Alfabeta - anno IX - n. 100 - settembre 1987

può derivare precetti 1mperat1v1 da un sapere che spiega o descrive e perciò si redige al modo indicativo. Chi dice ciò che è non può indurre da questo ciò che dovrebbe essere. Questo muro che separa il moralista o il giurista dallo scienziato, non si è mai mosso da che è stato costruito. Oggi in esso si è aperta una crepa. Nella classificazione degli esseri e delle cose, gli elementi della genetica di cui ci stiamo occupando si annoverano dunque nella classe dei possibili. Esseri sì, ma ancora in potenza, come si diceva una volta; detti altrimenti potenziali, virtuali, alcuni di essi anche irreali, tolti di mezzo in massa prima di nascere, eliminati, non accedevano mai all'essere, passavano dal possibile al nulla. La scienza che ne parla li spiega e li descrive: come ogni altro sapere, anch'essa si redige, per quel che ne so, all'indicativo. Ma noi la leggiamo al condizionale. Per esempio, tutte le questioni che ci poniamo qui dipendono sottilmente dalle mille e una condizioni che intervengono prima che e affinché questa cellula emerga sul nuovo teatro del fenotipo, passando così alla classe attuale degli esseri e delle cose. Ora, se l'imperativo non può venire dall'indicativo, il condizionale lo porta con sé. Il muro crolla e, per la prima volta, ci incontriamo, scienziati e filosofi. I possibili tendono all'esistenza, il genoma giunge allo sviluppo. Perché simile emergenza abbia luogo bisogna adempiere certe condizioni, soddisfare alcune esigenze. Bisogna, ho detto; presto dirò basta. Un imperativo si leva ad annunciare una morale. Il principio di Poincaré, per la prima volta nella storia, è messo in scacco. Gli scienziati si risvegliano moralisti. Questo secondo punto attiene all'etica della coµoscenza. Non già nel senso che la decisione di conoscere diventa una scelta di vita, ma nel senso che le luci che si proiettano su un processo rischiano di sottrarne dei possibili.Predire nelle scienze in cui il tempo si riduce a uno spostamento lascia immutato il mondo in cui si predice. Predire nelle scienze in cui il tempo costituisce l'essere stesso del!'oggetto descritto e del processo in cui ha luogo la predizione non lascia il mondo immutato. Nel nuovo mondo del possibile, conoscere è già intervenire. Il fatto di conoscere i possibili prima di scegliere non ha niente in comune con il mondo in cui erano loro a scegliere ciecamente, con noi e senza di Etica e caso noi, attraverso i nostri gesti e senza il nostro sapere. Nasce l'etica della conoscenza, improvvisamente la morale non dipende più dall'applicazione della scienza, ma accompagna quest'ultima in ogni suo gesto, in ogni passo in avanti, nella sua condotta speculativa. Il biologo, il medico diventano moralisti, quando conoscere equivale a scegliere. La terza sfera 'dell'etica concerne il passaggio dei possibili all'esistenza. Decisione divina in epoca classica, cieco meccanismo naturale lasciato alla natura dopo Darwin, responsabilità affidata a noi in modo crescente da quando interveniamo nel mondo, senza""dubbio da quando parliamo, un peso divenuto tuttavia improvvisamente più greve da che abbiamo nelle nostre mani i possibili. Su questo punto non c'è più differenza tra filosofi, scienziati, giuristi o politici. Penetrati in quello che era la mente di Dio, o l'inseminazione della natura, rischiamo domani di decidere sul mondo migliore. Sappiamo soltanto, rifacendoci alla prima regola, che esso non deve diventare unitario. E che nessuno deve occupare un posto da cui possa decidere in modo ampio o globale della produzione o della definizione dell'uomo. Un paese che si onora di aver abolito la pena di morte può ascoltare dai suoi filosofi percbé è stato necessario decidere così. Una delle croci della filosofia, da quando ha incominciato a meditare, consiste nella definizione dell'uomo. Mai descrizione proposta la soddisfece, per quanto precisa o corretta, essa fu sempre controversa: l'uomo non si mette d'accordo sull'uomo, fa fatica ad accettarlo come tale. Tuttavia, non abbiamo bisogno di un enunciato formale o astratto per riconoscerlo; colui che si fa avanti ammalato, sofferente, sfigurato dalla nascita o dal dolore, verso il medico, l'infermiere, lo scienziato della vita, il passante, ha, per la sua sofferenza, qualità d'uomo. Riconosciuto come tale, indicato come tale perché l'usuale condanna a morte, nostra sorte e condizione, per lui può presentarsi improvvisamente, prematuramente. Cos'è l'uomo. Non lo so ma eccolo. Eccolo il condannato a morte che morirà all'alba. Ed ecco, dietro di lui, cancellato ormai dalle nostre leggi, colui per il quale si avvicina l'esecuzione, segretamente decretata dalla natura o dal caso. Malato, sta per morire: ecce homo. Non abbiamo mai avuto bisogno di una grande filosofia per riconoscere nel condannato amorte dal potere degli uomini, romano o altro che fosse, l'uomo stesso. Non abbiamo bisogno di filosofia per riconoscere anche il condannato a morte da un potere che va oltre di noi e che noi studiamo quotidianamente per ridurlo a nostra misura. Ecce homo. Ma non basta. Dietro chi soffre soltanto di una malattia curabile o di una sterilità guaribile nei nostri paesi sazi e pasciuti, s~profilano le innumerevoli popolazioni africane, asiatiche o americane del Centro e del Sud, denutrite, cariche delle peggiori malattie, in preda alla vertigine demografica, abbandonate da noi e condannate a morire in massa, mentre noi ci industriamo a erigere morali egoiste o raffinate concezioni etiche. La pena di morte per loro si applica oggi. Abbiamo abolito un arcaismo nel delitto penale, lo possiamo abolire in quanto condanna delle moltitudini. Appare, in questa folla, davanti a noi, l'uomo stesso, l'umanità, che nella nostra lingua significa anche compassione. Noi che soffriamo così poco, imbottiti di medicinali, che non abbiamo più fame, noi per i quali la scienza tutelare differisce incessantemente il giorno della morte, possiamo ancora aspirare al nome di uomini? Traduzione di Paola Redaelli ApologiaOdc~a,s1uale 11 caso sembra essere uno dei più accerrimi nemici della libertà e della dignità dell'uomo. Invece vorrei qui spendere una parola in suo favore: a favore della casualità. Parlerò dunque contro la libertà e la dignità dell'uomo? Assolutamente no. Voglio solo dire: sarebbe indice di libertà carente, se l'uomo vivesse indegnamente al di là dei suoi rapporti: oltre cioè i rapporti della sua finitezza. Se non vuole rischiare ciò, allora deve riconoscere il casuale: e deve farlo per mezzo di un'apologia del casuale. Questa è la mia tesi. Contro di essa si schiera - a quanto pare - quasi tutta la tradizione filosofica. È sufficiente una citazione: «La riflessione filosofica non ha altro intento se non quello di allontanare l'accidentale». Così scrive Hegel, riassumendo il pensiero della tradizione. Io contraddico Hegel, il grande empirico, raramente e malvolentieri. Ma in questo caso sono costretto, spinto dalla necessità. Allontanare il casu~le: c10 significherebbe per esempio allontanare i filosofi dalla filosofia, ma non c'è alcuna filosofia senza filosofi (non importa se dilettanti o professionisti): in questo modo - in nome della filosofia - si finirebbe per allontanare la filosofia dalla filosofia. Quindi, a favore della filosofia, bisogna salvare il casuale: perché solo attraverso questo recupero essa è effettivamente reale. Oppure: allonta- ~ nare il casuale significherebbe, per .s esempio, allontanare il troppo ~ umano dall'uomo; ma non c'è al- ;:: cun uomo senza il troppo umano: ~ in questo modo - in nome dell'uo- -. mo - si finirebbe per allontanare ~ -e l'uomo dall'uomo. Quindi, a favoE re dell'uomo, bisogna salvare il ca- ~ suale: infatti solo attraverso que- "' ~ sta salvezza l'uomo è effettiva- -. mente reale. I.:! Non sono assolutamente in gra- ~ do, nelle riflessioni che seguiran- ~ no, di sviluppare ampiamente il ~ discorso a favore del casuale: posso solo facilitare alcune considerazioni specialistiche e - trattandosi della casualità - casuali. Le suddividerò in quattro sezioni, che si possono così intitolare: l. il programma dell'assolutizzazione dell'uomo e il suo culmine moderno; 2. sull'inevitabilità delle consuetudini; 3. noi uomini siamo in ogni momento più i nostri casi che la nostra scelta; 4. la libertà umana vive della divisione dei poteri. Procediamo dunque - in forma molto convenzionale - con la prima sezione. l. Il programma del!'assolutizzazione dell'uomo e il suo culmine moderno. Nel momento in cui - e mi riferisco alla formulazione hegeliana - «la riflessione filosofica [... ] non ha altro intento, se non quello di allontanare l'accidentale», il suo programma - quanto più moderno, tanto più inasprito - diventa: rendere assoluto l'uomo. In contrasto con questo programma - .un programma antico che nella modernità è stato solo portato al suo culmine - si sono registrati tentativi filosofici di prendere in considerazione il caso e l'accidentale. Fin da Aristotele, in alternativa alla negazione del caso, il casuale è stato ammesso come ciò che non è né impossibilmente né necessariamènte e perciò potrebbe anche non essere o essere diversamente. Il casuale - il contingente - è stato problematizzato almeno in tre direzioni: (a) come opposto del necessario; (b) come fondamento del necessario oppure (c) in modo ancora diverso. Su questi tre punti alcune osservazioni: a) si necessarium, unde contingens? Questa domanda - che sfocia in quella: se c'è dunque Dio, perché c'è allora il finito? - conduce, nella tradizione filosofica cristiana, al problema della contingenza della creazione e, successivamente, nel momento in cui a partire da Spinoza al posto della necessità di Dio subentra la natura, in connessione con il problema della libertà conduce alla questione dell'indeterminato. Il caso è forse la necessità fallita. b) si contingens, unde necessarium? Questa domanda, che riprende alcuni motivi della teoria epicurea della declinazione e di quella darwiniana della mutazione, è stata radicalizzata solo recentemente, per esempio in connessione con Monod, e quindi sviluppata attualmente in senso teoretico-evolutivo e sinergetico: se c'è caso, perché c'è ordine e, se c'è il casuale, da dove deriva allora la necessità? La necessità è allora il caso riuscito. c) gli accidenti - e anche questo è stato visto per la prima volta da Aristotele - possono insorgere attraverso il fatto che serie di determinazioni indipendenti l'una dall'altra si imbattono l'una con l'altra in forma inattesa. Un tale sotterra un tesoro per nasconderlo; un altro scava una buca per piantare un albero: «Trovare il tesoro è un fatto accidentale per colui che scava la fossa». È pertanto il caso particolare - significativo per l'uomo - che capiti qualcosa di diverso (che è a sua volta determinata) rispetto alle sue intenzioni: «È stato per accidente che un tale è giunto a Egina, qualora egli vi sia giunto non perché avesse l'intenzione di giungervi, ma perché è stato spinto da una tempesta o catturato dai pirati». Ci può dunque capitare qualcosa che non abbiamo voluto né scelto. Infatti noi uomini non siamo soltanto le nostre azioni guidate dall'intenzione, ma anche i nostri accidenti. Il programma dell'assolutizzazione dell'uomo nega questo fatto: infatti vuole soprattutto «allontanare» anche gli accidenti di quest'ultimo tipo, in modo da poter affermare - e uso qui la formula sartriana della «scelta che noi siamo» -: gli uomini non sono di regola i loro accidenti, ma sono del tutto soltanto la loro scelta. Questa tesi ha un doppio significato: 1) L'uomo è - o dev'essere - esclusivamente il risultato delle sue intenzioni. Egli è quindi l'essere che agisce, al quale nulla più può succedere per caso. Nulla che abbia a che fare con l'umano può accadere involontariamente, senza che sia stato scelto: nulla più può capitare casualmente all'uomo. Solo allora è valida l'affermazione: gli uomini non sono i loro accidenti, ma del tutto soltanto la loro scelta. 2) Questa scelta dev'essere assoluta: dunque nessuna opzione casuale, che potrebbe anche esse- • re diversa, sostituibile da altre intenzioni. Perciò tutti gli uomini - se vogliono essere giusti, cioè uomini assoluti - devono nutrire intenzioni uguali. Soltanto allora è valida l'affermazione: gli uomini non sono i loro accidenti, ma del tutto solamente la loro scelta assoluta. Queste due esigenze, sostenute filosoficamente, costituiscono ciò che io definisco il programma di assolutizzazione dell'uomo. Il quale decreta: gli uomini non sono i loro accidenti, ma esclusivamente la loro scelta e cioè la loro scelta assoluta. Mi viene talvolta chiesto: chi precisamente ha sostenuto o sostiene filosoficamente questo programma di assolutizzazione dell'uomo? Marquard, ci sveli i nomi di cavallo e cavaliere! Ora però: forse lo stesso che mi pone la domanda appartiene ai cavalli, mentre io qui cercherò - ultrabrevemente - di illustrare proprio quale tradizione lo cavalchi. Ma ci sono anche altre buone ragioni per trascurare i dettagli, pur restando nel campo specialistico: un breve intervento nt>n può imbarcarsi m questioni di filologia - della filologia di Platone, Agostino, Descartes, Fichte, Marx, Ape!, Habermas. Inoltre bisogna usare la delicatezza- di convincere i filosofi - tanto più quanto più sono moderni - di non essere qui chiamati in ,causa. Del resto non si tratta di poveracci: all'occorrenza tirerei fuori l'idealismo tedesco stesso - inclusi il marxismo e il neomarxismo. Anche per questo motivo non impedisco a nessuno di ritenere che la posizione che ho qui tracciato e che in seguito attaccherò, cioè il programma di assolutizzazione dell'uomo, non sia mai stata sostenuta da alcuno. Sarebbe poi così grave? Tutto il contrario: sarebbe proprio un bene, per la mia apologia del casuale, se essa avesse meno avversari del previsto. In breve: il problema della attribuzione del programma di assolutizzazione dell'uomo è un campo molto vasto. Si può tuttavia ben dire ciò che ho già detto: nella modernità il programma di assolutizzazione dell'uomo, un antico programma filosofico e non solo filosofico, viene accresciuto e portato al culmine. Nel momento in cui nella modernità, non si può più fare affidamento sul fatto che la partecipazione a Dio garantisca all'uomo l'assolutezza, una vita libera dal caso e assolutamente giusta, l'assolutizzazione dell'uomo deve essere fondata progressivamente sull'uomo stesso: sulla sua libertà,· sulla sua scelta assoluta. Che pertanto, nell'idealismo tedesco, nel marxismo, la filosofia tedesca ne sia stato il battistrada, è plausibile grazie alla tesi di Plessner sulla «nazione in ritardo»: il rallentamento della liberalità nel reale viene compensato dall'assolutezza nel campo filosofico. Così, anche perché Dio viene progressivamente a cadere, dal punto di vista filosofico, come grandezza di misura, proprio nella modernità si giunge, nel senso del programma dell'assolutizzazione e in conseguenza della formula sartriana sopra citata, alla definizione dell'uomo come la scelta assoluta che egli è. Gli uomini devono quindi essere o diventare assoluti. Invece: gli uomirii non sono assoluti, ma finiti. Essi vivono e scelgono la loro vita non - ad ogni buon conto in prevalenza non - in

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