mio letto, e sono svegliato da un giovane che entra nella mia stanza dicendo di essere il fattorino. Mi consegna una lettera, che non riesco ad afferrare: allora egli, vedendo la mia impotenza, depone la lettera sul tavolo, e se ne va. Sempre all'interno del sogno, passano molti anni (questo è un fatto che accade assai raramente, perché nel sogno non c'è mai la dimensione temporale), e un giorno mi accorgo che sul mio tavolo c'è una lettera: l'apro, e cosa leggo? Due iniziali scritte con caratteri maiuscoli: «L.M.». Sempre nel sogno, interpreto queste due lettere come Livre Mori. In calce al foglio leggo, scritto più in piccolo: «lei, prend fin toute lecture». Si tratta di un fatto straordinario: molti psicoanalisti, specialmente mia figlia (la quale esercita la professione di psicoanalista), sono rimasti stupiti e turbati da un simile sogno, e ancora oggi studiano questo caso, che è molto strano. Uno di loro sta cercando in tutti i miei libri come abbia giocato questo «L.M.», perché tra il Retour au livre e il Livre du partage intercorrono ventritré anni: è un problema che assilla anche me, quello di sapere quale ruolo abbiano svolto queste due lettere «L.M.», che in un primo tempo assegno a una figura femminile, ritrovo successivamente nel nome di un missile (un oggetto, appunto «aereo», «extraterrestre», come lo è il nome da me assegnato); si dissolvono, in seguito nell'assenza di un nome, e ritrovo ora, interpretandole come «Libro Morte». Folin. Ma se non c'è più possibilità di lettura, come ci apriremo al futuro? Quale spazio ci sarà ancora dato per la durata, per la speranza? Jabès. Parlando del libro, io scrivo sempre che il libro esiste a partire dall'impossibilità di scrivere. So che non arriverò mai ad esprimermi: è sempre a partire da questo limite che io scrivo. Faccio, cioè, dire alla parola tutto ciò che la parola può dire, e mi accorgo che questa parola è sempre al di qua: cerco, dunque, ogni volta di fare di questo «al di qua» un «al di là»; sempre, ogni volta, ritorno su questo impossibile passaggio. Dunque, tu parli della speranza: se una persona volesse realizzare tutto quello che è possibile realizzare per un essere umano, allora tale persona non si aprirebbe più al futuro, non avrebbe più speranza. La speranza, dunque, nasce ancora una volta, da una mancanza. Se tu possiedi tutto, non puoi sperare niente: è grazie al fatto Gérard Genette Seuils Paris, Seuil, 1987 pp. 389 N el clima «dimissionario» che, in maniera diversifica- , ta, investe in Francia la nouvelle critique e gli studi di teoria letteraria, Gérard Genette - ~ .e che ha contribuito a "andare con . E ,, Figure III la narràtologia, e la cui ~ ~ fama rimane legata· alla rivista ~ «Poétique» e all'omonima collana ...., editoriale, finora diretta insieme a Tzvetan Todorov - appare oggi ~ come un «solitario», sostanzial- ;g_ mente e «felicemente» ancorato al- ~ le posizioni programmatiche che che questo tutto non lo possiedi, che tu puoi sperare tutto. Per questo, l'uomo, chiunque sia, è speranza: perché tutto quello che egli possiede non dà una soddisfazione intera, completa e totale. Un povero, ad esempio, che diventi ricco, può dire di essere soddisfatto, ma, forse, in realtà è più infelice di prima. Noi viviamo di speranza, non possiamo fare altrimenti, perché come non possiamo dare tutto, così non possiamo ricevere tutto. C'è dunque sempre qualche cosa che speriamo di avere. È così anche per il libro. Per me ogni libro scritto non dirò che è una delusione, ma è un passo verso la speranza di un libro. Folin. È dunque a partire dalla nostra incancellabile solitudine che si può fondare la condivisione? Ci sarebbe una condivisione opera di dante / ravenna Conversazioni di varie discipline per fare un esempio, che due persone parlino molto tra loro, e quando il dialogo finisce si accorgono di non essersi detta la cosa che stava loro più a cuore: si tratta di una mancanza. Esistono certamente diverse gradazioni della mancanza. Ma a volte la mancanza può costituire un fatto terribile: ci sono persone che si sono uccise per non aver saputo dire all'altro che lo amavano, per non essere riuscite a esprimere il modo in cui lo amavano. Il miracolo della coppia sta in questo: si tratta sempre di una coppia di due solitudini che parlano l'una all'altra, e si appoggiano l'una sull'altra. L'altra sera, come ricordi, eravamo in compagnia: abbiamo cantato, riso: ebbene, tutti quelli che cantavano - io li guardavo - erano più soli che mai, società dantesca italiana / firenze 666° annuale della morte di dante alighieri convegno internazionale dante e le città dell'esilio ravenna I 11, 12 e 13 settembre 1987 sala dantesca della biblioteca classense / via baccarini 3 direzione scientifica: prof. guido di pino segreteria: opera di dante / tel. (0544) 35.224 organizzazione: studio enne / tel. (0544) 30.329 / telex 551241 stuen i relatori: andrea battistini, christian bec, leonella coglievina, guido di pino, pompeo giannantonio, mario luzi, francesco mazzoni, rosetta migliorini, giovanni nencioni, lò giorgio petrocchi, aldo vallone, giorgio varanini comune di ravenna / assessorato cultura e spettacolo I assessorato turismo I azienda promozione turistica di ciò che non si può condividere? Jabès. Certamente: è la solitudine che ci permette a tutti di entrare più profondamente in noi. Il problema, allora, è di sapere che cosa vogliamo condividere. Se non vogliamo condividere nulla, allora forse la solitudine non serve a niente. Ma coloro che non vogliono condividere nulla sono ancora più solitari degli altri. Secondo me siamo tutti soli, e non possiamo fare altrimenti, perché tutto contribuisce a renderci a noi stessi, e noi stessi non possiamo renderci a nessuno. Anche nel caso in cui fossimo in possesso di tutto, ci sarebbe sempre questa parte di solitudine che è la nostra parte più profonda, e che è costituita - e qui torno al Livre du partage - di tutte queste mancanze. Accade spesso, nella loro canzone. Ognuno aveva uno sguardo, nel quale trascorreva tutto il suo passato: anch'io, anche Ariette: c'erano tutti i ricordi che venivano da lontano. Eravamo assieme: certamente è stata una serata bellissima, era veramente una festa: e tuttavia una festa di quindici persone solitarie. Folin. Il nostro è il tempo della tecnica se intendiamo questo termine non come mero mezzo e come attività dell'uomo, ma in quanto «destino» dell'epoca in cui viviamo. In che modo, secondo lei, la tecnica può incidere su questa originaria solitudine che rende possibile la comunità? Jobès. La tecnica può distribuire questa originaria solitudine perché essa si sostituisce a noi stessi: fa al posto nostro quello che noi stessi dovremmo fare. Se penso, ad esempio, che una macchina può costruire una tavola, sostituendosi a me, si dissolve in me il piacere della costruzion·e, del fare: in questo modo io sono escluso. Per ricorrere ad un altro esempio: nella guerra, oggi, - parlo, ben inteso, di un fatto terribile, condannabile comunque - non c'è più l'eroe. Nella guerra di un tempo gli uomini si affrontavano faccia a faccia (non dico che il fatto in sé fosse bello, anzi era comunque orribile): oggi, però, è diverso. Semplicemente premendo un pulsante si può far saltare in aria una intera città: non si è più dentro agli avvenimenti. Così come accade in questo campo, orribile che è la guerra, avviene anche in ogni altro campo, anche nei fatti più comuni della vita quotidiana. Ad esempio, al «métro», un tempo era il controllore a forare i biglietti: quel controllore, quando tornava a casa, aveva la mano che gli doleva; oggi questa figura non c'è più: al suo posto hanno installato le macchine obliteratrici. Dunque quell'uomo è stato escluso. Piano piano siamo esclusi da tutto. È così anche per la scrittura: le moderne macchine per la videoscrittura rendono impossibile la cancellatura; basta premere un pulsante e ciò che avevamo scritto scompare, tutta la frase cambia. Tutto viene memorizzato ·attraverso la macchina. Eppure, la memoria è qualcosa di importantissimo per lo scrittore: se essa è assunta dalla macchina, la frase non lavora più. Perché, quando scriviamo una pagina, prima .di arrivare all'ultima redazione, vi sono tante varianti, tante versioni diverse? Perché ogni volta andiamo più lontano; ma questo andare costituisce una riflessione sul testo. Ora, se la memoria elettronica ti restituisce in modo perfetto quello che hai scritto, tu non vivi più la storia del tuo testo fin dal suo inizio: e questo è un fatto terribile, terribile. Allo stesso modo, la gente oggi non ha più lo stesso rapporto con il libro: tutto questo si perde. La moderna editoria tende ora addirittura a sostituire la voce al testo, registrando un libro in una cassetta, e mettendo in commercio quest'ultima, invece del libro. Certo, la voce è importantissima, ma per uno scrittore, ciò che conta è la voce della sua scrittura. Questa voce entra nel testo. Quando scriviamo, dimentichiamo le cose che abbiamo scritto; quando si scrive una frase, nella nostra testa ci sono molte frasi, ma noi ne scriviaGen e, paratesto meno di vent'anni fa fondavano, sulla scia di Valéry e alla luce di una rilettura di Aristotele, la nuova poetica. Dopo circa cinque anni di lavoro, condotto anche a livello seminariale (il risultato ne è il n. 69 di «Poétique», interamente dedicato al paratesto e uscito in concomitanza col libro di Genette), con Seuils, Gérard Genette chiude la triade iniziata nel 1979 con /'architesto, e a cui faceva seguito nel 1982 l'ipertesto (Palimpsestes, ed. du Seui!). È adesso la volta del paratesto, termine generico che sottende le varie pratiche leiterarie, o anche semplicemente editoriali, che ruotano attorno al testo, A cura di Maria Teresa Russo dentro o fuori dai confini del libro: dal titolo alla prefazione, dalla copertina alla nota, dalla fascetta alla dedica, all'intervista, al diario intimo, ecc. Spostando il suo punto di vista metodologico, in questo caso empirico e pragmatico, Genette ne mostra le strategie e la posta in gioco: il paratesto non esiste in sé, ma per la sua funzione ausiliaria; esso è al servizio del testo, e il suo discorso, eteronomo, perora la causa del testo. Tuttavia, le sue circa quattrocento pagine non sono che un inventario, un tentativo di definizione del paratesto; per questo egli invita insistentemente a continuarne lo studio: verosimilmente, la parola spetterebbe adesso ai sociologi e agli storici della letteratura. Se Genette ci conduce alle soglie del testo, non è, come si potrebbe pensare, per uscirne fuori; la sua conclusione è, al contrario, un invito ad entrare nel testo, verso il quale (in particolare, la sua letterarietà) rivolge di nuovo, attualmente, la sua attenzione. La reazione ad un certo clima intellettuale francese - variamente influenzato dagli effetti di moda, e nei confronti del quale Genette non lesina accenti ironici quando non graffianti (non manca però l'auto-iron~a) - ha certamente motivato, in parte, questo lavoro; ma è anche vero che ci sono motivamo una sola. Ci si comporta come se avessimo dimenticato la memoria delle altre frasi: una memoria che, in realtà, non perdiamo mai. In seguito, quando si esegue un nuovo lavoro sul testo, un'altra frase, che forse avevamo lasciato da parte in precedenza, emerge dall'oblio. Ora, se noi immettiamo le frasi in un computer, tutto questo lavoro di memoria e di oblio viene meno. Max Jacob, quando avevo vent'anni, mi disse: «Attenzione al fatto di lavorare su un testo, perché non ve n'è nessuno: il vero lavoro è quello che lo scrittore fa su se stesso». Mi disse anche, e non l'ho più dimenticato: «Établir un carnet de correspondance entre soi et soi: voilà le vrai chaud travail». La tecnica, tutto questo ce lo fa perdere, anche perché siamo assicurati di non dimenticare: è come se accanto a noi ci fosse sempre qualcuno che ci ricorda tutto ciò che abbiamo dimenticato. Se prendi i miei manoscritti, per ogni libro ci sono state cinque o sei versioni, molto differenti l'una dall'altra. Tante cose sono state abbandonate, ma si tratta di cose venute dopo ... Folin. Vale dunque anche per la scrittura ciò che lei ricorda spesso a proposito della parola, e cioè che una parola ripetuta muta di senso, pur rimanendo la stessa? Jabès. Sicuro. Pensa che io porto con me sempre una matita; mai un foglio di carta. Folin. Perché? Jabès. Perché quando ci viene alla mente una frase, che ci piace molto, la vorremmo subito fissare nella scrittura; ma credo che non si debba farlo: credo che si debba lasciarla andare, con il rischio di perderla. Quando un pensiero è molto forte, allora esso ritorna da solo nella sua vera forma. È come il frutto dell'albero: non puoi prenderlo finché non è maturo. Non è così per tutte le frasi, beninteso: ce ne sono alcune che semplicemente non trovano la loro forma perché ci si è pensato molto a lungo, ma si tratta di altra cosa. Ci sono invece altre frasi che vengono senza che ci avessimo pensato: il fatto che una frase sia venuta, vuol dire che essa nasconde altro, perché porta in sé altre frasi. Per questo sostengo che il silenzio non è affatto il contrario del rumore: il silenzio non è il contrario della parola, ma qualcosa che è parola taciuta per diventare parola detta. Si tratta sempre di un gioco tra il dire e ciò che attende di essere detto. zioni più profonde, non ultimo l'interesse di Genette per Borges di cui è grande lettore. Maria Teresa Russo Russo. Nella sua attrazione, o interesse, per il paratesto si potrebbe credere ad un'influenza di Borges. Perché si dà il caso che lei privilegi Borges come autore e che questi, a sua volta, privilegi, o almeno utilizzi abbastanza spesso, il paratesto all'interno della sua opera. Genette. È sicuro che, studiando un oggetto come questo, si è indotti a privilegiare un certo numero di autori; sia perché questi vi
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