Alfabeta - anno IX - n. 100 - settembre 1987

ne di verità alla «giw,tificazione qui ed ora» avanzata storicamente in connessione con la conferma delle teorie scientifiche. Altrimenti egli dovrebbe ammettere la plausibilità di asserire che tremila anni fa era vero che la Terra era piatta. Ma a questo punto non abbiamo nessuna base intelligibile, nessun criterio epistemologico per sostenere che le imprese cognitive e scientifiche si avvicinano ad una verità finale concepita come concetto-limite di una ideale convergenza; e non abbiamo neanche più alcun criterio per giustificare l'idea di una crescita e di un progresso scientifici! Al contrario, se lasciamo cadere l'epistemologia di paradigmi, schemi concettuali e versioni del mondo, e torniamo all'idea di verità relativa al linguaggio e alle procedure di traduzione, possiamo allora riuscire a spiegare, all'interno del linguaggio che pratiGrande cerimonia filosofica a Londra chiamo, la crescita e il progresso della scienza, traducendo le precedenti teorie scientifiche del passato nel linguaggio-quadro della scienza del giorno, e di conseguenza includendo queste dottrine come casi-limite di una migliore, più comprensiva teoria scientifica che ci soddisfa. Tale è il celebre caso della dinamica di Newton, che può essere assunta come un caso particolare della teoria della relatività di Einstein; e ad una teoria scientifica non può accadere .niente di meglio che includere una precedente, più vecchia teoria come proprio caso limite particolare. In questo modo, il progresso della scienza non dovrebbe più essere misurato e verificato lanciando di tanto in tanto uno sguardo strabico fuori del linguaggio scientifico al presunto approssimarsi dello sviluppo scientifico alla realtà in sé, ma confrontando gli uni con gli altri insiemi di proposizioni scientifiche per mezzo della procedura della traduzione. Il che dischiude la possibilità di recuperare la nozione di progresso scientifico senza dover sottoscrivere impegni di tipo metafisico. Non è possibile niente di più e non c'è bisogno di niente di meglio. Traduzione dall'originale inglese di Massimo Cellerino Il dimagrime~td!oellafilos a r,-., ...., e iò che, nel titolo di questo intervento, si chiama il dimagrimento della filosofia, può anche esser descritto come un processo di secolarizzazione. È questo il tema a cui, più o meno direttamente, si collegano tutti i saggi raccolti nel volume Filosofia '86 edito da Laterza, che costituisce l'occasione di questo incontro. In italiano come in inglese, questo termine ha anzitutto un significato connesso alla teologia e alla storia della religiosità dell'Europa moderna. Noi lo abbiamo scelto come tema anche pensando a tale suo significato più tradizionale, ma soprattutto perché esso ci è parso utile ad esprimere il senso della trasformazione che la filosofia ha vissuto negli ultimi decenni, e in fondo in tutto questo secolo: una trasformazione che, nella nostra ipotesi, è analoga a quella che, nella storia della religiosità europea, è stata chiamata secolarizzazione (perdita di centralità, diminuzione di potere ed egemonia sociale, dissoluzione e distorsione di tematiche e contenuti originari ecc.); e che, inoltre, anche al di là di questa analogia (che potrebbe ridursi addirittura a una metafora) è sostanzialmente legata a tale processo di trasformazione della vita religiosa, al punto da potersene considerare un momento: è stato del resto Richard Rorty che ha parlato della nostra epoca come di una epoca post-filosofica, nello stesso senso in cui si può dire che la cultura europea dopo l'Illuminismo è una cultura post-religiosa. Anche se Rorty non lo teorizza esplicitamente, è molto probabile che questi due «post» siano legati non solo da una analogia, ma da un nesso consequenziale di contenuto. La scelta del tema della secolarizzazione per l'inizio di un lavoro filosofico teorico collettivo - il primo momento di un lavoro che speriamo prosegua negli anni prossimi, con interventi sempre più ampi e vari - esprime anche la convinzione, comune alla maggior parte degli autori dei saggi raccolti nel volume, che questa trasformazione dello status, dei compiti, dei metodi ecc. della filosofia sia un problema filosoficamente rilevante, anzi forse il problema filosofico per eccellenza della nostra situazione. Molto schematicamente, la trasformazione della filosofia che in- ~ dichiamo come «dimagrimento» o -~ secolarizzazione sembra avere un ;:: significato che si articola nei se- ~ guenti punti: ...., 1. La trasformazione della filosofia nel nostro s~colo, o a partire dall'ultimo quarto dell'Ottocento, è determinata dal dissolversi della metafisica e cioè del pensiero «fondazionale». Chiamiamo pensiero fondazionale non solo quello ~ che, secondo lo schema della me- l tafisica classica, soprattutto arista- ~ telica, si concepisce come l'afferramento cogmt1vo di una zona, strato, aspetto della realtà che sta alla base di tutti gli altri livelli dell'essere (così, l'essere «in quanto essere» di Aristotele) e in tal modo garantisce il massimo del sapere; ma anche quel pensiero che, avendo rinunciato (con Kant) ad assegnare alla filosofia un oggetto specifico, una zona dell'essere, la vede sempre ancora come gnoseologia, epistemologia o, nel nostro secolo, metodologia: cioè come una forma di conoscenza che fonda non più dal lato della realtà «prima» a cui si rivolge, ma dal lato dell'attività conoscitiva di cui possiede le condizioni a priori. La dissoluzione della metafisica e del pensiero fondazionale inteso in entrambi questi sensi si verifica nel nostro secolo non già per opera di quelle filosofie che si sono presentate come esplicite polemiche antimetafisiche cioè il positivismo e le sue riprese neoempiristiche novecentesche. Queste critiLa donna inglese nel secolo di Cromwell nella cultura contemporanea è piuttosto quella che proviene dal pensiero «radicale» otto-novecentesco, da autori come Nietzsche e Heidegger, ma anche da pensatori più vicini, nell'immagine canonica della storia della filosofia contemporanea, alle preoccupazioni di Carnap, e cioè - come ha mostrato soprattutto Rorty - Dewey e Wittgenstein. In questo pensiero radicale, così come nel pragmatismo di Dewey e di Wittgenstein, la dissoluzione della metafisica e del fondazionalismo non avviene in nome di esigenze strettamente cognitive; non si tratta, cioè, di sostituire alla metafisica come pensiero falso una conoscenza del reale più vera e capace di •convalidarsi. Quello che viene rifiutato e «confutato» (ma non mediante una dimostrazione che pretenda di descrivere a propria volta la vera struttura delle cose) è l'idea che ci siano strutture stabili. Per dirla con Heidegger, Antonia Fraser L'OMBRA DI EVA ..,_~_._..--__.-RUSCONt _-_-...__ che ispirate al positivismo si sono rivelate sempre più esplicitamente come critiche che intendevano semplicemente sostituire una nuova metafisica a quella tradizionale, una certa concezione dell'essere o del pensiero ritenuta più autentica e vera di quelle ereditate dal passato. Tipico esempio di questa critica ancora metafisica della metafisica mi pare essere il saggio di Carnap del 1932 contro Heidegger, Ueberwindung der Metaphysik durch logische Analyse der Sprache: se il saggio di Carnap non può dirsi fondazionale nel primo senso della parola, lo è certamente nel secondo senso, quello «epistemologico» o metodologico. Ebbene, mi pare abbastanza evidente che oggi anche e soprattutto nelle correnti filosofiche derivate dal neopositivismo e dal neoempirismo, questa polemica antimetafisica non ha più corso. In generale, la critica della metafisica che dura e circola in modi molteplici viene in luce in maniera radicale, e con implicazioni che non abbiamo ancora esplorato, che l'essere non è ma accade, è evento. La stabile oggettività di strutture è il modo in cui l'essere si sa, accade, nella mentalità metafisica che impronta il pensiero greco e poi, sempre più rigidamente, il pensiero moderno dominato dal modello metodico delle scienze sperimentali. Ma questo accadere non è l'unica possibile «epoca» dell'essere, e comunque, con la critica radicale di Nietzsche, con il pragmatismo di Dewey, con la «svolta linguistica» del pensiero (quella che Ape! chiama anche la «trasformazione semiotica del kantismo» ), con l'analitica esistenziale di Heidegger, l'epoca della metafisica si mostra come conclusa. Il pensiero non può più - una volta che abbia fatte queste esperienze dissolutive - pensarsi come fondazione; in ciò consiste il dimagrimento e la secolarizzazione della filosofia. 2. Non si apre così solo una questione circa i compiti della filosofia come «disciplina» accademica e il suo status scientifico e sociale. Prima di tutto, siamo posti davanti alla questione che Heidegger ha spesso assunto a tema dei suoi saggi: was heisst Denken?; che significa pensare, quando non voglia più dire risalire alle cause prime o alle condizioni di possibilità supreme di ogni conoscere di oggetti? Le risposte che gli stessi filo- . sofi radicali ci hanno lasciato girano intorno a una rivalutazione della memoria: Nietzsche ha parlato esplicitamente di «feste della memoria» che il pensiero celebra nei confronti dei valori e delle forme simboliche trasmesse dal passato, una volta scoperto che non sono verità eterne, ma produzioni «umane troppo umane». Heidegger ha teorizzato che il pensiero, nella sua forma autentica, non più metafisica, si esercita come Andenken, come rimemorazione. Non sarebbe difficile riconoscere qualcosa di questo genere, anche se meno dispiegato nel senso della storia, nell'analisi del linguaggio e dei giochi linguistici di Wittgenstein. Si può semmai domandarsi se il pragmatismo di un Dewey si lasci pensare in questi termini di memoria e rammemorazione dei valori trasmessici dal passato. Credo che il collegamento si possa fare, solo che si tenga presente che ciò rispetto a cui si collauda la «funzionalità» pragmatica di una proposizione non è la «vita» in un senso astratto e sempre uguale; ma una «forma di vita», cioè una concrezione vitale storica, la cui conservazione e sviluppo non può che esser desiderata e perseguita per motivi di attaccamento ai suoi contenuti storico-contingenti (istituzioni, opere d'arte, modi di vita), pena la restaurazione di una metafisica vitalistica come sfondo del pragmatismo. 3. Argomentare razionalmente significa, in questa prospettiva non fondazionale ma «rammemorativa», stabilire e ristabilire sempre di nuovo la continuità tra le esperienze attuali e le «forme» che abbiamo ereditato: il linguaggio della comunità, i prodotti della cultura, i valori della convivenza. Gadamer ha parlato del logos come della lingua storica effettivamente parlata da una comunità. Discorsi teorici e dibattiti morali si articolano sempre come una fitta rete di imperativi ipotetici che non si radicano mai in un imperativo categorico: nel discorso razionale noi articoliamo le nostre appartenenze, e ordiniamo come loro variazioni «compatibili» le esperienze di novità che via via ci accade di fare. La continuità che il pensiero non fondazionale, ma ermeneutico, cerca di ristabilire continuamente non è solo quella tra il nuovo e la cultura ereditata, ma anche tra i molteplici linguaggi in cui si è spezzettata, specializzandosi, l'esperienza moderna del mondo. È probabile anzi che il bisogno di fondazione che si manifesta nella metafisica e da ultimo nella critica kantiana non sia nient'altro (almeno per noi, a questo punto del corso della metafisica, alla sua fine) che bisogno di continuità. La temporalità e finitezza dell'esistenza escludono però che un tale bisogno di continuità possa soddisfarsi con un passaggio al limite, con una fondazione assoluta; dunque, ciò che possiamo e dobbiamo realizzare, come pensare razionale, «logico», è un insieme di fondazioni «retoriche», persuasive come argomenti ad hominem, che sono possibili in quanto ogni discorso - come ha mostrato la riflessione ermeneutica - avviene sempre in un orizzonte già aperto di appartenenze comuni: esse non sono mai garantite ed esplicite una volta per tutte, ma il fatto stesso che un dialogo si dia mostra che ci sono, e che possono essere articolate ed esplicitate, e produrre accordo. 4. Secolarizzazione della filosofia non significa tuttavia solo questo cambio di status, da pensiero fondazionale (e tendenzialmente egemonico, «assoluto») a pensiero «rammemorativo» (e dunque retorico, ipotetico). Il passaggio dalla fondazione alla rammemorazione, cioè la dissoluzione della metafisica, quando sia ripensato e rammemorato, mostra una certa logica, un filo conduttore, che ci si rivolge come una indicazione e un appello proprio in quanto rièonosciamo di non poter guardare il corso delle cose dal di fuori, ma ne facciamo parte: l'indicazione che proviene dalla trasmissione - di cultura, di valori, di modi di esperienza - in cui siamo «gettati» è la sola fonte di razionalità di cui disponiamo una volta percorsa fino in fondo la strada della dissoluzione della fondatività. La storia della metafisica, insegna Heidegger, è (la) storia dell'essere: nel suo configurarsi si annuncia un «destino», un appello normativo che può guidare scelte, costruzioni di pensiero, formazione e trasformazione di modelli di vita. È ragionevole pensare che, se la storia attraverso cui la metafisica si è imposta e alla fine si è dissolta è storia dell'essere, questo abbia come sua vocazione e destino il passaggio dalla struttura all'evento, cioè quello che alcuni di noi hanno chiamato l'indebolimento, traducendo l'idea heideggeriana di un nascondimento dell'essere inseparabile dal suo svelarsi. Indebolimento è un altro termine per dire secolarizzazione - non più solo come cambiamento di status di quella disciplina accademica che è la filosofia, ma come accadimento più generale che tocca il modo stesso di esperire la realtà, il tempo, la storia da parte dell'umanità contemporanea. ]

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