Alfabeta - anno IX - n. 101 - ottobre 1987

pagina 10 A più voci Alfabeta 101 I Taccuini 7 dubbisulneobaro N e! suo libro L'età neobarocca, uscito prima dell'estate da Laterza, Omar Calabrese svolge un'analisi di espressioni caratteristiche della nostra epoca, nei media, nella scienza e nella società, qualificate come portatrici di un gusto barocco antagonistico rispetto al classico come espressione d'ordine. Che il barocco (o il neobarocco) si costituisca come antitesi del classico, è chiarito nella premessa metodologica che apre il volume. «Per 'classico' intenderemo sostanzialmente categorizzazioni di giudizio fortemente orientate alle omologazioni stabilmente ordinate. Per 'barocco' intenderemo invece categorizzazioni che 'eccitano' fortemente l'ordinamento del sistema e lo destabilizzano da qualche parte, lo sottopongono a turbolenza e fluttuazione e lo sospendono quanto a decidibilità di valori» (p. 30). Una simile caratterizzazione; viene precisato subito dopo, è di tipo essenzialmente metastorico (e ciò in linea con il proposito generale del libro, che mira a una fenomenologia formale dove i casi storici sono solo exempla). «Perché la storia consente solo di verificare empiricamente l'apparire di forme in competizione sull'uno e l'altro versante delle due grandi opposizioni fra classico e barocco, nonché di analizzare puntualmente le loro figure (queste, sì, storicamente determinate). Ma non diventa in nessun modo lafonte di una classificazione esclusiva» (Ibid.). L'ipotesi di lavoro è dunque che esistono un ordine e un disordine in sé (quest'ultimo, ovviamente, è solo in apparenza disòrdine); a questo ordine e disordine, Calabrese, che oltre che studioso di comunicazioni di massa è professore di semiologia delle arti a Bologna, dà i nomi storici (tratti cioè dalla storia dell'arte) di classico e barocco, che però in questo contesto hanno un valore meramente convenzionale. A proposito di «neobarocco», Calabrese scrive infatti: «Non tengo affatto a questo nome in modo particolare. Lo considero semplicemente uno slogan come un altro, capace però di esprimere in modo riassuntivo i contenuti concreti che intendo dargli» (p. 17). È difficile discutere analiticamente l'ampia fenomonologia del neobarocco offerta da Calabrese, così che qui mi limiterò al piano metodologico, suggerendo qualche punto per un dibattito. Il primo interrogativo metodologico verte sulla possibilità di definire il classico e il barocco come puri nomi che si attagliano convenzionalmente a norme in sé. È certo vero che il barocco si costituisce come alternativa al classico, in contesti di volta in volta determinati. Ma ciò che fa problema è qui proprio il classico, che nella ipotesi di Calabrese viene sottoposto a una drastica riduzione (tanto P.iùdrastica in quanto essa muove già da un concetto ridotto di classico, quello della storia dell'arte). Ora, se seguiamo Gadamer in Verità e metodo non si tratta tanto di vedere nel classico ciò che si conforma a un ideale di ordine, e nel barocco un disordine o un principio d'ordine alternativo, ma piuttosto di considerare che norma e ordine (che non sono mai metastorici) sono tali in quanto si inscrivono nell'orizzonte normativo del classico. Un certo stile o una certa idea, la cui origine storica può benissimo esulare dalle forme del classico come momento della storia dell'arte (Omero, per esempio) riceve, dal proprio perdurante valore culturale, le patenti di classico. Fintantoché Maurizio Ferraris questa normatività resterà operante, noi non avvertiremo il classico come storico, ma come metastorico; quando la norma prenderà a decadere, scavalcata da altre norme, riconosceremo nuovamente il fenomeno nella sua determinatezza storica. Le unità tragiche aristoteliche, che in certe epoche furono intese come norma, e naturalizzate ideologicamente, sono riconosciute come storiche da Shakespeare in avanti. Non che con questo Aristotele abbia cessato di essere classico (come fenomeno culturale e, per altri versi, come norma), ma il canone si è allargato e, accanto a lui, nella sfera della classicità, troviamo anche Shakespeare (che è un classico per tutti, mentre per uno studioso di letteratura inglese nell'esercizio delle sue funzioni è un barocco). Un celebre violinista riflette sul significato della sua arte. sottratto alla mutevolezza dello scorrere del tempo e al variare del gusto, ma è sempre immediatamente accessibile, non in quel modo di accostamento che caratterizza una produzione contemporanea e in cui si fa l'esperienza istantanea di un senso che viene a colmare un'attesa oscura» (Verità e metodo, p. 337, corsivo mio). Tutto il presente, nella misura in cui non è ancora interiorizzato in un canone, e dunque ci sorprende per il suo apparente disordine, è neobarocco (ma ovviamente potrebbe essere anche neoromantico, o qualsiasi altra cosa; qui, a differenza che nel classico, il nominalismo è perfettamente legittimo). Ma dire che tutto il presente è neobarocco vuol dire anche che ogni presente, al suo apparire, lo è e lo fu, anche il presente di cent'anni fa. Salvatore Accardo L'ARTE DELVIOLINO RUSCONI Classico, nella coscienza comune, non meno che nella coscienza filosofica, non indica dunque conforme all'ordine, ma piuttosto depositario di un principio normativo: il tipico (lo si vede bene nel linguaggio ordinario: l'espressione «è il classico imbecille» non indica un imbecille particolarmente ordinato, ma un imbecille tipico). Ora, Calabrese può certo obiettarmi che la sua definizione di classico (e di barocco) non è tenuta a rispondere alla coscienza comune. Ma proprio questo è il secondo problema: in un libro che mira alla ricognizione di un gusto (neobarocco ), l'interlocutore e il referente sono proprio la coscienza comune, cioè non un particolare uso disciplinare, ma un gusto generale (e un gusto che, kantianamente, si riconosce come soggettivo, ma afferma una pretesa di universalità, così da avere comunicazioni molto strette con il senso comune). «'Classico' - scrive Gadamer - è fondamentalmente qualcosa di diverso da un concetto puramente descrittivo a disposizione di una coscienza storiografica obietti- _vante; è invece una realtà storica a cui anche la coscienza storiografica stessa appartiene ed è soggetta. Ciò che è classico è O ra, mi sembra - e questo è il mio terzo problema metodologico - che Calabrese, dopo avere obiettivato il classico come mero nome di un principio d'ordine metastorico, assolutizzi il nostro presente, definendolo neobarocco, senza considerare che, come tante novità del passato sono entrare nel canone del classico (qui è esemplare il caso dei classici della letteratura), è molto probabile che anche molte apparenti aberrazioni di oggi risulteranno, in futuro, classiche come il Partenone o come Goethe. Il mio quarto problema metodologico segue dai precedenti. Che il classico della filosofia e della coscienza comune (che non mi pare tanto facilmente aggirabile) resista, come dice Gadamer, alla critica storica, significa che io non posso mai ridurlo a un oggetto, perché il sistema di norme del classico mi costituisce come soggetto di giudizio, fornendomi norme e canoni. Non a caso proprio il classico costituì uno scoglio insuperabile per il progetto storicistico di ridurre ogni epoca a oggetto di un vaglio metodologico che la rendesse mera espressione, priva di verità in sé. Questo proposito, con il classico, non può riuscire, perché il classico costituisce la storia e la cultura prima di esserne còstituito. Ora, mi sembra che Calabrese, che per un verso riduce il classico a mera circostanza storica (il classico della storia dell'arte), e per un altro verso deduce da questo stesso classico principi d'ordine posti come in sé, come pure forme, ripeta l'atteggiamento degli storicisti. Una volta che una realtà effettiva è ridotta a oggetto, se ne può distillare la forma. Non solo storicismo e positivismo non si escludono, ma entrambi sono coronati dal formalismo. Così per esempio i grandi storici dell'Ottocento - come scrisse il Conte Yorck a Dilthey - erano appunto dei grandi oculari: il passato, obbiettivato e ridotto nei contorni di una presenza perenta, diviene forma visibile e vuota. Ma, prosegue Yorck, «Ogni realtà si muta in fantasma se è presa in esame come 'cosa in sé'». Che L'età neobarocca si occupi anzitutto del presente, una volta chiarito il senso di questo formalismo, è forse una radicalizzazione dell'impianto storicistico sinora descritto. Ponendo il passato come espressione, gli storicisti volevano padroneggiarlo retrospettivamente (in Dilthey, per esempio, la vita è oscurità e tenebre, che può essere compresa solo una volta che sia obbiettivata, e questo non avviene che per la vita passata). Ora mi pare che Calabrese (e questo è il mio quinto problema) si proponga di storicizzare il presente, proprio assumendolo come forma: ciò che ci sorprende, lo choc del nuovo, viene ricondotto al già noto, al barocco, al suo apparente disordine - cioè al suo ordine ben conosciuto. Il neobarocco potrebbe dunque essere la prima tappa per la canonizzazione del presente? In un certo senso sì, perché - sesto problema - ricondurre ogni fenomeno (televisione, fumetti, film ecc.) a modelli culturali è già avviare un processo di canonizzazione, assecondando una sorta di religione della cultura per cui tutto è culturalmente significativo, in quanto espressione di un'epoca. Ma una simile canonizzazione non può avere buon esito: nel momento in cui noi riconosciamo fenomeni magari bassi come «espressione», li abbiamo già privati di ogni loro eventuale pretesa di verità e di normatività. Essi sono infatti definiti a priori come riconducibili a norme e a canoni precedenti. L'esame della cultura bassa - settimo e ultimo problema - è quindi un'arma a doppio taglio. Da una parte, induce una facilitazione metodologica, perché la cultura bassa si presta bene a essere storicizzata e ridotta a espressione; d'altra parte, però, riducendosi a espressione, molto difficilmente potrà entrare nel canone, pretendere a una qualsiasi verità. Ha senso sostenere che Husserl e Heidegger, per esempio, sono neobarocchi (o neoclassici, o neoromantici)? Forse sì, non si può mai dire. Ma sappiamo bene che questa definizione non ne esaurisce il nocciolo di verità. Possiamo dire che Pippo Baudo e Nino Manfredi alla televisione (non, beninteso, nella loro vita) sono neobarocchi? Certamente. Già la televisione ce li presenta impacchettati e ridotti a forme, a espressioni di un'epoca, che non ci dicono su quell'epoca nulla di più di quanto già non sapessimo. Ma questa coscienza a priori non rischia di svuotare il senso della ricerca, cioè la pretesa di una validità che non si risolva nella sola correttezza metodologica dell'indagine? 'I

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