Alfabeta - anno IX - n. 100 - settembre 1987

Conversazioni di varie discipline JabèsassenzadiDio 'I A cura di Alberto Folin Folio. Lei ha ribadito più volte che i suoi libri nascono senza premeditazione: sono il prolungamento di una domanda che si apre lungo il cammino della scrittura. A quale punto di questo cammino si presenta il problema del partage, della condivisione? Jabès. Credo che non avrei mai scritto Le livre du partage, se non avessi scritto prima Il libro della sovversione non sospetta. Il libro del dialogo, Il percorso. La questione di fronte alla quale mi sono trovato è la seguente: in che modo un libro può essere condiviso? La domanda, ad un certo punto, chiamava in causa la possibilità stessa della condivisione: un libro può veramente essere condiviso? Ebbene, io ritengo che sia impossibile. Quando si legge un libro, qualunque libro, anche il più importante, uno di quelli che ci hanno accompagnato e che ci accompagnano nella vita, afferriamo in realtà quello che ci interessa, e lasciamo da parte il resto: ma questo «resto», tutto ciò che abbiamo tralasciato~ e dunque non è stato condiviso, è morto, non esiste. Non si possiede allora, veramente, che un certo libro, il quale è divenuto nostro, ma che è solo una parte uscita dal libro che abbiamo letto. È questo a costituire il miracolo della lettura: quando, passato un po' di tempo, riprendiamo in mano il libro, ci accorgiamo di aver tralasciato qualcos'altro che sarebbe stato interessante, anche per noi. Queste pagine abbandonate, che giungiamo a condividere a poco a poco con l'autore, fanno sì che il libro acquisti ogni volta un'altra dimensione. Un libro che non sia stato mai condiviso, nessuna pagina del quale sia stata condivisa, è un libro morto. Così avviene, anche per noi, nella vita. Quando diciamo che condividiamo la nostra esistenza con un essere con il quale viviamo, e amiamo, diciamo in realtà qualcosa di falso. Ci comportiamo, infatti, come il lettore del libro: prendiamo, cioè, da questa vita a due, solo quello che per noi è importante e che per noi conta: allo stesso modo si comporta l'altro (la nostra compagna o il nostro compagno), che prende da noi tutto ciò che gli permette di essere felice e di vivere. Ma tra noi e l'altro esistono tante cose che non sono state condivise. La domanda che si pone è dunque la seguente: che ne è di tutto questo vissuto non condiviso? Questo vissuto c'è, è presente come vissuto, per noi che lo abbiamo vissuto: eppure, non esiste né per noi né per l'altro, perché non è uscito da noi. Questo è anche tutto il problema del linguaggio: se noi parliamo, è in realtà per consentirci di dire cose che non giungeremo mai a dire. Per questo il linguaggio è qualcosa di insoddisfacente. Dietro al linguaggio si nasconde un arrièreparole che non giungeremo mai ad esprimere. Tutto quello che diciamo non è che il tentativo di arrivare un giorno a dire questo qualcosa che sfugge sempre al dire. Dietro alla parola detta ci sono le parole che vorremmo condividere con l'altro, e non riusciamo a condividere: vorremmo dir.e in modo totale quello che desideriamo esprimere. Resta il problema: che ne è di tutto questo? Questo «qualcosa» che sfugge al linguaggio, io lo chiamo «una mancanza». Da essa nascono tutti i nostri rapporti con l'altro. Folin. A proposito di questa sua idea di «mancanza», mi sembra che numerosi filosofi che oggi riflettono sul pensiero ebraico contemporaneo, rifacendosi soprattutto a Rosenzweig o a Lévinas, tendano ad identificare «assenza» con «mancanza», facendo coincidere la sua opera con tale tradizione, ma dimenticando che Il Libro, per lei, non è affatto un fondamento indiscusso, sia pure come traccia che preceda l'origine. Mi sembra, in realtà, che lei assuma l'ebraismo in termini fortemente problematici, tentandone i limiti estremi.. . Jabès. In realtà, per molti filosofi contemporanei la verità si afferma perentoriamente come Rivelazione: che non è tanto quella di Dio, quanto, più semplicemente, quella di Rosenzweig, Heidegger, Lévinas ecc. Ho ribadito spesso che i miei libri non nascono da una teoria: dunque da nessuna Rivelazione (né divina, né «mondana»), ma da un'esperienza della scrittura vissuta fino in fondo, in modo radicale. Per me, assenza e mancanza sono del tutto differenti tra loro. Tuttavia, l'assenza è anche una mancanza. Quando diciamo «assenza», pensiamo ad una presenza: non possiamo dire «assenza» senza pensare a una presenza. L'assenza, perciò, sarebbe la mancanza di una presenza. C'è, però, un'altra Assenza: un'Assenza che è all'origine; quella dalla quale nasce tutto ciò che esiste. Pensiamo a un mondo increato: questa è l'Assenza. È con essa che hanno a che fare l'artista e lo scrittore, perché è l'Assenza di ciò che non è stato ancora creato, che non esiste. Per questo, lo scrittore, nella sua pratica quotidiana della scrittura, scqpre qualcosa di nuovo ogni volta. Potrai obbiettarmi: se scopre qualcosa, vuol dire che questo «qualcosa» esiste. Certo, esiste, ma egli non sa che esiste. Egli scopre in sé un 'assenza che è tale perché è il risultato di un oblio che, però, non è la dimenticanza di qualcosa che sia stato vissuto; è l'oblio di un non-vissuto. Un nonvissuto che esce all'aperto al momento che gli è proprio. Diciamo allora che questa Assenza può essere all'origine di tutto quello che nasce, di tutta la Creazione. La tradizione ebraica afferma che Dio non ha creato il mondo, ma lo crea ogni giorno, ogni secondo, con la complicità dell'uomo. Ma creare significa partire dal niente: che cos'è questo «niente»? Questo «niente» è l'Assenza. Come sai, ho parlato molto, anche con te, di quell' Assenza che è l'ascolto: un'Assenza che potrebbe identificarsi con il silenzio, il silenzio delle cose. Silenzio non delle cose che sono state già, che hanno già avuto uno statuto di vita, ma il silenzio di qualcosa che non è ancora venuto al mondo. Questa assenza assomiglia alla morte che è dietro la morte, come se potesse esserci una morte dietro la morte. Noi parliamo della morte con la più grande gravità, perché per noi è terribilmente importante domandarci il perché della vita, se c'è questa fine. Però ne parliamo anche con leggerezza, perché non sappiamo che cosa essa sia. Quando un bambino ci chiede «che cos'è?», a proposito di qualche problema che riteniamo difficile e import~nte, rispondiamo: «Lascia perdere, non potresti capire». Ecco: noi ci comportiamo come questo bambino, facendolo con gravità: parliamo di cose che sono essenziali per noi senza sapere che cosa esse siano. Parliamo dunque di questa «morte», con la quale viviamo, senza la quale non possiamo neanche concepire la vita: e tuttavia non sappiamo cos'è. Questa «morte» con la quale viviamo, è una morte familiare: quando noi parliamo della morte, parliamo dunque soltanto della «familiarità» che abbiamo con lei. Ma la morte vera, questo nero, questo nulla del nulla è la questione più angosciante. Ne ho parlato nel libro che si intitola Aely: Aely è uno sguardo che guarda lo sguardo guardare, e che non è stato toccato dalla vita, che è fuori della vita; che cosa potrebbe essere: l'impensabile, il nulla, l'abisso? Rispetto alla tradizione religiosa dell'ebraismo e al pensiero più propriamente ebraico cui fai riferimento diciamo che cerco di andare più lontano. A chi pensa che ci sia pur sempre «qualcosa», che ci sia una traccia rispondo che certo, ciò è vero, ma domando: e prima di questa traccia? Se abbiamo di fronte una pagina bianca, possiamo pensare che forse essa porta la traccia di un libro bianco di Dio, d'accordo; ma prima della scrittura di Dio? Anche se immaginiamo che Dio ha scritto con delle parole illeggibili, cioè bianco su bianco, per usare un'immagine, se noi potessimo concepire una pagina bianca prima di essere voluta bianca da colui che l'ha scritta, di cosa si tratterebbe? Questo · costituisce la nostra grande angoscia. Penso che quando si dice che c'è sempre una traccia, che però noi non vediamo, quando si dice che Dio esiste e risponde all'uomo, che pur non lo vede, si afferma qualcosa di diverso da ciò che io intendo per assenza di Dio. L'assenza di Dio ha a che fare con il segreto. Cos'è il segreto, se non ciò che è stato taciuto? Quando la tradizione ebraica parla di «assenza di Dio», vuole intendere che Dio si è ritirato, per lasciare la responsabilità all'uomo. D'accordo: ma prima? Quello che disturba, credo, nei miei libri, è che nella mia relazione all'ebraismo, io non accetto !'«il y a», perché, anche se si tratta di una questione legittima, per lo scrittore non c'è un «il y a», per lo scrittore c'è sempre un «il y aura». È questa una posizione che i pensatori più propriamente «religiosi» dell'ebraismo non possono accettare. Infatti-essi sostengono: se «il y aura», allora «il y a». Al contrario io dico: no, «il y a» non esiste: noi passiamo dal Niente a «il y aura». Per questo nel Libro del dialogo il «dopodialogo» è prima del dialogo. È per questo, ancora, che io affermo che la nostra responsabilità nei confronti dell'altro passa attraverso ciò che manca all'altro, mai attraverso ciò che egli possiede. Come potrei essere responsabile di Dio, che possiede tutto, io che non posseggo nulla? La mancanza del volto dell'altro è ciò che determina la nostra responsabilità. Ai deportati di Auschwitz hanno tolto il volto: questa mancanza rende a noi quel volto ancora più forte; la nostra. responsabilità mlZla a partire dalla mancanza di quel volto. Folin. In una pagina del Livre du partage intitolata Le Reve (II sogno) lei racconta un episodio che si conclude con l'idea della fine della lettura; una fine che si compendia in due lettere «L.M.» (Libro. Morte). Giorgio Agamben, in una lettera a lei inviata, e pubblicata recentemente nella rivista «Metaphorein», che le ha dedicato un numero monografico, afferma che qui «lei rompe... con l'idea di una interpretazione e d[ una lettura infinite, che era divenuta un luogo comune nel pensiero del nostro tempo». Queste due lettere ritornano, mi sembra, in molti suoi libri: qual è il loro senso vero? E come giocano all'interno della sua opera? Jabès. Questa questione di L.M. si ricollega a un fatto molto strano che mi è accaduto. In Le Retour au livre, che è il terzo libro del Ciclo delle Interrogazioni, c'è un episodio nel quale io mi rivolgo ad una donna, esprimendomi press'a poco con queste parole: «Sogno di darti un nome che sarà solo il tuo nome, un nome che non sia mai condiviso, in modo che la morte non possa niente contro di te: un nome a te sola». Quando infatti noi diciamo: «il nostro libro», non sappiamo cosa diciamo. Io vorrei un nome per un libro che sia il mio, un libro che sia solo di Edmond Jabès ... Folio. Dunque, che le appartenga. Jabès . ... Sì, che mi appartenga, e del quale nessuno possa appropriarsi: un libro che designi soltanto un unico nome. Ora, questo è un desiderio irrealizzabile, perché nominare è già condividere. Per tornare al passaggio del Retour au livre, cui ho accennato, intendo dunque assegnare un nome a questa donna, perché sia lei sola: il nome che ho pensato è costituito da due iniziali: L.M. Di questo nome dico, in questo stesso passaggio, che si tratta di un nome «extraterrestre», un nome «aereo». Ebbene, qualche tempo dopo, aprendo il giornale, leggo il titolo: «II nuovo missile lunare L.M.». È già una strana coincidenza che questo missile lunare, un oggetto dunque «extraterrestre», «aereo», si chiami L.M. Ma la vicenda L.M. non finisce qui. Passano vent'anni: nel Livre du ~ dialogue racconto un episodio: mi ~ trovo nel mio studio e appare una -~ donna, che mi chiede: «Dammi un c:i... ('-._ nome che mi conviene, perché ~ possa vivere, perché possa essere -. ~ quello che vorrei essere, quello ..C) che in effetti sono». Non riesco a ! darle tale nome, e la donna svani- -u "' sce. Tutto il libro è intessuto su ~ questo passaggio, su questa man- -. canza. ~ Due anni dopo scrivo Le livre ~ du partage e racconto un sogno, g, che è un vero sogno. Mi trovo nel ~

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