Grande cerimonia filosofica a Londra FilosofiaPfJ!analitica? G li interventi di Giorello, Rorty, Gargani e Vattimo che pubblichiamo - con qualche taglio redazionale - sono stati letti il 2 giugno di quest'anno all'Istituto Italiano di Cultura di Londra nel quadro dell'incontrro Post-modernim and the End of Metaphysics, organizzato dallo stesso Italian Institute e dalla casa editrice Laterza in occasione della presentazione al pubblico filosofico inglese dell'annuario filosofico diretto da Gianni Vattimo (il primo volume, Filosofia '86, è dedicato al tema della secolarizzazione), e che è destinato a discutere di volta in volta le tendenze filosofiche emergenti e influenti. Ma di là dalla occasione editoriale, da quanto tempo i filosofi inglesi non incontravano 1 filosofi italiani? Enrico Mistretta, della Laterza, che ha dato un apporto decisivo alla riuscita della giornata, suggeriva: dall'epoca dell'Illuminismo, e in fondo non è neppure una ipotesi troppo paradossale. Ma c'erano delle peculiarità irriducibili a paragoni con epoche precedenti: i filosofi italiani del 1987 non andavano a Londra - a differenza, credo, degli illuministi di due secoli fa - per trovare dei modelli di riferimento (principalmente di vita civile, di economia ecc.), ma piuttosto a esporre più o meno pariteticamente delle opinioni filosofiche di fronte a un parterre che comprendeva personaggi illustri come Alfred Jules Ayer, il decano della filosofia inglese, Richard Wollheim, Brian McGuinness; e, mi pare, non si presentavano tanto come esponenti di una filosofia nazionale, quanto piuttosto come parte di ciò che nel mondo inglese va sotto il nome di «filosofia continentale», e cioè la riflessione di tipo prevalentemente storicistico che caratterizza Germania, Francia e Italia - in alternativa alla filosofia a orientamento principalmente scientifico-analitico che è tradizionale nella culturn anglosassone. Ora, come è noto - anzitutto dai saggi di Rorty, che ora sono tradotti in italiano (La filosofia e lo specchio della natura, 1979, trad. di R. Salizzoni e di G. Milione, Milano, Bompiani, 1986; e Conseguenze del pragmatismo, 1982, trad. di F. Elefante, Milano, Feltrinelli, 1986), anche negli Stati Uniti e in Inghilterra i filosofi si autocomprendono sempre meno come degli scienziati, e riconoscono che la loro attività ha molti punti in comune con quella degli storici e dei letterati - proprio come avviene nella tradizione «hegeliana» diffusa nell'Europa continentale. Alla base di questa trasformazione c'è, per dirla in breve, il crollo del dogma dell'empirismo logico, l'idea di potere allestire una filosofia come scienza rigo- .5 rosa capace di escludere - attra- ~ verso una analisi linguistica scien- ;::- tificafllente orientata - tutti i pro- ~ blemi, o meglio tutti gli pseudo- ....... problemi, che s1 erano affollati ~ -.c:i nella tradizione metafisica a causa ~ di espressioni oscure o prive di si- ::: ~ gnificato. Oramai da parecchio ~ tempo questo ideale si è appanna- -. to, proprio perché l'idea di una fii;: losofia come scienza rigorosa ha dato vita a una grande quantità di correnti - così che si è assistito a una moltiplicazione di prospettive e di paradigmi che non garantiscono alcun consenso comune e «scientifico», ma ricordano piuttosto la lotta fra scuole e tendenze che è molto familiare a noi continentali. Scrive Rorty: «Nel campo d'intersezione 'centrale' della filosofia analitica - epistemologia, filosofia del linguaggio e metafisica - vi sono ora altrettanti paradigmi quanto importanti dipartimenti di filosofia. Quel che costituisce un serio problema per un dipartimento dell'Università di California non lo costituisce necessariamente anche per un dipartimento della Chicago o della Cornell University, e viceversa. Qualsiasi problema conosca una voga simultanea in dieci fra le centinaia di dipartimenti di filosofia 'analitica' m America ottiene uno straordinario successo. [... ] Non c'è più consenso sui problemi e i metodi della filosofia negli Usa oggi di quanto non ve ne fosse in Germania nel 1920. A quell'epoca gran parte dei filosofi era, forse, più o meno 'neokantiana', ma la moda prevalente nella vita accademica era che ciascun Ordinarius avesse un proprio sistema, e producesse studenti che pensavano che i problemi all'interno di quel sistema fossero , 'i principali problemi della filosofia'. Questo è abbastanza fedelmente il modello di vita dei dipartimenti di filosofia americana oggi. Gran parte dei filosofi è più o meno 'analitica', ma non c'è alcun accordo su di un paradigma interuniversitario di lavoro filosofico, né alcun accordo su di un elenco di 'problemi centrali'. L'unica speranza per un filosofo americano è la promessa di Andy Warhol che diventeremo tutti famosi, per circa 15 minuti ciascuno» ( Conseguenze del pragmatismo, p. 215). Con tutto questo, non si è ancora prodotto un accordo tra la filosofia analitica e la filosofia continentale, ma piuttosto si è stabilita una omologia strutturale delle rispettive organizzazioni del lavoro filosofico - basate sulla comune impossibilità di trovare un accordo su problemi, metodi, prospettive. Ma intanto, e già dalla fine degli anni sessanta, negli Stati Uniti, si era assistito a una penetrazione di filosofia continentale m territori marginali rispetto alla filosofia analitica. Se quest'ultima, nella sua più rigida formulazione neopositivistica, guardava con sospetto ai mondi della azione sociale e della espressività estetica (proprio perché ambiti in cui non è possibile realizzare una filosofia rigorosamente scientifica: basti pensare al fallimento del tentativo di Cari Gustav Hempel, negli anni quaranta, di applicare modelli epistemologici alla comprensione storica) - i dipartimenti di scienze sociali, di storia e di teoria della letteratura incominciarono una massiccia importazione di teorie continentali, prima francesi (Foucault, Derrida) e poi tedesche (Habermas, Gadamer), con alcune specificazioni regionali che confermano, anche sul piano dell'import, la situazione descritta da Rorty (cioè, per esempio: grande interesse per le scienze sociali, e dun-. que per Habermas e per Foucault, nelle università della costa occidentale; interessi prevalentemente letterari, e dunque grande rinomanza di Derrida, nelle università della costa orientale). Ma neppure questo depone granché rispetto a un accordo filosofico tra le due sponde dell'Atlantico (e della Manica; l'Inghilterra, da questo punto di vista, è parsa almeno sulle prime meno ecumenica degli Stati Uniti, per motivi del resto ovvi di minore apertura, minore eclettismo ecc.). Se per i filosofi analitici persone come Kierkegaard, Nietzsche o Sartre fanno cose diverse dalla filosofia, non c'è nulla di male (ma neppure nulla di filosofico) nel fatto che vengano insegnati, da professori francesi o tedeschi, nei dipartimenti di scienze sociali o di letteratura. S ola in un periodo più recente il confronto tra filosofia analitica e filosofia continentale ha assunto una tonalità meno esteriore. Da questo punto di vista sono significativi, oltre ai libri di Rorty, anche le opere di filosofi (come von Wright, che da questo punto di vista ~ un antesignano) che si sono còncentrati su problemi difficilmente risolvibili in termini analitici come le tèorie dell'azione o, appunto, le teorie della storia. E ancora più recentemente è stato avviato, in Inghilterra e in America, un processo di maggiore conoscenza delle filosofie continentali, di cui sono testimonianza due storie della filosofia, Modem French Philosophy (1979) di Vincent Descombes, e Modem German Philosophy (1981) di Riidiger Bubner, pubblicate entrambe dalla Cambridge University Press (che prevede anche una presentazione della filosofia italiana). E, ancora nell'ambito di una revisione interna della filosofia analitica che tiene più o meno esplicitamente conto della tradizione della filosofia continentale, conviene ricordare libri come Inquiries into Truth and Interpretation (Oxford University Press, 1984), di Donald Davidson; Post-analytic Philosophy (Columbia University Press, 1985) a cura di John Rajchman e di Cornell West (con interventi, tra gli altri, di Rorty, Putnam, Nagel, Bernstein, Danto, Kuhn); Philosophy in History (Cambridge University Press, 1984), a cura di R. Rorty, J.B. Schneewind e di Quentin Skinner (con saggi dei curatori e di altri, come Charles Taylor e Alasdair Maclntyre). Ovviamente sarebbe sbagliato ricavare da questa lista bibliografica (a cui si potrebbero aggiungere moltissimi altri titoli, senza tener conto delle innumerevoli traduzioni in inglese di filosofi francesi e tedeschi) una teodicea rassicurante e forse presuntuosa, secondo cui finalmente la filosofia anglosassone, resasi conto dei suoi errori, verrebbe a scuola dai continentali. Ciò che ora i filosofi analitici condividono con i tedeschi, i francesi e gli italiani sono essenzialmente dei problemi (benché, certo, questo attenui una certa alterigia semplificatoria, un tempo molto in uso: per esempio, l'idea che Heidegger fosse più o meno un truffatore che esprimeva con un linguaggio letterario degli pseudoproblemi facilmente superabili attraverso una analisi logica del linguaggio. Ma non dimentichiamoci che questa alterigia era diffusissima anche tra i filosofi continentali, basti pensare a Luckacs, che per ragioni diverse la pensava alla stessa maniera di Carnap. E Habermas tutt'ora ritiene che Derrida sia un estremista, e Gadamer un brav'uomo conservatore che, rispetto a Derrida, ha solo il merito di non buttare a mare la tradizione umanistica. E anche oggi, in Italia, in Francia o in Germania non mancano affatto i fautori di scienze umane che siano veramente scienze, o coloro che continuano a conferire un valore superstizioso a formule, diagrammi, equazioni). Quali siano questi problemi comuni, lo si capisce già dall'esame della situazione americana condotto da Rorty, nonché dagli interventi londinesi qui raccolti. Vorrei quindi limitarmi a segnalare telegraficamente due punti che mi paiono di particolare rilevanza: 1. Comunità, comunicazione, universalità. Anche in un clima post analitico, i filo"sofiamericani possono forse continuare a fare una filosofia «scientifica», perché sono molti, riuniti in ampie e organizzate associazioni professionali (come avviene in qualsiasi altra disciplina accademica, negli Stati Uniti), con raduni annuali in cui si stabiliscono valori e si attribuiscono posti. Salvo rilevanti eccezioni, non sentono la necessità di un uditorio universale (che è viceversa sempre implicato, almeno come finzione linguistico-espositiva, da parte dei filosofi continentali). Nel caso della filosofia inglese, dove i professori di filosofia sono, per ragioni strettamente connesse alla differenza tra la popolazione complessiva di Inghilterra e Stati Uniti, meno numerosi, è sempre stato necessario postulare un uditorio più universale. Non a caso è in Inghilterra che è nata la filosofia del linguaggio ordinario, e non a caso filosofi come Austin hanno trovato già da tempo dei riscontri nella filosofia continentale. Ma, appunto, confrontarsi con le filosofie continentali nel momento in cui molti filosofi analitici cessano di autocomprendersi come scienziati che comunicano le loro «scoperte» a un gruppo ristretto di competenti che saprà comprenderli e premiarli, ha sicuramente il significato di un allargamento dell'uditorio presunto per discorsi filosofici. Non solo nel senso che ora anche i francesi, i tedeschi e gli italiani sono ammessi nella tonversazione anglosassone, ma soprattutto in quello che anche la conversazione dei filosofi inglesi e americani rivaluta l'uditorio potenziale offerto da letterati, critici d'arte, sociologi, politologi, come è sempre avvenuto qui da noi; questo, comunque lo si voglia intendere, comporta un cambiamento dello stile filosofico. 2. Storia della filosofia. Di che cosa si parla, una volta che ci si voglia rivolgere a dei non-filosofi? La scientificità della filosofia analitica (seguendo del resto una tendenza caratteristica della filosofia inglese da molti secoli) si era costruita attraverso una esclusione della tradizione filosofica, almeno nella sua dimensione storica. Le filosofie del passato hanno prodotto un gran numero di asserti incredibili, o semplicemente superati dalla scienza moderna. Chi oggi crederebbe - come Aristotele - che i vermi si generano dal fango? E allora perché interessarsi talmente del passato? Se un filosofo antico dice cose che ci servono ancora, bene, se no è inutile conservarlo come reliquia storiografica. Di qui l'oggettiva sottovalutazione della storia della filosofia in moltissimi filosofi angloamericani. Ma, nel momento in cui la filosofia deve assumere un ruolo maggiormente universale, l'unico tessuto connettivo (posto che i problemi estetici, etici e anche epistemologici si prestano male a venire trattati professionalmente in modo astratto, «il bello è questo e quello, il vero è questo e quello», tranne che da parte degli oratori dello Speakers' Corner di Hyde Park) viene a essere la storia della filosofia, che si qualifica allora come il terreno professionale specifico dei filosofi (oltre a una particolare abilità argomentativa, che però, alla fine, può essere sostanziata solo attraverso il ricorso storicofilologico a delle auctoritates). Si tratta in sostanza del modello hegeliano di filosofia, che sicuramente sta acquisendo un nuovo credito nel mondo anglosassone, ma attraverso un lento processo di elaborazione di cui si possono raccogliere oggi alcuni segni - ma di cui sarebbe anche affrettato anticipare l'esito.
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