Via dei Liburni, 14 00185 Roma Tel. (06) 4955207 I PARTITI ITALIANI TRA DECLINO E RIFORMA a cura di Carlo Va/lauri tre volumi per complessive 1600 pagine, L. 150.000 La ricerca complessiva si è estesa ai seguenti partiti e movimenti: Democrazia Cristiana, Movimento Comunità, Movimento Sociale Italiano, Partito Comunista Italiano, Partito di Unità Proletaria per il Comunismo, Partito Liberale Italiano, Partiti e Movimenti Monarchici, Partito d'Azione, Partito Repubblicano Italiano, Partito Sardo d'Azione, Partito Socialista Democratico Italiano, Partito Socialista Italiano, Partito Socialista Italiano di Unità Proletaria, Unione dei Comunisti, Partito Radicale, Sudtiroler Yolkspartei, A.C.P.O.L. e M.P.L., Federazione Anarchica Italiana, Lotta Continua, Democrazia Proletaria, Federazione Giovanile Comunista Italiana, Federazione Giovanile Socialista, Avanguardia Operaia, Potere Operaio, Comunione e Liberazione, Movimento Popolare, Movimento federativo Democratico, Unità Popolare, Union Yaldotaine, nonché gruppi femminsiti L'opera completa si compone, oltre ai volumi su citati: LA RICOSTITUZIONE DEI PARTITI DEMOCRATICI tre volumi per complessive 1758 pagine, L. 150.000 L'ARCIPELAGO DEMOCRATICO due volumi per complessive 1070 pagine, L. 90.000 Nelle librerie oppure direttamente presso la nostra casa editrice il Mulino Jean-Pierre Vernant La morte negli occhi Figure dell'Altro nell'antica Grecia Fra antropologia, mitologia e religione, il ruolo della morte nella civiltà greca Michel de Certeau Fabula mistica La spiritualità religiosa tra il XVI e il XVII secolo Smarrimenti e furori, follie e deliqui: alle radici dell'esperienza mistica in uri'indagine che attraversa religione e psicoanalisi, arte e letteratura Victor Brombert Vietar Hugo e il romanzo visionario Una nuova lettura dell'opera narrativa di Hugo: il ritratto di un romanziere allucinato che porta sulla pagina i fantasmi più profondi dell'io Cari Dahlhaus Analisi musicale e giudi~o estetico Per un incontro di critica e gusto nèlla valutazione dell'opera musicale ,' ,, hanno contribuito più di altri, sia perché c'è, in maniera più profonda, nella loro pratica letteraria qualcosa che si accorda ai generi che si stanno studiando più che nella pratica di altri autori. Se si facesse una statistica delle menzioni, delle analisi di dettaglio che consacro a questo o quell'altro autore, si vedrebbe apparire un quadro della letteratura universale un po' inedito a priori e nel quale si vedrebbe un'importanza smisurata, accordata a Borges, in effetti, o a Walter Scott o ad Aragon. Perché? Perché, come diceva Balzac, sono in qualche modo degli eroi di prefazione. Walter Scott ha praticato il gioco della prefazione con una grande costanza e una grande virtuosità. Anche Aragon. Per di più, si dà il caso che sono due autori di cui apprezzo le prefazioni più delle opere. Il caso di Borges è diverso per molti aspetti. Da una parte, Borges ha scritto molte prefazioni per le sue opere e per quelle di altri scrittori; dall'altra, le prefazioni di Borges alle sue opere sono alquanto particolari, e di una particolarità che ha fatto sì che mi interessassi ad esse più che ad altre: il fatto è che Borges è uno di quei rari scrittori che non pretendono, nelle loro prefazioni, che la raccolta che segue sia perfettamente omogenea. Egli insiste, al contrario, sulla differenza, e io amo molto questa insistenza. E poi domina questo libro - in effetti lei aveva ragione - ad un livello più profondo, per la pratica di un certo slittamento del testo di finzione che consiste assai frequentemente nel travestirlo da studio critico o da prefazione, da opera bibliografica, da nota di lettura, ecc. Cosicché egli è uno dei migliori esempi di autori che si mettono a far funzionare degli elementi di paratesto come testo. Russo. Ma, certi elementi del paratesto - penso in particolare alla prefazione - hanno una loro testualità; da questo punto di vista, non possono partecipare di un'estetica e avere un effetto estetico, esattamente come la cornice in un quadro? Perché il funzionalismo rifiuterebbe la funzione estetica? Genette. Non la rifiuto. Dico soltanto che non è il mio oggetto in questo lavoro in cui studio il paratesto in quanto paratesto. Naturalmente si può benissimo studiarlo diversamente, cosa che per una prefazione, e anche per un titolo, significa studiarlo come testo. Non ho voluto farlo, perché volevo studiare il paratesto nel suo regime funzionale dominante che è un regime pragmatico. Non ho affatto voluto fare un'estetica del titolo come altri hanno fatto, o un'estetica della dedica o della prefazione. Ma per il fatto che non abbia voluto farlo qui, non bisogna trarne la convinzione che per me non ha senso: sarebbe un altro studio. Per una volta non ho voluto avere un punto di vista formalista o puramente estetico. Ho voluto avere un punto di vista funzionale. Perché? Non soltanto per cambiare, ma perché, in questo caso, ero in presenza di un oggetto la cui dimensione essenziale è pragmatica. Però non nego affatto che possano essercene altre. Russo. Tuttavia il paratesto sembra resistere alla presa. Lei stesso parla di oggetto «multiforme» e «tentacolare». Questa instabilità che è anche quella del suo luogo e che è implicita nella nozione stessa di «soglia», non si oppone alla. classificazione rendendola così aleatoria? In altri termini, si può veramente parlare di genere? Si-direbbe che i generi siano talvolta un espediente di lavoro, più per il critico o il teorico che per lo scrittore. Conversazioni di varie discipline Genette. Ci si deve sempre chiedere se si può parlare di genere, e nello stesso tempo non dobbiamo chiedercelo troppo, perché altrimenti non si farà mai nessuno studio generale. Ci sono generi che sono già costituiti e rispetto ai quali il critico può sentirsi a suo agio perché non è lui che li ha costituiti. Cioè, esiste un momento in cui qualcuno ha dato una definizione del sonetto o, in modo più vasto e complesso, una definizione dell'epopea, ecc. È probabile che per qualche tempo ci siano state persone che scrivevano delle epopee senza sapere che fossero tali. Io ho sempre preferito lavorare su dei generi che ho un po' inventati. Per esempio non ho lavorato sul romanzo, ho lavorato sul racconto. Non sono certo io che ho inventato la nozione di racconto, ma ero, in presenza di questa nozione, di fronte a qualcosa di ancora più inafferrabile della nozione di romanzo. Quando, in Palimpsestes, ho studiato i fenomeni di ciò che chiamo l'ipertestualità - è evidentemente una sorta di genere, o di pratica transgenerica, perché vi si trovano tragedie, romanzi, epopee, ecc. - anche in quel caso ho costituito in maniera un po' inventiva un genere che, per essere esatti, non era stato considerato, non era stato individuato prima di me. È quello che ho fatto in Mimologiques dove ho costituito un genere: la reverie cratilea. E in Seuils produco in qualche modo la stessa cosa. Non mi avrebbe interessato molto, benché sarebbe stato ampiamente sufficiente per il mio lavoro, scrivere un libro sulla prefazione. Mi ha interessato, mi ha divertito, mi ha ispirato scrivere un libro sul paratesto, perché il paratesto era un raggruppamento nuovo. Allora, lei mi chiede - la sua domanda era sostanzialmente questa - se il fatto di scrivere su un genere evanescente non è imbarazzante, io le rispondo: «ciò che m'interessa sono i generi evanescenti». Russo. Il suo libro lancia un messaggio che si riassume nella for~ula: «Attenti al paratesto», e nella quale si può cogliere anche: «Guardatevi dal paratesto». Da un lato: non si deve sottovalutare il paratesto. Dall'altro: non bisogna neppure sopravvalutarlo, esso ha un effetto-schermo, si rischia di non vedere più il testo. Come spiega che ad una funzione transitiva, rivolta verso il testo, possa opporsi un effetto intransitivo, col rischio di fare del paratesto un «feticcio»? Genette. Ho molto poco da risponderle perché sono interamente d'accordo con i termini della sua domanda. Certo ci sono in questa formula, attena- al paratesto, due sensi di cui l'uno è positivo e l'altro è critico. Da un lato ci si deve interessare al paratesto più di quanto si è fatto finora, perché ci sono in esso dei messaggi che spesso non sono recepiti sufficientemente. È il senso critico di attenti che mi incita a due messe in guardia. L'una nei riguardi del lettore, che è: «non lasciatevi manipolare troppo dal paratesto». E questo non è contraddittorio con l'invito positivo, perché per non lasciarsi manipolare, bisogna conoscerlo bene. L'altro messaggio di messa in guardia è rivolto agli autori (in un certo senso è più secondario), è un messaggio del tipo: «attenti al modo in cui utilizzate il paratesto, perché rischiate, se la vostra utilizzazione è maldestra, di giocare contro voi stessi». Ed è qui che interviene l'effetto-schermo. Insomma c'è un effetto manipolatorio che il lettore deve percepire, e un effetto-schermo di cui l'autore deve diffidare. È quel che intendevano parecchi autori di una volta, quando dicevano: «attenzione, se la prefazione è troppo lunga la gente non procederà oltre, ecc.» Russo. Si riscopre con lei l'importanza del/'avantesto in rapporto al testo. Il caso dell'onomastica proustiana è in effetti esemplare, quando si pensa che Barthes ne faceva l'elemento propulsore della Recherche. Rilevando i meriti della critica genetica in questo campo, lei sottolinea al tempo stesso il pericolo al quale essa può esporre il testo: si rischierebbe di offuscare e «dissacrare la nozione stessa di testo», andando, nel senso di Valéry, verso una relativizzazione della nozione di compiutezza del testo. Ma, poiché per lei l'opera è sempre in progress e la sua chiusura accidentale, la sua posizione mi sembra coincidere con quella di Valéry. Potrebbe essere più preciso? Genette. In questo caso credo che lei mi abbia fatto dire un po' quello che non dico. Quando dico che la conoscenza dell'avantesto ha per effetto di dissacrare la nozione di testo, lo dico in modo interamente positivo, del tutto favorevole. Io considero che, per una ventina d'anni, si è fatto del Testo una specie di feticcio, e sono davvero felice che lo studio degli avantesti destabilizzi questo feticcio, mostrandoci che il testo è sempre quello che è un po' per caso. E mostrandoci, per esempio, a proposito dei nomi propri dei personaggi - credo che non sia vero soltanto per Proust - che delle caratteristiche che ci sembravano del tutto fondamentali sono talvolta intervenute all'ultimo momento e, di conseguenza, non hanno potuto, come credeva Barthes, agire come incitatori nello spirito dell'autore. Tutto è già scritto nel momento in cui Proust decide, per un capriccio dell'ultimo momento o per una migliore idea, che Monsieur de Quercy si chiamerà in fin dei conti Monsieur. de Charlus, mentre tutti gli oounciati che lo concernono sono già stati scritti. Perciò la dissacrazione del testo per mezzo dell'avantesto, che a questo proposito è un aspetto del paratesto, la accolgo favorevolmente. In compenso, dico che non bisogna, a sua volta, sacralizzare l'avantesto, così come, in generale, non bisogna fare del paratesto un nuovo feticcio. Il paratesto è al suo posto ed è quello che è soltanto perché è al suo posto; se lo si toglie dal suo posto, allora tutto crolla, e lo stesso vale per l'avantesto. L'avantesto è molto prezioso in quanto mostra il modo in cui il testo si è organizzato, sempre in maniera empirica e un po' casuale, accidentale; che è questo, ma che avrebbe potuto essere quello, e che non si sa mai bene per quale motivo è questo invece di essere quello. Ma non ci si deve mettere a privilegiare l'avantesto sul testo. Tutto ciò forma un processo trasformazionale che si deve leggere come tale, e l'ultimo stadio è l'ultimo, né più né meno. Non bisogna cercare di riscrivere, o allora è un gioco che può essere divertente e alcuni l'hanno fatto per Madame Bovary, ad esempio. Cercare di ricostituire quella che sarebbe una specie di versione primitiva della Recherche du Temps perdu, da mettere in circolazione al posto della versione definitiva, è soltanto un gioco. Questo si può immaginare: come c'è una specie di UrFaust, si può immaginare una UrLa Recherche, ma non deve veicolare una sorta di imposizione di valore. Russo. L'intervista o /'entretien costituiscono uno dei casi più frequenti di epitesto pubblico, collocandosi in uno spazio imprecisato fuori dai confini fisici del testo. A questo proposito, ci sono dei casi sempre più diffusi in riviste e giornali francesi, in cui scompare ciò che ne costituisce la specificità stessa: la forma dialogica. Il testo si presenta sotto una forma continua e spesso si nota appena, alla fine, la formula: «Considerazioni raccolte da... » Lei cosa ne pensa? Genette. Ha ragione di porre questa domanda su una pratica di cui non ho parlato, e che è quella dell'entretien, in cui l'aspetto dialogico scompare dal risultato. Ma noi non conosciamo la genesi di questo risultato e facciamo molta fatica per questi, come per gli altri d'altronde - tranne evidentemente gli entretiens in diretta alla radio o alla televisione, in cui l'autore è fisicamente responsabile di quello che dice poiché lo ascoltiamo e lo vediamo. Per tutto il resto non sappiamo mai qual è la parte del mediatore, che la forma sia dialogica o meno. Cosicché, nel caso che lei cita, siamo forse in presenza di una sintesi, fatta dal giornalista in una pagina, di un entretien che è durato tutto un giorno, sono cose che succedono. Se c'è stata condensazione, noi non sappiamo se essa è stata nei dettagli approvata dall'autore o no, ma forse siamo anche in presenza di un testo che l'autore ha redatto dalla prima all'ultima riga. Di fatto non sap- ~ piamo mai in presenza di cosa sia- ~ mo in questo genere di discorsi ri- -~ portati, perché non sappiamo mai ;::: che cosa vuol dire esattamente «ri- ~ portati». Forse avremo un giorno gli avantesti di un certo numero di questi entretiens e potremo valutarli in modo più preciso. Conosco dei giornalisti che praticano sistematicamente la formula del !un- ...... ~ -o E ~ ~ "' ~ ...... ghissimo entretien, conversazione ~ che può durare delle ore, a volte ~ dei giorni di coabitazione con un i autore. Essi non registrano niente, ~
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