Alfabeta - anno IX - n. 101 - ottobre 1987

A più voci I premi letterari Tradizione del nuovo Il politico oggi D'Annunzio a Yale Il neobarocco Cfr Da Berlino Da New York Riviste Rassegne Convegni Altri libri Saggi L'irrazionale Prove d'artista ieri e oggi Gianfranco Baruchello (Umberto Eco) Biancamaria Frabotta La Terra, la vertigine Lamberto Pignotti (Alberto Bo atto) Nuova serie Ottobre 1987 Numero 101 / Anno 9 Lire 6.000 Edizioni Cooperativa Intrapresa Via Caposile, 2 • 20137 Milano Spedizione in abbonamento postale gruppo III/70 • Printed in Italy Pacchetti di Alfabeta Il testo secondo Fish L'individualismo Heisenberg filosofo Bataille in discussione Obiettivi del cinema

pagina 2 Le immagini di questo numero Alfabeta 101 Morale: se non si pecca contro la ragione, non si combina nulla. Dokoupil passa con disinvoltura dalla'pittura materica ed espressionista alla tecnica a spray dei graffitisti, dalla semplicità formale del naif alla complessità prospettica dell'anamorfosi, tanto che a qualcuno è sembrato vedere in quest'atteggiamento un semplice elogio del banale condotto con l'agile strumento dell'ironia. Quest'interpretazione ha il difetto di non raccogliere alcuni indizi estremamente interessanti. Infatti, senza dilungarsi sulle tematiche suggerite da ciascuno dei «cicli» di opere - Quadri dal Mondo Interiore, Storia dell'Universo, Scene dal Mondo Post-Nucleare, Dipinti su Cristo ecc. si può risalire, per brevità, alla nozione stessa di «ciclo» che, nel particolare significato acquistato nel «modo di produzione» di Dokoupil, si oppone nettamente a quella di «stile». cendo necessariamente ad una presunta unità sostanzia/e le differenze sub e superindividuali. giore o minore aderenza agli equilibri «razionali» del sistema. Ad esso corrisponde un'organizzazione del lavoro «vitale», che ha cioè una nascita e una morte, una durata e uno spazio precisi. Le singole parti sono interrelate e fortemente libere dal contesto. In questo modo l'attenzione viene spostata sulle motivazioni interne dell'arte, piuttosto che sulle sue formule produttive, il che corrisponde a considerare il «perché» dell'agire artistico invece di dedicarsi esclusivamente al «come»: « È in effetti il perché che deve determinare il come, allo stesso modo che la forma determina la raffigurazione» (A.K. Coomaraswany). Ecco che l'atteggiamento di Dokoupil si colloca vicino a chi desidera criteri più rigorosi di analisi e valutazione, invece di affidarsi alla legge della domanda e dell'offerta imposta dal mercato. In un certo tipo d'impostazione «scientifica» si possono agevolmente trovare altre indicazioni utili ali'ossatura teorica dei lavori in questione. sapere scientifico fattori di natura non razionale, non suscettibili di essere ordinati entro una metodologia prescrittiva» (Aldo Gargani). Rifiutare il carattere logico, consequenziale, del sapere ha permesso l'ingresso di valenze extralogiche, risultate vitali per una condotta intellettuale che doveva affrontare stimoli sempre piu complessi: «Non c'è alcun cammino logico dalle esperienze immediate al sistema degli assiomi, bensì soltanto una connessione intuitiva (psicologica), la quale è sempre valida fino a nuovo ordine» (Einstein). Einstein J iri Georg Dokoupil nasce nel 1954 a Krnov, in Cecoslovacchia, e si trasferisce nel 1968 in Germania, dove in capo a qualche anno decide di abbandonare gli studi di fisica e matematica per dedicarsi alla pittura. Fin da giovanissimo si fa notare e già nel 1984 quattro musei europei ospitano una sua ampia personale, che egli affronta con slancio e spregiudicatezza di picassiana memoria. Dai sedici «cicli» di opere presentati, estremamente diversi tra loro, emerge immediatamente la maggiore caratteristica del suo lessico artistico: il travalicamento del concetto attuale di «stile», che viene identificato come responsabile di più di una distorsione all'interno del sistema artistico. Un «ciclo» di lavori è in questo caso, invece, un insieme omogeneo ed essenziale, che passa da alcune premesse ad altre, sviluppandosi continuamente, fino ad arrivare alla conclusione, che giunge Dokoupil come artista si è affermato quasi contemporaneamente ad un gruppo Mn preciso di pittori tedeschi, denominati «Nuovi Selvaggi» o più genericamente «Neo-Espressionisti», ma questo non basta per collocarlo semplicemente a fianco dei suoi coetanei. La particolare eterogeneità del suo materiale visivo rende estremamente complesso individuarne gli elementi strutturali. Egli appare irriducibile alle indagini correnti, sgusciando fra le maglie di tutte le classificazioni, anche quella di «postmodernismo» in cui il suo carattere eclettico sembrerebbe relegarlo. L'ermeneutica artistica classica, lungi dall'essere una metodologia superata, muove da/l'individuazione di premesse ed innovazioni stilistiche, riconducendo tutti gli sviluppi successivi ad una gerarchia digradante di valori. Il concetto di stile, utilizzato come referente sia collettivo che individuale, si è sempre più ipostatizzato entro norme prescrittive che, nel momento in cui vengono definite, già presuppongono gran parte dei passi seguenti, delle opere e degli autori posteriori, i quali diventano così come i corollari di un teorema. Fondandosi sull'erronea convinzione che ogni artista o tendenza abbia non più di un'«anima», tale ermeneutica mira a stravolgere i dati del reale, riconduquando subentra una nuova energia creativa. Inizio e fine non sono gerarchicamente ordinati, ma sono entrambi poli a cui significativamente riferire la produzione artistica. Un «ciclo» è un insieme che si giustifica dall' «interno» in base alla propria coerenza ed efficacia, e non a seconda della magLa formazione culturale di Dokoupil non può essere dissociata dalla figura paterna, un ingegnereinventore, e da quella della nonna, una delle prime cecoslovacche laureatesi in fisica e dedicatesi alla professione di «scienziato». Proprio in campo fisico si è avviato quel processo di revisione della razionalità classica, che ha permesso di allentare il vincolo di schematismi concettuali sempre più incapaci di «comprendere» la realtà: «Con Mach e Einstein hanno fatto irruzione nell'analisi del La logica del sistema dell'arte spesso organizza rigidamente e meccanicamente il codice dei valori, tanto da costringere gli artisti a una costante e stressante attenzione all'andamento del mercato. Affidandosi a motivazioni decisamente extralogiche, il lavoro di Dokoupil riscopre la possibilità di guardare ali'«esterno», ben oltre i confini del sistema. Sarebbe anche possibile, ma vi accenniamo solo brevemente, rintracciare una precisa serie di artisti, da Picasso, a Picabia a Polke, che si sono sottratti ad ogni tentativo di razionalizzare il loro percorso artistico, e che, con Dokoupil, sono il simbolo di una libertà intellettuale, che sembra essere l'unico fondamento della «ricerca» nel- /' arte. Gian Piero Vincenzo Jiri Georg Dokoupil Studio Marconi Ottobre 1987 Sommario A più voci I premi letterari 19 punti pagina 3 Dorothy Parker Duci a ruota libera, in «The New Yorker», September 15, 1928 pagine 4-5 Francesco Leonetti Dissidio di correnti o virtù di autori? pagine 5-6 Carlo Formenti Politeismo e disincanto pagine 6-7 D'Annunzio a Yale Conversazione tra Niva Lorenzini, Antonio Porta, Paolo Valesio pagine 7-9 Giuseppe Bartolucci Teatro: suona l'allarme pagina 9 Maurizio Ferraris 7 dubbi sul neobarocco pagina 10 Omar Calabrese L'ammazzasette pagina 11 I pacchetti di Alfabeta Giancarlo Ferretti Il testo secondo Stanley Fish (C'è un testo in questaclasse?, di S. Fish) pagina 12 Avviso ai lettori e ai collaboratori Col numero 101 «Alfabeta» intraprende una nuova serie. I suoi caratteri sono: un sostanziale cambiamento della impostazione grafica, una più precisa articolazione delle sezioni, la differenziazione della lunghezza degli articoli in funzione dei loro diversi caratteri (recensivo, iuformativo, critico, teorico, ecc.). La prima sezione, A più voci, ospita opinioni d'autore su argomenti di attività culturale e politica («Taccuini»), serie di interventi su problemi teorici di fondo («Temi»), registrazioni di dibattiti su temi e liGiuseppina Restivo Sulla teoria letteraria (Avviamento all'analisi del testo letterario,di C. Segre;L'invenzione della tradizione, di A. Tagliaferri) pagine 13-15 Ubaldo Fadini Individualismo vecchio e nuovo (L'individualismo proprietario e Neo-individualismoe massificazione, di P. Barcellona) pagine 15-17 Bruno Accarino Contratto sociale: crisi di un revival (Il contratto sociale nella filosofia politica moderna, a cura di G. Duso) pagina 17 Renato Barilli Destini incrociati (Il colore del destino, di Lucentini & Fruttero;El paseo de Gracia,di MarioSoldati) pagine 18-19 Mario Spinella Scrittrici nel paesaggio (Golfo del paradiso, di G. Lagorio;Angelo a Berlino, di G. Morandini) pagina 19 Cfr Cfr/da Berlino pagina 21 Cfr/da New York pagina 22 Cfr/Riviste pagina 22-23 Cfr/Convegni pagine 23-24 bri, conversazioni e interviste («Intorno al tavolo»). Tutti i pezzi relativi a questa prima parte (meno le conversazioni) non devono superare le 3-4 cartelle da 2000 battute. La sezione denominata I pacchetti di Alfabeta raccoglie i consueti percorsi critici attraverso più libri, che non devono ora superare le 5 cartelle da 2000 battute. Nelle pagine centrali della rivista è inserito il Cfr, articolato in sezioni dedicate, rispettivamente, ai servizi dall'estero, ai convegni, alle mostre, alle riviste, alle rassegne, agli spettacoli; la sigla «Altri libri» seCfr/Rassegne pagine 24-27 Cfr/Altri libri pagine 27-29 Cfr/Mostre pagina 29 I pacchetti di Alfabeta Gaspare Polizzi Heisenberg filosofo (WernerHeisenberg.La filosofia di un fisico, di G. Gembillo) pagina 31 Eleonora Fiorani L'incontro con la terra (L'uomo e la terra, di E. Dardel) pagine 31-32 Attilio Mangano Bataille in discussione (GeorgeBataille:il politico e il sacro, a cura di J. Risset) pagine 32-33 Sergio Benvenuto Il bello e Gadamer (L'attualità del bello, di G. Gadamer; Letteraturae dialogo, di AA. VV.) pagine 33-35 Francesco Casetti Gli obiettivi del cinema (Concepts in Film Theory e Film in the Aura of Art, di D. Andrew; Film come esperienza, di E. Bruno;Abiti nuziali e bigliettidi banca, di M. Grande; Narration in Fiction Film, di D. Bordwell; The classica/ Hollywood Cinema, di AA. VV.; L'imagf, et l'imaginaire, in «Hors Cadre»; Cinéma & Narration,in «Iris») pagina 35 gnala la produzione della piccola editoria di qualità (le recensioni brevi dedicate alla produzione della media e grande editoria non sono più inserite nel «Cfr», bensì nei «Pacchetti di Alfabeta»); questi materiali non devono superare le 2-3 cartelle da 2000 battute. Lo spazio per interventi lunghi è previsto nella sezione Saggi, che riguarda gli scritti teoricamente più impegnativi, e prevede anche la possibilità di anticipare capitoli di libri in via di pubblicazione e di proseguire il lavoro di documentazione dei materiali più interessanti dai Saggi Umberto Eco L'irrazionale ieri e oggi pagine 36-38 Alberto Boatto La Terra, la vertigine pagine 39-40 Prove d'artista Prova d'artista grafica Giampaolo Guerrini pagina 41 Gianfranco Baruchello Temi ed esercizi di media difficoltà pagine 43-44 Biancamaria Frabotta La gelosia è quello che è pagine 45-46 Lamberto Pignotti Terzo grado pagina 47 Le immagini di questo numero Jiri Georg Dokoupil di Gian Piero Vincenzo Errata corrige Nel numero 98/99 (luglio-agosto 1987), a p. IV del Supplemento letterario, è stata pubblicata una poesia di Goffredo Parise. La «prova d'artista» grafica che la accompagna non è, come erroneamente indicato, dello stesso Parise, ma di Giosetta Fioroni. convegni, già avviato con la serie «Centri del dibattito». La sezione conclusiva del giornale ospita infine le tradizionali Prove d'artista, cui è dedicato più spazio, e prevede di pubblicare, oltre a poesie e racconti brevi, anche racconti lunghi, e di documentare il lavoro degli artisti. Le collaborazioni devono presentare i seguenti requisiti: a) gli articoli non devono superare i limiti di lunghezza indicati per le singole sezioni, in caso contrario sa- . remo costretti a procedere a tagli; b) gli articoli delle sezioni recensive Mensiledi informazioneculturale della cooperativaAlfabeta Direzione: Nanni Balestrini, Omar Calabrese, Maria Corti, Gino Di Maggio, Umberto Eco, Maurizio Ferraris, Carlo Formenti, Francesco Leonetti, Antonio Porta, Pier Aldo Rovatti, Gianni Sassi, Mario Spinella Paolo Volponi Redazione: Maurizio Ferraris, Carlo Formenti, Francesco Leonetti, Antonio Porta, Pier Aldo Rovatti Art director: Gianni Sassi Grafico: Bruno Trombetti Editing: Studio Asterisco Luisa Cortese Edizioni Intrapresa Cooperativadi promozione culturale devono essere corredati da precisi e dettagliati riferimenti ai libri e/o agli eventi recensiti; nel caso dei libri occorre indicare: autore, titolo, editore (con città e data), numero di pagine e prezzo; c) tutti gli articoli devono essere inviati in triplice copia ed è richiesta l'indicazione del domicilio del collaboratore. Tutti gli articoli inviati alla redazione vengono esaminati, ma la rivista si compone prevalentemente di collaborazioni su commissione. Occorre in fine tenere conto che il criterio indispensabile del lavoro inRedazionee amministrazione: via Caposile 2, 20137 Milano Telefono (02) 592684 Pubblicherelazioni: Monica Palla Autorizzazione del Tribunale di Milano n. 342 del 12.9.1981 Direttoreresponsabile: Leo Paolazzi Composizione: GDB fotocomposizione, via Tagliamento 4 20139 Milano Telefono (02) 5392546 Stampa: Stem S.r.l. 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,I Alfabeta 101 1. A favore dei premi letterari si dice che servono a dare «dignitosamente qualche lira agli scrittori». Obiezione: la «moneta» dei premi è oramai a così basso livello che gli scrittori potrebbero continuare a morire di fame, soprattutto se hanno famiglia. 2. Il costo dei premi letterari. Un «grande» premio come il Campiello costa cinquecento milioni all'anno (la dichiarazione è ufficiale) ma agli scrittori vincenti si danno solo trenta milioni. Ma non servivano a dare soldi agli scrittori? Sì, ma pochi e senza dignità in rapporto ai costi generali. N.B.: il regolamento del Campiello prevede che «devono essere segnalate» dai giurati le opere indipendentemente dalla volontà di autori e editori. Alla luce delle cifre sopra indicate questa «chiamata» può essere definita precettazione o forse meglio: lavoro forzato non retribuito. 3. Ci sono premi senza responsabilità e premi con responsabilità critica. Senza responsabilità sono i premi a giuria «allargata»; quelli con responsabilità critica si impegnano invece in discussioni e motivazioni che coinvolgono in pieno i singoli giurati. Quelli senza responsabilità (leggi: Strega e Super-Campiello) sono i beneamati dalla TV di Stato, che è poi quella che determina l'efficacia, sul piano delle vendite, del premio medesimo. 4. I premi fanno vendere. No, non fanno vendere per niente. Solo due fanno vendere: Strega e Campiello. Non è vero nemmeno questo: in alcuni casi sì, in altri clamorosamente no. Il pubblico fa i dispetti? 5. I premi tentano di conciliare l'inconciliabile: valori e promozione delle vendite, giudizio critico e pubblicità. Quindi perdono sia la capra che i cavoli. 6. Per conciliare quanto sopra, al punto - ' A più voci Taccuini 4., i premi necessariamente eliminano i libri di conflitto, i libri di rottura, e fanno passare i «valori» medi: prose patetiche e liriche, o altro di innocuo, sono le preferite. Gli scrittori «nuovi» che vengono segnalati e lanciati devono avere dato prova di assoluta malafede nella ripetizione di modelli collaudati per inefficacia. 7. Per vincere i premi l'editore gioca d'anticipo e privilegia i libri più facili. 8. Perché i grandi editori impegnano energie e denaro nel concorrere ai premi? Sembra un controsenso, dal momento che i premi non danno neppure la sicurezza di vendere di più. La risposta è semplice: perché sono gli stessi scrittori a richiedere ai grandi editori non solo la normale partecipazione ai premi ma anche garanzie di vittoria. 9. Un piccolo editore di Bologna pubblica tutti gli anni un volumetto-repertorio con tutti i premi previsti. Ne vende 30.000 copie. C'è anche una rivista specializzata in premi letterari e il suo editore gode di buona salute finanziaria. Si calcola che i premi siano circa 2000 all'anno. 10. Ci sono responsabilità gravi degli scrittori in questa situazione? Pare proprio di sì. Se gli scrittori di un certo valore, anche quelli non «facili», fanno tanti capricci e alzano così alti lamenti in prossimità del premio cui ambiscono, perché le migliaia di scrittori di serie B e C e D non do':rebbero reclamare una loro particina nello spettacolo cosiddetto di serie A? 11. I premi hanno premiato troppi libri mediocri e il pubblico ha voltato le spalle agli autori italiani. Il pubblico abbocca una volta, magari anche una seconda, ma poi si stufa (e fa i dispetti). 12. Gli scrittori importanti partecipano ai premi letterari perché dicono di voler vendere un po' di più i loro libri difficili. .. ,,. GtUf o. Cflt UN r!>tORNO Avfo' UNARI v,s-rA $A1IR/eA CoN PG-Ni~O UN JfJ5(R,o PI FI l o50Fl.4,,, Obiezione: ma a chi vogliono vendere, a che tipo di pubblico? A quello che abbocca o a quello che non abbocca? Forse a tutti e due. Effetti dello strabismo da marketing. 13. Poiché gli autori italiani vendono poco, cioè in misura del tutto inadeguata rispetto agli investimenti, i responsabili editoriali si consolano con i premi ricevuti e possono dire agli azionisti insoddisfatti: il Tal dei Tali vende poco, è vero, ma ha vinto un Gran Premio. Scelta'sbagliata scelta premiata, e l'editor si mette in salvo. Di conseguenza l'editor, con altri apparati della Casa editrice, occupa più tempo nelle manovre dei premi che nella selezione delle opere da pubblicare. Ha dunque ragione chi sostiene che l'industria culturale è «impropria». 14. Per essere sicuri di vincere, e tener fede alle garanzie di cui al punto 8., i grandi editori tentano di influenzare le giurie, soprattutto quelle senza responsabilità. Se l'operazione non riesce, ecco la sorpresa. Si premia il libro facile di un editore minore. È lecito, in questo caso, parlare di «sco- ... pagina 3 j perta» letteraria? Gli stessi che sostenevano il valore dei premi fino al giorno prima, in caso di sconfitta dicono subito che le giurie «allargate» sono inattendibili. Pensano dunque che sia più facile avvicinare e persuadere i giurati autorevoli? 15. Per mezzo dei premi la società letteraria esercita il suo potere in forma ritualizzata. Eliminare il rito dei premi comporterebbe, in premessa o come conseguenza, l'abolizione o l'iJ.utocancellazione della medesima società letteraria. 16. I premi possono essere modificati, migliorati, accentuandone la responsabilità critica, che a sua volta dovrebbe essere oggetto di critica. 17. Una vera modifica sarebbe questa: trasformare i premi in borse di studio, come quelle delle foundations negli U.S.A. Un comitato scientifico sceglie uno scrittore e lo stipendia adeguatamente per qualche anno (per esempio 100.000 dollari in quattro anni). Lo scrittore autenticamente beneficiato può scrivere quello che gli pare, facile o difficile, tanto sa di poter campare, almeno per quei quattro anni. 18. Una raccomandazione. Le giurie dei premi «con responsabilità» non devono essere troppo numerose. Se ci sono troppi giurati autorevoli (16, 21 ecc.) si è costretti a soluzioni di compromesso. Poiché molti giurati autorevoli sono anche eminenti cattedrattici, i riti univérsitari si sovrappongono a quelli della società letteraria. La lotta, in questi casi, divampa tra due opposte ritualità e gli scrittori rischiano di rimanere schiacciati come noci. 19. Le opinioni autorevoli qui riportate sono state tutte regolarmente espresse in luoghi pubblici vari e in alcuni casi anche scritte su giornali o riviste. Non sono tutte da buttare. *** ..

I pagina 4 .. I l signor Benito Mussolini, ancora ai tempi in cui portava camicie bianche, caso mai ne abbia portate, ha scritto un libro. Che è stato ora tradotto in inglese e troneggia in alte pile sui banconi di tutte le librerie. Si intitola L'amante del Cardinale. Proprio quando sembra che le cose siano leggermente migliorate, ecco che salta fuori che il Mussolini ha nel suo curriculum romanzi sulle amanti dei prelati. Insomma, miei cari signori, la vita è fatta così. A volte mi verrebbe voglia di mollare tutto e trasformarmi in una specie di matrioska seduta tutto il giorno sulla stufa a mugugnare. Pare altresì che Il Duce sia stato preso da uno di quegli antiquati attacchi d'ira funesta tipicamente latini, a causa della traduzione e pubblicazione della sua gemma letteraria. Il che sarebbe, a mio avviso, l'unico motivo di rallegrarsi di tutta la vicenda. Perché, ragazzi, qualsiasi cosa renda Mussolini livido, per me è pura goduria. Se solo potessi vivere di rendita manderei tutto a A più voci .. - • carte quarantotto e dedicherei quel poco che resta della mia esistenza a prendere in giro il Dittatore dell'Itala Stirpe. Se qualcuno putacaso vi venisse a dire che fra tutti i personaggi storici Mussolini è in cima alla mia classifica, fatemi ·il piacere di rispondergli che un'idea del genere fa _ridere i polli. Dichiaro fermamente che un simile personaggio non è proprio il mio genere, anzi, come direbbe Walter ..Winchell, il «mio generino». A essere sinceri, un mio sogno ricorrente è fatto di scene in cui lo rimbalzo per benino con questo vocativo: «Oh, Il Duce, ottuso testone vanesio!» L'amante del cardinale fu scritto quando Mussolini era un astuto ragazzotto di ventisei anni, età in cui era segretario della Camera del Lavoro socialista. Il suo salario ammontava a ventiquattro dollari al mese più l'uso del locale, ed egli sbarcava il lunario - non ha mai avuto il becco di un quattrino - dando lezioni di francese e inse- . guendo letterarie chimere. Per questo libro, uscito dapprima a puntate, escogitò il , ........ .;. • titolo: Claudia Particella, L'Amante del Cardinale: Grande Romanzo dei Tempi del Cardinale Emanuele Madruzzo. So bene, dalla lettura dei giornali, che coloro che osano essere in disaccordo col Dittatore corrono gravi rischi; perciò mi limiterò ad osservare sommessamente che se L'amante del Cardinale è un grande romanzo, io sono Alexandre Dumas père et fils. Il radioso giorno in cui L'amante del Cardinale ha fatto il suo ingresso negli uffici di questa fortunata rivista, mi sono letteralmente messa ad implorare: «La prego, direttore, questo libro lo affidi a me. Non chiedo un centesimo per la recensione, lo giuro. Anzi lo faccio gratis. Anzi, pago il privilegio di tasca mia». Be', naturalmente non ne vollero neppure sentir parlare - o almeno così spero ardentemente - però ho avuto il libro. Riguardo al quale ero piena di buone intenzioni. Ero sicura che mi sarei divertita un sacco. Mi ripromettevo di sbeffeggiarlo fino alle budella, come dite voi americani (!es tripes). Finalmente, pensaAlfabeta 101 I ' vo, era giunto il mio grande momento per additare al mondo questo pezzo di fesso di Mussolini. Una vera e propria vacanza romana, ecco cosa assaporavo. Be', la beffa mi si è ritorta contro. Purtroppo non sarò in grado di produrre le facezie sperate in merito al capolavoro di Mussolini, perché non riesco assolutamente ad afferrare il filo di tutta la storia. E sì che ci ho provato. Dio sa se ci ho provato. Ho faticato, per usare la similitudine linguisticamente meno adatta, come un cane. Ho indossato i vestiti più logori (non senza appendere con cura nell'armadio i più logori in seconda), mi sono negata ai creditori, ho puntellato la scrivania contro la porta e mi sono messa al lavoro. Ma ogni sforzo è risultato vano. La verità è che quel libro ha avuto il sopravvento su di me dal mom.ento in cui ho lacerato l'involucro fino all'istante in cui, con la testa che mi girava, sono crollata sul letto esausta. Non sono riuscita a dare capo né coda, e neppure a concentrarmi, sulla vicenda.

Alfabeta 101 A più voci pagina s 1 Per onestà verso l'autore - e devo innestare la marcia inferiore ogni volta che mi sforzo di controllarmi nei riguardi di quel tipo - mi corre l'obbligo di ammettere che con qualsiasi libro del genere de L'amante del Cardinale regredisco all'intelligenza del Pliocene. Quando mi trovo di fronte un romanzo storico che comincia: «Dalle piccole chiese nascoste tra il verde rigermogliato delle valli, l'Ave Maria della sera veniva dolcemente a morire sul lago», il niio unico desiderio è di venire anch'io dolcemente a morire, senza stare a sottilizzare se sul lago o all'asciutto. Continuo a leggere di una signora i cui occhi «sapevan9 la malia delle velenose passioni», e il mio unico desiderio è di farglieli chiudere per sempre, quegli occhi. E inoltre mi trovo in mezzo a un vortice di personaggi chiamati il Conte di Castelnuovo e Don Benizio e Cari Emanuel Madruzzo, Cardinale e Arcivescovo di Trento e Vescovo Principe del Trentino, e Filiberta, e Madonna Claudia - e' a quel punto tutto mi si annebbia. Mi accorgo che non arriverò mai a capire chi è chi, e da che parte sta, e che potrei benissimo abbandonare l'impari lotta. politici e ~ottili veleni, e novizie dal cuore spezzato che muoiono nei conventi e cavalieri misteriosi che fuggono saettando in nuvole di polvere e altri personaggi in tono con la vicenda, e compagnia bella. Ma cose del genere non fanno per me. Persino quando è roba decente il sonno mi sopraffà prima di arrivare a metà del libro. allungato di una scena in cui io dico a Mussolini: «E come se non bastasse, lei, vecchio Duce, non è neppure capace di scrivere un libro intelligibile!» Già mi figuro l'espressione ebete che gli si dipingerebbe in faccia. Dorothy Parker (1893-1967) fu una fragile ebrea mezza scozzese di New York, maestra nel racconto breve, nel dialogo e in acrobatici solilo-. qui: nitidissime rapide sequenze dove si coglie il senso di una vita. Fu altresì una grande cultrice del tema della morte e del disfacimento, come testimoniano quasi tutti i suoi titoli: Enough Rope (poesie), ~nset Gun (poesie), Laments for the Living (racconti), Death and Taxes (poesie), After Such Pleasures (racconti), Not So Deep As a Well (poesie), Here Lies, raccolta di racconti tradotta in Italia da Montale nel 1941 per Bompiani con l'infelice titolo Il mio mondo è qui. Un suicidio è il tema di The Big Bionde, racconto lungo che le valse il Premio O'Henry nel 1930. Altri racconti e alcune poesie dal Portable Dorothy Parke, uscito nel 1944 dalla Viking Press sono apparsi in Italia nella traduzione di Marisa Caramella per La Tartaruga nel 1973 col titolo Tanto vale vivere. lizzate. Le sue poesie, fulminee strofette al limite del limerick, di carattere spesso aforistico, tutte giocate sulla velocità e sulla rima, le dettero la fama assegnandole un ruolo di protagonista nello smart set letterario che faceva capo ali' Algonquin Hotel. Ruolo apparentemente inconciliabile con il suo coerente impegno politico: dalle manifestazioni per Sacco e Vanzetti ai vividi reportages dalla guerra civile spagnola, alle accuse di filocomunismo nel secondo dopoguerra, all'appoggio dato a Martin Luther King, che designò suo erede universale: ma, tutto questo, in sordina, in una vita sempre in bilico fra eleganza e disastro. Pare che succedano un sacco di cose nel- !' Amante del Cardinale. Ci sono intrighi A mio avviso, l'unico elemento positivo del libro è la prefazione di Hiram Motherwell, che ha anche tradotto il romanzo. Mr. Motherwell scrive la sua introduzione con una serietà irreprensibile, quasi solenne, comportandosi con il Duce come se si trattasse di un vero scrittore; eppure c'è qualcosa a questo proposito che fa intuire ad un lettore attento che il traduttore potrebbe tranquillamente cavarsela lo stesso se si tenesse alla larga per qualche tempo dal poco rassicurante clima italiano. C'è da augurarsi che decida per qualche sito simpatico e ben lontano - tipo New York, diciamo - come rifugio ideale per l'inverno. Per quanto spossata dall'ardua prova, non sarò certo io a rimpiangere il tempo e lo sforzo che ho messo nel mio tentativo di leggere L'amante del Cardinale. Il libro ha considerevolmente allargato quel sogno ricorrente di cui parlavo prima, che ora si è Il suo magistrale «parlato» restituisce le ore piccole nei cafés di Manhattan, i moderni appartamenti e le solitudini dei pomeriggi, il disagio delle coppie, le bevute e i tentati suicidi, le madri disattente, le stanze d'albergo - e l'estrema pietà di tutto. Ma sono anche vivissimi ritratti, di un sarcasmo implacabile e feroce, puntualissimo, di ottuse presunzioni e di sopraffazioni istituzionaIndignazione, insofferenza, fragilità nervosa, umorismo: Dorothy Parker, contemporanea di Hemingway e di Fitzgerald, apre un nuovo filone cittadino newyorkese della narrativa americana, al quale, via Grace Paley e certo Woody Allen, guarda sicuramente con attenzione la nuova generazione di scrittori cosiddetti minimalisti. Collaboratrice di «Vanity Fair», «Esquire» e «The New Yorker», dove le era affidata la rubrica Constant Reader, vi scrisse per anni recensioni letterarie. Non sembra privo di interesse riproporre la sua recensione, che risale al 1928, de L'amante del Cardinale di Benito Mussolini, da lei altrove definito Little Bennie o anche «Nathalia Crane italiana» (undicenne poetessa prodigio dell'epoca). Il romanzo, uscito a puntate su «Il Popolo» nel 1910, viene infatti oggi riproposto in Italia (cfr. Umberto Eco, «L'Espresso», 1 febbraio 1987) dall'editore Reverdito, con nutrita prefazione di Santi Corvaja. Laura Barile Temi.Tradizione del nuovo Dissidio di correnti • o Con questo primo scritto e con altri successivi, «Alfabeta» intende aprire un dibattito sul metodo critico per l'arte e la letteratura nuova, riferendosi alle discussioni già in corso. U n'arietta circola in Europa e negli States. Certo è pesante la cappa del!'«effetto serra» che la grande produzione vuole tenere su noi con la sua strategia degli ottanta: riprivate le aziende, selettivi gli alti studi connessi all'industria, autofertilizzanti le macchine di massima energia, poco lavoro umano futuro .. : C'è pure qualche soffio di arietta del vecchio «nuovo» moderno ... O no? Tutti guardiamo le mappe tedesche e consultiamo il Katalog che è volume secondo del terzetto di Kassel (e già in «Alfabeta» Fagone commissario ha parlato del neomoderno, con relativa «criticità» habermasiana, conversando con Antonio Porta, n. 96, maggio). L'opinione critica che corre di più parla con disagio ostile di «una cultura oppositiva», e «di un'arte sociale, di un'arte utopica» proposte a Kassel, «dove il citare o l'attraversamento stilistico non erano un copiare, ma il trovare delle forme e assemblarle alla stregua di un'operazione duchampiana»; e ci sono le vistose assenze «dei migliori esempi teutonici della nuova arte contestuale» (leggo G. Di Pietrantonio, e poi C. Christov-Bakargiev, in «Flash Art» estate 87, mensile d'arte dove ha proliferato bene in termini rispettabili di una nuova critica il filone della Transavanguardia). Io ritengo che la situazione autentica della ricerca artistica-letteraria di oggi non attinga ancora a un «nuovo» in rapporto con le punte del 60, col loro sperimentalismo e con i loro problemi di statuto linguistico; ma certo oggi si procede a smontare o verificare più sottilmente il decennio scorso col suo pittoricismo, con la sua ripresa di un figurativo riferibile per lo più a De ·chirico e a Carrà (che sono i soli buoni nell'ultimo volume della grande storia di Zeri) e con la sua fortuna commerciale enorme. Ma una scoperta comincia, vedendo e sfogliando, poi con osservazioni in casa: e consiste nel fatto, specie tedesco e americano ma ben diffuso, che le .correnti d'aria del Novecento secondo, quello di dopo il 45 e delle nuove avanguardie attorno al 60, fra grande progetto perso e rigori dell'iodi autori? Francesco Leonetti venzione formale, siano correnti resistite in questo dannato riflusso, recessione, oppure immersioni nei fanghi. Per esempio, accanto a un nuovo Morris magistrale, si legge che ricompariscono: il neoconcettuale (in modi e filoni diversi) l'assemblaggismo (Cragg, 49, Liverpool ecc.); i minimalisti (Banchet, 48, Paris, Burton, 39, Greensboro ecc.); il macchinico immaginario (Baquié, 52, Marseille); il neodada, e anche il neopop (Rollins, 55, Pittsfield, e altri del Group Materiai); l'ambientalismo e la scultura-ambiente (Drescher, 55, Karlsruhe); e il trattamento visivo della denuncia politica (Haacke, 36, Koln); e i seguiti del neoespressionismo che attorno all'80 erano, come ebbi già lunga occasione di dire (in «Alfabeta», estate 85) il nuovo interessante: vedi qui Applebroog, 29, New York ecc. Ho scelto le più varie date generazionali e provenienze, nella serie sommaria di esempi. E voglio aggiungere che Documenta 8 mischia pure con grazia il design italiano e il postmoderno, per esempio i tavolini di Bustamante; e non presenta granché di quel fitto lavoro artistico d'intervento linguistico sociale che, per esempio, Dan Cameron in un suo saggio di attento rilievo teorico connette al periodo americano glorioso di Johns e di Rauschenberg, e oggi ha con Holzer e Kruger e ancora Rollins i consapevoli portatori (il saggio è nello stesso numero di «Flash Art»). La letteratura si sa che è più tarda, assestata, circospetta, doppiopetta. C'è anzi un grosso problema teorico in questa differenzialità. L'arte si vede già dalle vetrine durante le vernici (e si deve camminare tanto). La letteratura, pur senza la lettura stilcritica rallentata mirante alle sillabe e ai nessi, chiede intere notti. Tutto il multimediale è colpo d'occhio spettacolare e persuasione occulta. È duro apprendimento il referenziale che nel letterario c'è (in senso semantico) e non c'è (perché non è direttamente accettabile). Il mercato artistico decide il terribile nesso stretto fra «valore» e «valore di scambio», o prezzo; mentre in quello letterario c'è solo un'eco ... Per esempio nella narrativa italiana giovane si respira solo con Lacatena e Comolli, e già vengono tenuti ai margini ... In letteratura insomma l'arietta è più rara; ma la continuazione delle grandi ricerche dei nostri tempi attorno al 60 c'è pure. Ora vorrei qui porre subito, nell'incertezza iniziale su questo soffio movimentato e intermittente, un quesito teorico-critico squisito. E per spiegarlo bene apro per esempio due libri recenti di Achille Bonito Oliva. La tempestività e l'accortezza che sono sue, nelle sue ricognizioni con piede lento e sicuro ovunque, sono fortunatissime e degne di ammirazione. Ora dice nel suo Progetto dolce (Milano, Nuova Prearo Editore, 1987): «Il rigore diventa un'istanza morale dell'opera, l'approfondimento linguistico un momento che connota il lavoro creativo, fuori da ogni retorica immediatezza espressiva»; «dopo l'apertura a ventaglio verso la produzione artistica del passato, ora questi artisti sembrano ritrovare la loro fiducia nelle ascendenze culturali portatrici di un ordine linguistico oggettivamente valutabile con i parametri della forma». Ottimi giudizi; ma si osservi già qui la funzione speciale che al periodo e al gruppo della Transavanguardia è serbato e riservato da Bonito Oliva: qui è l'apertura di «attenzione al passato»; poco oltre è un' «opera di azzeramento», che ora favorirebbe il nuovo. Ma questi artisti successivi, che secondo lo stesso grande critico mirano a «un rapporto di organica compenetrazione (con le cose) che ricorda la tensione verso la totalità delle avanguardie storiche», sono in un preciso dissidio differenziante verso quella «attenzione al passato». I noltre: a chi si riferisce Bonito Oliva con tale progettualità che non investe la nozione di progetto in senso pieno, ma è dolce, e come tale è «idea di costruzione del prodotto della fantasia»? La definizione è ben giocata, ha qualità, riguarda, come è giusto la linguisticità di un'opera d'arte; e però, per noi, «progetto» comporta una formalizzazione così rigorosa che incida nel contesto. Pare che Bonito Oliva rivolga le sue cure ai prosecutori della Transavanguardia, a fianco di altri diversamente decisi: Arcangelo e Bianchi, Ceccobelli e Tirelli, e Nunzio; e Dynys e Sanjust. E sono tutti artisti nati a cavallo del 55, sotto l'influenza dei grandi lanci (Clemente, Chia, Cucchi, De Maria, Paladino, pur diversi fra loro); i successivi scelti qui hanno magari altri loro puntigli; ma tutto il discorso di Bonito Oliva è giusto per il 60 piuttosto attivo ancora nelle accademie e

pagina 6 nella formazione; e alcuni di questi saranno i primi del periodo che punta alla ripresa del «nuovo» e sboccherà nel 90, nettamente, forse ... Ora ii discorso confonde i tempi. Nel grosso tessuto degli scritti di scelta, organizzazione di mostre, indirizzo, valorizzazione, che costituisce il volume Antipatia (Milano, Feltrinelli, 1987) sono chiari presso Bonito Oliva gli stessi elementi. E li elenco: a) i riferimenti ai teorici: Lacan è citato a p. 19, si giunge sino a p. 60 con citazioni di Nietzsche e dei concetti inoltre di nomadismo e anche di turbolenza e di fluttuazione (Prigogine), con un Benjamin a mio parere frainteso, perché proposto in una diade costante di «mito e allegoria»; b) la serie di saggi sulla maturità di alcuni artisti della Transavanguardia, con ricupero mescolato di grandi delle avanguardie recenti e passate (Grosz, Depero, Beuys, Matta, Duchamp e anche Fabro); c) e alcuni più giovani artisti sono posti in rapporto di conseguenza coll'attenzione al passato e la «citazione» della Transavanguardia. Che ha azzerato certi precedenti, qui non precisati. E che sono, diciamolo: il concettualismo, l'arte povera e altre avanguardie del 60: ciò che riappare a Kassel. Con questo primo scritto, «Alfabeta» intende contribuire al dibattito in corso su diversi nodi tv>rici del pensiero politico della sinistra, ricapitolando in particolare alcune posizioni che si sono recentemente espresse sulle pagine della rivista «MicroMega», e proponendosi di ospitare ulteriori interventi su questa tematica. << Le ragioni della sinistra» recita il sottotitolo della rivista «MicroMega», che quindi sostiene la differenza della sinistra nell'orizzonte di una modernità malinconicamente attestata sulla trincea della «democrazia reale», e rifiuta di accettare l'irreversibilità di fenomeni come la partitizzazione e la corporativizzazione della vita sociale, la professionalizzazione della politica e la non partecipazione dei cittadini alle decisioni. In un suo recente, provocatorio intervento (In morte del riformismo, «MicroMega», n. 2, 1987) Massimo Cacciari ha tuttavia messo radicalmente in dubbio l'esistenza stessa di tali ragioni. Cacciari denuncia la sostanziale identità tra il principio moderno di rappresentanza politica e la tradizione di un linguaggio della sinistra che «ritiene legittima la dimensione statuale soltanto nella misura in cui essa rappresenti-esprima il movimento, il processo della soggettività, in cui essa appaia teofania della soggettività che si va storicamente emancipando da ogni vincolo tradizionale, da ogni religio»; concezione che nasce dalla distinzione-contrapposizione fra movimenti della vita civile e potere costituito. E tuttavia, al legame che si stabilisce fra questi due fattori attraverso la rappresentazione, è oggi subentrata «l'identità confusa, caotica che si stabilisce tra una 'società civile' che è multiverso di interessi costituiti e corporativisticamente organizzati e un ceto politico che o si confonde con essi o si costituisce esso stesso a specifico, parziale interesse corporato». Secondo Cacciari lamentarsi di questa situazione appare tuttavia pateticamente assurdo nel momento in cui si è indotti ad ammettere che il linguaggio della sinistra è oggi il linguaggio politico europeo, il cui senso esiste qui e ora in quanto «formidabile sviluppo di tutte quelle forme della democrazia di massa che organizzano la volontà di potenza dei diversi soggetti: partiti, sindacati, nuove forme corporate degli interessi costituiti». In breve: il principio di rappresentanza divora se stesso, per cui ogni progetto di riforma che fa appello alla teoria e alla pratica democratiche della sinistra è inevitabilmente votato allo scacco. L'intervento di Cacciari è tuttavia eccentrico rispetto a un dibattito che si prolunga da tempo sulle pagine della rivista, e che ha avuto come uno dei principali punti di riferimento un lungo saggio di Paolo Flores d'Arcais (Il disincanto tradito, «MicroMega», n. 2, 1986) che prendeva a sua volta avvio dalla critica dell'idea di democrazia come rappresentanza di interessi, alla quale contrapponeva una concezione della democrazia come libero confronto delle opinioni disinteressate, un modello «partecipativo» ispirato alla tradizione della polis greca e alla filosofia politica di Hannah Arendt. Qui non intendo però occuparmi di questi aspetti propositivi del contributo di Flores D'Arcais, ma piuttosto mettere in luce come egli, diversamente da Cacciari, consideri la «democrazia reale» non come esito necessario del disincanto, bensì come «tradimento» del disincanto, come conseguenza dell'incapacità, da parte della sinistra, di conA più voci Non intendo affatto polemizzare (Bonito Oliva direbbe che io tengo alle ideologie, e io, allora, che il termine-concetto di ideologia è parzializzante e nero, per me). Intendo riferirmi anzi al suo come al miglior modo, oggi, di escludere le tendenze, e invece curare le individualità e le loro operazioni come singole e sempre avvicinate. Bonito Oliva non si è interessato degli «anacronisti» (Mariani in testa) con quella pittura «colta» secondo Italo Mussa che ha qualche ironia sua propria (un pennello infilato nell'ano) e tutti i suoi gessosi personaggi del passatismo trionfante. Tuttavia è la virtù degli autori che Bonito Oliva vede esclusivamente. L'altro orientamento di vaglio critico si può dire: dissidio delle correnti. È il vecchio dibattito, con schieramento di idee. Certo non distoglie dalla valutazione sulla qualità di un artista individualmente inteso; premette, solo, fattori percettivi, stilistici-linguistici, e anche semantici e contestuali, certo, in quanto non ritiene che ognuno parta da zero, come pensava Croce. Quanti settarismi ci sono stati, col dissidio delle correnti, un tempo e anche venti anni fa. Ma senza dibattito di posizioni vien meno il Novecento, e vien meno anche la storia Carlo Formenti servare e sviluppare il nucleo originario del progetto moderno. Il.«disincanto tradito», sarebbe, in sostanza, conseguenza di un punto di vista che concepisce la storia ancora in termini di necessità naturale, della convinzione che esistano «leggi» di sviluppo della società umana, concezione che induce fatalmente a ingiustificate trasposizioni delle categorie epistemologiche delle scienze naturali in campo etico. Le origini del mondo moderno coincidono viceversa, secondo Flores D' Arcais, con la rigorosa distinzione fra legge e norma, fra la necessità che governa i fenomeni della natura e il dovere che è artificialità, regola sociale che nasce dal rapporto fra individui liberi e responsabili delle loro scelte. Solo conservando questa distinzione è possibile mantenere la promessa della modernità, secondo la quale il mondo sarà il rriondo per l'individuo. Il politeismo moderno va difeso contro ogni tentazione di rifondare una «teologia politica»; il progetto politico moderno è fedele ai presupposti solo se assume alla lettera la sentenza sulla morte di Dio: l'unica fonte di senso politico sono le nostre azioni e decisioni, che devono essere concepite come libere e responsabili da sovradeterminazioni, rifiutando di elevare la necessità storica (economica, biologica ecc.) a nuovo principio trascendentale. Ma chi decide? Secondo Flores D'Arcais il soggetto della decisione dev'essere, senza equivoci, l'individuo-cittadino. La promessa del moderno non è realizzata se il soggetto Alfabeta 101 degli stili. Il dibattito è quando Filiberto Menna e Lea Vergine anni fa criticarono duramente la biennale di Calvesi. È nel rapporto fra passione del cambiamento e ricerca formale, posto da tanti artisti del dopoguerra in antitesi a Guttuso. È nel neorazionalismo degli epistemologi del 50. È nel dibattito letterario così di Pasolini coine di Sanguineti. Forse siamo stati guastati oggi dall'eclettismo, oltre che dai media? Vale ancora, e non solo nella scienza ma anche nell'arte, la nozione di «compatibilità» (Stegmiiller) che da qualche anno definisce la modellistica, valorizzando la coesistenza di teorie come puri sistemi convenienti di simulazione, nella rinuncia inevitabile a una certezza del reale? È criterio pragmatico e operativo stretto, indispensabile forse in un tale campo, oggi. Non vale dove non serve la combinazione. Dove serve distinguere, discernere, descrivere criticamente, comprendere i presupposti, inferire i nessi dal linguaggio artistico e letterario, senza alcun settarismo, ma contrapponendosi a chi per la propria ideologica neutralità tira fuori «l'arte sociale» che oggi ritornerebbe, o tira fuori al contrario che tornerebbe «il grande freddo». Si deve aiutare con precisione aperta il nuovo lavoro. politico non coincide effettivamente con quella irriducibile differenza concreta che è l'individuo. La partecipazione degli individui alla vita politica dev'essere strenuamente difesa, promuovendo il confronto delle opinioni che non vanno incanalate dalle cattive mediazioni degli interessi istituzionalizzati, quindi, promuovendo una vigorosa opera di departitizzazione della vita sociale e di deprofessionalizzazione della vita politica. Ai due punti di vista che ho appena schematicamente delineato intendo contrapporre i seguenti argomenti, telegraficamente enunciati come tesi da offrire a una discussione: 1. il disincanto radicale non è compatibile solo con un progetto di democrazia partecipativa (comunque lo si intenda: come utopia, principio regolativo o ideale normativo) ma anche, e soprattutto, con l'assolutismo moderno; 2. la vocazione «impolitica» del pensiero della sinistra dev'essere conservata e sviluppata, liberandola dalla opposta vocazione «statalista» che con essa convive; 3. il politeismo moderno non è disincanto ma una nuova forma di teologia politica che trova la sua rappresentazione più matura nell'idea di complessità, elaborata in ambito epistemologico, da assumere positivamente quale presupposto di una critica del soggetto politico senza la quale nessun progetto di emancipazione dell'individuo appare praticabile. F lores D' Arcais è tanto consapevole della difficoltà che ho appena enunciato al primo punto che mette la mani avanti, affermando che l'individuo di cui egli parla non è l'Uno stirneriano «che negli altri concepisce esclusivamente un ostacolo alla propria sovrana volonta», bensì l'individuo che «si riconosce uno tra gli infiniti altri 'uno' a lui eguali in dignità». Hanno buon gioco a replicargli sia Gianni Vattimo (Il disincanto e il dileguarsi, «MicroMega», n. 2, 1987) che Roberto Esposito (Ritorno all'agorà?, «MicroMega», n. 2, 1987); il primo affermando che «la pura e semplice rivendicazione dell'uguaglianza, se è davvero disincantata, non ha argomenti razionali da far valere contro la riduzione della realtà a puro gioco di forze», il secondo ricordando, con Canetti, che «la società di massa si genera storicamente proprio dall'individualismo 'borghese' precedente, nel senso che ne riproduce moltiplicati tutti gli stereotipi, a partire da quello della 'volontà di potenza'». La filosofia politica moderna non può sbarazzarsi della identità fra individualismo e assolutismo se non si rassegna a ridurre le sue pretese pratiche: «Fa parte di quel disincanto del mondo a cui dovremmo essere fedeli anche una certa dose di scetticismo e comunque l'esperienza della inevitabile obliquità del rapporto fra teoria e pratica» (Vattimo, art. cit. ). In altre parole: la morale disincantata e le opinioni disinteressate non hanno sempre cambiato il mondo per il meglio, né sono state esenti da esiti violenti. Non ritengo tuttavia che il problema sia quello di perseguire l'ideale di un «vero», più radicale, disincanto; al contrario: mi pare abbia ragione Esposito (cfr. l'articolo sopra citato) quando afferma che il tradimento del disincanto non consiste nel rinunciare a lottare contro i residui pre o antimoderni della nostra cultura politica, bensì nell'ignorare che esso è il prodotto del «nucleo irriducibile teologico della stessa secolarizzazione». Siamo quindi al secondo punto. Cacciari afferma che il pensiero della sinistra è «teologico», I

I Alfabeta 101 A più voci pagina 71 nel senso che esso legittima la dimensione statuale solo nella misura in cui essa appaia come «teofania» della soggettività che si viene emancipando dai vincoli della tradizione; il che equivale a dire che il pensiero della sinistra è irriducibilmente impolitico, votato alla spoliticizzazione. Ora io non ritengo che sia questo il peccato della sinistra. Condivido piuttosto il parere di Esposito, quando afferma che la difesa operata dalla sinistra (ma io specificherei: dalla sinistra di movimento) di uno spazio «esterno a quello che· Flores chiama partecipazione al mondo della polis» ha consentito «nelle grandi catastrofi della nostra storia più recente» di «custodire i frammenti di senso per un impegno futuro». Il peccato non consiste nel fondare l'azione politica su valori ad essa trascendenti, sul senso prodotto in altri ambiti dell'agire sociale, ma nello spendere questa riserva di senso sul terreno statuale, nel tentare di tradurre integralmente i valori non politici nel linguaggio della rappresentanza politica. Un imperativo che ha afflitto anche la pratica dei movimenti degli anni sessanta e (in minor misura) settanta, come tentativo di far coincidere la volontà di potenza dei soggetti sociali e l'emancipazione degli individui. È proprio questa identità fra soggettività e individualità che costituisce il cuore dell'assolutismo moderno, della traduzione violenta (anche nelle sue forme «democratiche» e «partecipative») di tutti i valori in valori politici. Per spezzare questa identità non serve rincorrere una illusoria rinuncia alla teologia politica, ma sviluppare il nucleo positivo di quella teologia politeista che è contenuta nell'epistemologia della complessità. Dell'idea di complessità la sinistra dovrebbe accettare proprio ciò che più sembra preoccuparla, vale a dire quella duplice operazione teorica che, da un lato, riduce la soggettività politica a prestazione funzionale di un sottosistema sociale, dall'altro, rifiuta di assumere l'individualità concreta a oggetto aella teoria politica, la concepisce come contingenza, ambiente del sistema so<:_iale. l E questa doppia operazione, infatti, che consente di delineare l'«etica della contingenza» di cui si è recentemente parlato su queste pagine (scritti di Serres, Luhmann, Marquard, Formenti, Cristin, in «Alfabeta», n. 100, settembre 1987) e che consiste sostanzialmente nel riconoscimento: 1. che nessun ambito di azione può determinare univocamente i valori di altri ambiti (ciò non significa che non vi sia interazione, ma che non esiste gerarchia dei sistemi sociali); 2. che nessun ambito di azione sociale può prevedere gli effetti della propria azione sugli altri ambiti né può prevedere gli effetti dell'azione di altri ambiti sul proprio, il che determina 3. che la progettualità (e la violenza) del soggetto moderno si dissolvono in un pluriverso in cui possono emergere, di volta in volta, le ragioni di individui concreti che non sono (come pensa Flores D' Arcais) astrattamente liberi di produrre autonomamente il senso delle loro scelte, ma che possono scegliere fra i sensi socialmente prodotti, che possono cioè giocare l'uno contro l'altro i vincoli dei differenti codici sistemici (la «seconda natura» sociale non opera con minore cogenza della «vera» natura e la scienza contemporanea non accetta più pacificamente la separazione del mondo della necessità e del mondo della libertà: il vincolo e la possibilità, come recita il titolo di un libro di Mauro Ceruti recensito su queste stesse pagine, abitano sia il mondo naturale che quello umano). Disincanto è libertà di avere molti dei. Intorno al tavolo D'A1111unzio a Yale Antonio Porta. Una domanda iniziale a Paolo Valesio: perché proprio D'Annunzio alla Yale University? Perché Gabriele D'Annunzio e non, per esempio, Giovanni Pascoli, che in Italia è considerato più influente per la poesia contemporanea? C'è qualche rapporto con la tradizione decostruzionista di Yale, qualche rapporto con l'ermeneutica, ci sono rapporti con una certa idea di post-modem nella quale D' Annunzio si potrebbe bene inserire? Paolo Valesio. È una domanda molto importante e rispondo a due piani: primo in un modo molto semplice e secondo in un modo più complicato, perché tutti e due gli elementi coesistono. Il modo semplice - a rischio di apparire immodesto, ma in realtà è una dichiarazione di limiti - è Niva Lorenzini, Antonio Porta, Paolo Valesio che da anni io batto e ribatto su Gabriele D'Annunzio. Con questo non voglio rivendicare la mia importanza internazionale, al contrario sottolineare che l'italianistica negli Stati Uniti è fatta da cinque o sei persone, e la nostra responsabilità è che se insistiamo a lungo su un autore, i nostri perfezionandi, che sono molto seri e diligenti, lo prendono molto sul serio. Questo è il primo piano della risposta che dà l'idea di uno sviluppo, secondo me, positivo della italianistica negli Stati Uniti, però ancora artigianale, nel senso che la scelta del docente si riflette molto rapidamente su un piccolo gruppo di ricercatori. Secondo piano della risposta è invece quello che tu hai intuito, cioè il rapporto particolare con la critica americana e soprattutto di Yale. Qui insisterei su un punto centrale, usando una frase che non so nemmeno quanto sia italiana - è anglo-italiana, forse, ma si usa ormai in italiano - e cioè «revisione del canone». A me sembra di notare una specie di schizofrenia nella critica italiana contemporanea, per cui da un lato la ricezione di tutto quello che è metodologia critica - la scuola di Yale, le scuole tedesche, francesi ecc. - è velocissima ed estremamente raffinata, cioè non abbiamo nulla da imparare dal punto di vista di una ricezione e discussione di metodologie. Poi però mi pare succeda abbastanza poco quando si tratta di rivedere il canone della letteratura italiana, cioè di portare queste inquietudini, chiamiamole così, sul nostro terreno, su quelli che sono chiamati native grounds, sul nostro terreno nativo. A Yale, e in alcuni altri luoghi, si è cercato di fare proprio questo. Dunque, riproponendo uno scrittore che nella versione liceale, diciamo pure, della storia letteraria italiana, quella che predominava nella vecchia italianistica statunitense fino a dieci-quindici anni fa, non era nemmeno considerato, perché troppo moderno, troppo decadente, troppo controverso ecc. - ci si fermava a Pirandello, in sostanza - riproponendo questo scrittore è stato un modo di applicare una istigazione decostruttiva: rivedere il canone dei classici. Antonio Porta. D'altra parte, lo dico per inciso, vi è una situazione analoga per la storia della poesia del Novecento in Italia. Siamo un po', come dire, sclerotizzati, irrigiditi in certi passaggi critici che sarebbe ora di rivedere. Con una difficoltà grossa, che è rappresentata dai dialetti. Molti grandi poeti italiani del Novecento hanno scritto in lingue diverse, come è noto. Niva Lorenzini. Intanto voglio sottolineare che io lavoro in una sede universitaria - che è quella di Bologna - in cui il dibattito critico sul problema del simbolismo è particolarmente vitale - e naturalmente mi riferisco sia all'interesse di Raimondi e di Anceschi per D'Annunzio, ma anche al recente interesse di Barilli, ad esempio, per il simbolismo pascoliano. Giustamente tu dicevi: perché più D'Annunzio che Pascoli in America? Questo è il punto su cui sarebbe anche interessante discutere. Forse perché D'Annunzio, come dice Valesio, è stato di recente più portato avanti presso l'attenzione degli studenti americani che non Pascoli. Ma, ecco, proprio partecipando ai due convegni a Viareggio e alla Yale ho riflettuto intanto sui titoli che erano stati proposti: Stabat nuda aestas e Gabriele D'Annunzio. I suoi scritti, i suoi tempi. A Viareggio un motivo iniziale di grande interesse era la presenza di poeti che venivano in prima persona coinvolti a confrontarsi con D'Annunzio. Rifiutarlo, accettarlo? Ci sono state le posizioni più diverse: da Viviani che ha sot-

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