D ue tendenze diverse, anche se non sempre opposte, sono presenti nella critica letteraria e hanno caratterizzato soprattutto quella degli ultimi anni: da una parte la ricerca degli elementi costitutivi del!'opera, dello scheletro strutturale del testo, dal- !' altra parte il rilievo dato alla differenza che crea dinamicità, la considerazione delle variabili, del dissimile difficilmente afferrabile e non sempre esprimibile. Il primo di questi atteggiamenti ha contribuito a considerare autonomo il testo, autosufficiente alla comunicazione e alla decifrazione del suo senso e della sua «logica». Nell'indagine della coerenza immanente all'opera, la critica spesso ne ha persa l'unicità, eliminando sistematicamente ogni relativismo, ogni variabile, cancellando sia gli aspetti della realtà referenziale che il piano, non tanto biografico-storico, quanto contestuale, dell'emissione del testo e della sua ricezione. Unica concessione al mondo esterno ali'opera, quella dell'analisi antropologica di simboli archetipi rinvenibili all'interno del testo, ma modelli arcaici che generano ogni volta nuove attualizzazioni. L'altra tendenza è invece quella che considera anche situazioni dinamiche. Il dialogismo bachtiniano e la più recente «intertestualità» hanno posto l'attenzione alla mutazione, alla variabilità dei rapporti nel testo stesso, mentre fuori di esso l'analisi della ricezione, quella della situazione enunciazionale e comunicativa e infine l'interesse per la dimensione epistemica in cui l'opera nasce e che essa modif tea, hanno arricchito l'indagine critica e l'hanno allargata verso l'individuale e lo specifico. Entrambi questi atteggiamenti critici si muovono comunque nell'ambito della tradizione logocentrica; non rinnegano cioè la possibilità e la plausibilità dell'interpretazione, messa in dubbio dallo scetticismo decostruzionista. Sono due aspetti diversi, ma talvolta compresenti, di esperienze critiche non nihiliste, caratterizzate anzi dalla fede, o nel generale o nel particolare, ma sempre nella coerenza dell'esegesi, nella sua verosimile «verità» di fondo. Un paladino di questa fede è sicuramente Northrop Frye, da sempre schierato dalla parte di chi cerca i comuni denominatori della letteratura, di chi considera l'opera come attualizzazione, sempre diversa ma simile, di modelli ricorrenti che costituiscono il patrimonio culturale di tutti gli uomini, dell'umanità in senso antropologico. Quello di Frye è un mondo costruito su analogie immanenti, ed è per lui compito della critica rilevarle e trasmetterle per un dovere sociale verso lo sviluppo della conoscenza. I modelli che Frye propone (miti, archetipi) riproducono le strutture narrative e le immagini della mitologia classica ma ancor più di quella biblica, considerata fonte primaria di ogni immaginario; sono tipologie quantitative, quasi proppiane, dove la diversità e l'unicità del singolo occorrimento sono secondarie rispetto al fatto di aver rinvenuto l'elemento comune. Ciò che le renderebbe qualitative - l'attenzione alle differenze spazio-temporali - non è considerato primario da Frye. Questi miti e questi archetipi sembrano perciò appartenere a una cultura occidentale atemporale, mentre sono topologicamente e cronologicamente variabili. La Bibbia, il «grande Codice», se anche è, come vuole Frye, alla base • della nostra tradizione letteraria, non lo è allo stesso modo per proConversazioni di varie discipline testanti e cattolici e non è stata per i romantici quello che era per Dante o per Mi/ton. Così l'Edipo classico, che è servito a modello per innumerevoli testi, è indubbiamente un altro dopo la lettura di Freud. Frye è ben consapevole comunque della variabilità dei modelli e ha scritto più volte di considerare miti e archetipi come elementi dinamici, in continua trasformazione, ma mi pare che ciò che interessa il critico canadese sia la loro riconoscibilità in contesti diversi, e quindi ciò che di immutabile e di continuo esiste in essi. Egli rimanda a un codice, un corpus mitologico che, in presentia o in absentia, ha condizionato, e continua a condizionare, l'immaginario occidentale, e questa tendenza alla modellizzazione giunge fino a delineare il modello dei modelli, la macrosequenza della quest, della ricerca, come formula di base di tutta l'esperienza letteraria della nostra civiltà. Accanto a questa posizione, non autoritaria ma comunque totalizzante, sono però postulate l'obiettività di una critica affrancata dal giudizio di valore e la totale apertura verso ogni forma di espressione verbale, anche quelle cosiddette «minori» o «extraletterarie», da considerarsi sullo stesso piano delle forme «alte», «Nihil humanum ... ». Proprio l'eliminazione della variabile individuale e la fede nel valore del modello universale è ciò che altri critici hanno talvolta considerato contraddittorio nel pensiero di Frye, ma le contraddizioni svaniscono o si riducono quando si consideri la netta separazione che Frye postula tra due mondi: quello della conoscenza comune e quello dell'esperienza individuale. Al primo appartiene - secondo • rar1a Frye - la critica, con i suoi modelli assoluti e universali, al secondo, soggettivo, appartiene ciò che è variabile, relativo, unico e irripetibile. Anche ineffabile, forse. Ma è proprio qui, secondo me, il nocciolo del problema. Perché i due mondi non sono separati nettamente, come vorrebbe Frye. La critica, come la conoscenza, può essere concepita come il lato razionale e modellizzante dell'esperienza letteraria, ma così diventa un'astrazione, un modello essa stessa. L'esperienza individuale non è facilmente separabile né, per fortuna, eliminabile. Il critico parte da essa, non ne può prescindere e influenza quella altrui proprio con i suoi modelli, frutto della «conoscenza». In altre parole, se la letteratura e la cultura sono modellizzabili su un piano oggettivo, generale, comune (e io lo credo quanto Frye), la ricerca, la lettura, l'emergere dei modelli dalla scrittura critica sono però elementi del mondo soggettivo, individuale, dell'esperienza umana e critica al tempo stesso. E il fascino dell'irripetibile e del singolare, che non può appartenere alla teoria della «conoscenza» di Frye, • riappare nella prassi. Per questo leggere Frye è un percorso affascinante in un mondo di somiglianze: perché nella sua scrittura traspare l'uomo, il maestro, il lettore, il critico, al di là dell'oggettività e de/l'universalità dei modelli letterari e culturali che egli ha sempre difeso e che ancora una volta, nell'intervista che segue, ha indicato come base dell'attività critica. Gli ho rivolto queste domande in occasione della sua presenza a Roma, alla fine di maggio, al Convegno internazionale Ritratto di Northrop Frye, a lui dedicato e organizzato dal Dipartimento di Anglistica dell'Università La Sa- ' ) pienza, diretto da Agostino Lombardo. Loretta Innocenti Innocenti. Alla base della sua critica, mi pare di poter dire, c'è la ricerca degli elementi portanti dell'opera letteraria, quelli della struttura formale (miti) e quelli della imagery, delle immagini (archetipi). Se questi sono gli elementi comuni a opere diverse, come può il critico afferrare la specificità del singolo testo, del suo senso individuale e autonomo? Frye. Concepisco la critica come una struttura conoscitiva circa la letteratura. Se non è questo, non è niente che valga la pena di inseguire. L'unicità e l'individualità sono elementi dell'esperienza, non della conoscenza. Non possiamo conoscere l'unico e neppure l'individuale, come tali: la conoscenza riguarda le somiglianze nelle differenze. In qualsiasi struttura della conoscenza, il significato deriva dal contesto, e capire la letteratura comprende, tra le altre cose, capire le convenzioni e i generi che collegano le opere letterarie. Innocenti. Nello studio della letteratura, lei ha asserito l'autonomia dell'opera, che il critico dovrebbe studiare sistematicamente in sé e nei suoi rapporti intertestuali e con le convenzioni letterarie. Il contesto storico e socio-culturale è considerato secondario per l'indagine critica. È possibile per il critico rilevare l'importanza del contesto nel determinare e condizionare la creazione del/'opera? In altre parole, come si concilià la sostanza immutabile di miti e archetipi con l'elemento dinamico di un contesto in continua evoluzione e trasformazione? Frye. Un autore significa qualcosa nel suo tempo: questo è ciò che lo rende comprensibile ai suoi
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