora in modo diverso: tra una centralità del testo interna e circoscritta alla cerchia degli specialisti, e un processo di interpretazione-produzione che può proiettarlo in una prospettiva infinita, fino a scontrarsi con la barriera estrema e invalicabile della non-lettura. Dove le denunce di impotenza e invalicabilità, qui e ora, richiamano problemi politici fin troppo trasparenti. Ci sono infine alcuni spunti di discussione per i quali Fish rappresenta soltanto un pretesto. Certamente contestabile è la sua tesi di una letterarietà attribuita unilateralmente da una comunità a qualsiasi testo, perché esso porta pur sempre in sé un canone letterario che ne condiziona la natura e la lettura nel tempo. Ma se si esce dalla comunità, letteratura e lettura istituzionale, il discorso cambia. Se è vero infatti che il riconoscimento della letterarietà in un certo testo implica anche un giudizio di valore, allora le élites intellettuali la riconosceranno in Flaubert e la disconosceranno in un romanzo seriale (giallo o rosa che sia), o quanto meno stabiliranno dei livelli di letterarietà, destinati a sfumare verso il basso di una negazione tendenziale di essa. Per contro il pubblico di massa, ai suoi livelli più bassi, potrà non essere in grado di riconoscerla in Flaubert (anche nel senso che non arriverà neppure a conoscerlo), mentre la riconoscerà inconsapevolmente e di fatto nel prodotto commerciale più seriale appunto, e volta a volta in questo o quel tipo di prodotto o di sottogenere che incontrerà il suo interesse. Dove sembra ragionevole ritenere che una tale letterarietà, più che da un canone e da un valore letterario intrinseco al testo, dipenda dalle motivazioni, promozioni, suggestioni del mercato; e che in essa entrino consistenti elementi irrisolti di extraletterarietà esterni al lettore stesso. Certo, perfino dietro il prodotto più commerciale c'è una tradizione narrativa di temi e tecniche e stereotipi, della quale esso è un esito estremo. Ma qui si sfuma appunto in una letterarietà tanto impoverita da essere quasi inesistente; e in una letterarietà, comunque, fortemente condizionata da fattori esterni al testo e al lettore. Sì che l'intellettuale può arrivare a negarla o metterla in dubbio, rispètto al mercato che implicitamente l'afferma. Da tutto questo consegue che la letterarietà non è necessariamente e sempre intrinseca al testo (e alla coscienza del lettore); che l'idea di essa e le modalità di riconoscimento possono mutare per l'influenza di fattori esterni al canone e al valore letterario, alle tradizioni della letteratura e della lettura; e che possono mutare anche su tempi brevi. Un ultimo punto. L'identificazione tra comunità interpretativa e istituzione accademica, con annullamento del lettore _individuale ed esclusione di qualsiasi letto.re non specialista, in un quadro di rapporti statici e non modificabili, può anche sottintendere un radicale pessimismo di Fish, e l'influenza del modello americano (come in parte suggerisce Di Girolamo, pur in un contesto problematico diverso, pp. XVIII, XXII). Pessimismo che verosimilmente dipende anche dalla sua non-volontà o noncapacità di risalire agli apparati e processi di produzione che largamente presiedono alle strategie, procedure, riconoscimenti, scelte, eccetera, di qualsiasi comunità, e al complicato rapporto, tra condizionamento e conflittualità, che (almeno in Italia) lega e separa autore, testo, lettore, comunità e strategia interpretativa comunque intese. In questo senso, la comunità accademica intesa come metafora dell'intelletualità, diventa il risvolto della comunità intesa come metafora del mercato: può esserne cioè la coscienza critica o la coscienza mistificata (chiusa in una difesa di sé, al limite corporativa). E in questo senso, soprattutto, risalire agli apparati e processi di produzione significa porsi il problema di ciò che può determinare una situazione come questa, ma anche di ciò che può modificarla, con una tensione liberatoria del lettore individuale e una reale attivazione di tutte le potenzialità interpretative, che non può in alcun modo riguardare l'una senza l'altra.

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