Alfabeta - anno IX - n. 100 - settembre 1987

ni, la tradizione culturale che è stata al servizio degli scopi illuministi è quella creata da opere come La capanna dello zio Tom, Arcipelago Gulag ecc., libri che hanno dato la possibilità ai ricchi e ai potenti di notare l'esistenza di individui che non avevano notato prima. Un'obiezione a questa posizione è che essa suggerisce una visione elitaria della funzione della cultura: la funzione dell'intellettuale consiste nel dirigere l'attenzione di coloro che hanno già il possesso del potere, del denaro e del tempo libero verso coloro che non possiedono tutto ciò, e di costruire la solidarietà umana legando gli uni agli altri. Il progetto filosofico, invece, non è elitario in quanto sostiene che anche nell'infimo degli individui esiste una dignità, una sorta di fratellanza umana di tipo cristiano, già data in modo completo, e tale aspetto può essere trovato più facilmente nel debole e nell'oppresso che nel ricco e nel potente. Ma se ci si domanda che cosa abbia praticamente fatto il «buono» a partire dall'Illuminismo, quale sia stato il contributo degli Grande cerimonia filosofica a Londra intellettuali per la dignità umana, per la democrazia, per il benessere comune, per la libertà, la risposta va ricercata in quelle opere che hanno ampliato i confini della comprensione umana grazie alla thick description del racconto, e non in opere filosofiche che hanno cercato di isolare l'essenza comune a tutti gli esseri umani in ogni situazione, ricchi e poveri, occidentali o orientali, uomini o donne ecc. Quello che vorrei suggerire è che una conseguenza di questo indebolimento o «dimagrimento» o secolarizzazione è il riconoscimento che gli individui interessati a leggere i grandi testi della filosofia, la tradizione che va da Platone a Descartes, a Hegel, Nietzsche, Heidegger e Derrida, non sono particolarmente utili da un punto di vista sociale, se confrontati con il resto degli intellettuali, essi hanno scarsa utilità pubblica. Lo studio di questa tradizione si esaurisce in una ricerca privata di sublimità da parte di singoli impegnati nella ricerca della perfezione spirituale. In altre parole, mi pare che la tradizione filosofica possa venire privatizzata nello stesso modo in cui si era privatizzata la tradizione religiosa. Whitehead definisce «religioso» ciò che noi realizziamo in solitudine - una definizione che avrebbe sorpreso San Paolo, Lutero e i papi, ma che si applica ottimamente al ventesimo secolo. Mi pare che potremmo considerare lo studio della ,tradizione filosofica come un'altra cosa che facciamo in solitudine, e non, come pensavano gli illuministi, l'erede della religione a salvaguardia della volontà pubblica. Traduzione di Stefano Rosso Glienunciatsionoi fatti L a critica del dualismo tra giudizi analitici e sintetici portata avanti da Quine a partire dagli anni cinquanta ha provocato un effetto devastante tanto sull'epistemologia fenomenista che su quella fisicalista. Com'è noto, l'epistemologia del neo-positivismo logico assumeva che proposizioni cognitive significanti fossero traducibili senza residui in enunciati concernenti dati di senso, puri protocolli osservativi. Inoltre, se un'asserzione non può essere vera sulla base del proprio significato, poiché ciò implicherebbe, come Quine ha mostrato, un circolo vizioso di sinonimia fra termini ed enunciati analitici, risulterà che il riferimento dei termini individuali resta indeterminato e la traduzione di enunciati gli uni negli altri non è più una procedura praticabile sulla base di un sicuro fondamento logico-epistemologico. Come conseguenza di queste difficoltà è sorta sin da allora, nella epistemologie!-successiva al neo-positivismo logico, una tendenza che, considerando la difficoltà di realizzare procedure logicamente garantite per la traduzione ed il riduzionismo empirico, ha rinunciato all'idea della verificabilità delle teorie nei termini della conferma di esse enunciato per enunciato. Analogamente, l'epistemologia recente ha rinunciato all'idea dell'accertamento degli oggetti individuali cui gli enunciati si riferirebbero, poiché ogni teoria sarebbe indeterminata riguardo ai propri referenti. Un teorema della teoria-modello mostra che, data una classe di enunciati che sono veri nel nostro mondo reale così come in ogni mondo possibile, questa classe è suscettibile di un numero infinito di differenti interpretazioni dei predicati all'interno di una notazione logicamente normalizzata. Allora, la direzione lungo la quale si è mossa gran parte dell'epistemologia dalla fine degli anni cinquanta è stata quella di ipotizzare una pluralità di paradigmi (Th. Kuhn, N.R. Hanson), di versioni del mondo (Nelson Goodman), di schemi concettuali di accettabilità razionale (l'ultimo Putnam), in base ai quali noi elaboreremmo ed organizzeremmo i contenuti dell'esperienza. Ma, ora, è proprio a causa di tali dottrine filosofiche ed epistemologiche che ci troviamo intrappolati in nuovi gravi problemi. Infatti, se la critica di Quine al riduzionismo empirico e alla dicotomia tra giudizi analitici e sintetici ebbe come risultato la crisi di due dogmi del1'empirismo, ora la çoncezione, che le si sostituisce, dei paradigmi o schemi concettuali o versioni del mondo di un'esperienza non sottoposta ad interpretazione, sembra introdurre un terzo dogma dell'empirismo, e precisamente quello di un'esperienza neutrale, non sottoposta ad interpretazione, che starebbe al di sotto di tutte le versioni del mondo e gli schemi concettuali di accettabilità razionale. Innanzitutto, se è vero che non disponiamo del mondo o dell'esperienza in sé, ma solo di paradigmi, versioni o schemi concettuali dell'esperienza, ci manca proprio il fondamento per affermare che gli schemi concettuali sono schemi differenti di qualcosa. In altre parole, se non c'è alcuna presa intelligibile su ciò che fa sì che schemi concettuali o versioni del mondo risultino differenti o identici, non ha senso parlare rispettivamente di una molteplicità, diversità o identità di schemi concettuali o versioni del mondo. Ora, un'analisi che prenda in considerazione queste difficoltà può essere messa in grado di scongiurare il pericolo di relativismo concettuale connesso alla dottrina delle versioni, paradigmi e schemi concettuali del mondo. Come l'idea di schemi concettuali rivela, forse involontariamente, un tacito presupposto metafisico, così, analogamente, anche l'idea che la traduzione sia per principio impraticabile è un dogma metafisico, poiché per poter dire che la traduzione è impraticabile o impossibile dovremmo disporre di una base intelligibile su cui poter valutare la fallacia intrinseca della traduzione. Al contrario, il fatto è che non avendo alcun fondamento logicoepistemologico per la traduzione, abbiamo soltanto a che fare con traduzioni, e tutto ciò che possiamo fare, e tutto ciò che è necessario fare, è confrontare le traduzioni con altre traduzioni secondo un principio di equità interpretativa, riferendoci a linguaggi, sistemi di credenze, supposizioni e atti intensionali dei parlanti. L a difficoltà che permane riguardo alla nozione di verità come corrispondenza a fatti, dati sensibili e simili o come proprietà di una versione o schema concettuale del mondo dipende da una strategia di duplicazione tipicamente filosofica, che, nell'intento di definire la verità, separa un enunciato dalle sue condizioni di verità. È venuto il momento di rendersi conto che nessuna esperienza, nessun fatto, nessuno stato di cose come tale può definire la nozione di verità. Il fatto che un enunciato corrisponda o si conformi ad un fatto o dato sensibile non chiarisce la nozione di verità. Più precisamente, se parlo della verità di un enunciato nei termini della sua conformità ad un fatto o dato sensibile o ad uno stato di cose fiAldo G. Gargani sico, riferendomi a tali entità non sto chiarendo la nozione di verità, sto piuttosto spiegando l'ambito specifico cui un enunciato vero è riferito. Una volta compiuta questa separazione tra un enunciato da un lato, e un fatto o dato di senso dall'altro, la filosofia apre il proprio campo di ricerca, ma allo stesso tempo è posta di fronte ad un destino di difficoltà teoretiche. Infatti, in quanto mette in opera questa strategia di separazione e duplicazione, la filosofia apre una ferita teoretica èhe non è poi più in grado di sanare. Quella di verità come conformità di un enunciato ad un fatto è una definizione puramente formale di verità, e di fatto fittizia, perché solleva problemi insolubili. Verità è piuttosto il proferire un enunciato ritenuto vero. «Vero» è quindi una sorta di predicato primitivo, intransitivo, messi in grado di stabilire connessioni esterne, cioè di formulare descrizioni del mondo. Si potrebbe a questo punto sollevare un'obiezione dicendo che riferirsi ai linguaggi è lo stesso, con una diversa terminologia, che riferirsi a versioni o paradigmi o schemi concettuali del mondo, con la conseguenza di dare luogo allo stesso tipo di problemi sollevati da questi ultimi. La difficoltà può essere superata se notiamo che è proprio nell'idea di versioni o schemi concettuali del mondo che si suppone la nozione di un mondo o di un'esperienza non sottoposta ad interpretazione, di cui quelle versioni o schemi concettuali sarebbero precisamente le rispettive versioni e schemi. D'altra parte, proprio la nozione di schema concettuale o versione del mondo presuppone il residuo di un mondo o di un'esperienBIMESTRALE DI ARTE MODA E SPETTACOLO I BIMONTHLY MAGAZINE OF ART. FASHION AND MUSIC Westuff è la primarivista in Italiadi ~ grandef armato. Westuffcoglie e interpretale tendenze al loro nascere. Westuffpresentacon la stessa ttenzioneartemoda e spettacolo.Westuff ègrandimmaginied interviste.Westuffè in italianoe inglese.Westuff è nellemiglioriedicolee libreriein Italia e nel mondo. che è relativo al linguaggio impiegato e al quadro di credenze e intensioni inerenti a quel linguaggio. Ciò che fa di un enunciato come «il tavolo è verde» un enunciato ... vero, non è uno stato di cose o un dato di senso, ma la circostanza che l'enunciato «il tavolo è verde» è vero, cioè risulta traducibile nel linguaggio che pratichiamo insieme con il sistema di credenze che condividiamo e i giudizi su cui ci troviamo d'accordo. Ciò che fa di un enunciato un enunciato vero non è un qualsiasi fatto esterno indipendente, ma semmai il fatto che questo enunciato sia traducibile nel nostro linguaggio. Penso che alla luce di questo punto possiamo valutare l'importanza attribuita da Wittgenstein alle relazioni interne alla grammatica di un linguaggio concepito come il punto d'appoggio (der Halt) stando sul quale siamo l A llAllA~A IN TUTTE LE EDICOLE DEI CAPOLUOGHI za non sottoposti ad interpretazione, di cui essa è una possibile versione o schema. Laddove la mia posizione è che non abbiamo a che fare con fatti o esperienze non sottoposti ad interpretazione da un lato e proposizioni dall'altro e poi con l'ulteriore problema di riconciliarli gli uni con le altre, ma solo con quei fatti che sono gli stessi enunciati ritenuti veri. Secondo questa prospettiva, gli enunciati ritenuti veri non sono le versioni o gli schemi concettuali dei fatti, ma sono proprio i fatti stessi con cui abbiamo a che fare. Sulla base di questi è possibile mettere in atto quelle procedure di traduzione per mezzo delle quali valutiamo e calcoliamo la verità di un enunciato che ci troviamo di fronte. Il vero è quindi relativo ad un linguaggio e non alla relazione che un enunciato intratterrebbe con un fatto, realtà o mondo non sottoposto a interpretazione. [... ] Inoltre, la dottrina delle versioni del mondo, o quella secondo cui un mondo è dato solo con una descrizione, dà luogo a un cattivo sistema filosofico di autocomprensione; precisamente perché non possiamo supporre che gli uomini perseguano le loro imprese cognitive e sociali in modo conforme a quello stesso modello per mezzo del quale noi, come filosofi, le analizziamo e ricostruiamo. Se noi da parte nostra non consideriamo più tali imprese come tentativi di stabilire una presa sulla realtà in sé, queste imprese a loro volta non sono realizzate al mero scopo di costruire versioni del mondo. Dal punto di vista delle dottrine dei paradigmi e versioni del mondo è come se gli uomini facessero ciò che ordinariamente fanno guidati da pretese e presupposti che al livello metariflessivo noi, come filosofi, non possiamo fare a meno di considerare niente altro che un'illusione. Ma a queste condizioni gli uomini risulterebbero privati della motivazione che li conduce a continuare nelle loro iniziative. [... ] Lf unico risultato di questo pluralismo è il relativismo concettuale cui siamo destinati ad approdare e, per di più, un modello filosofico inadeguato di autocomprensione, poiché è controintuitivo che uno scienziato si impegni per costruire una teoria allo scopo di aggiungere un'ulteriore versione del mondo alla lista di quelle già esistenti. D'altra parte, l'ultimo libro di Hilary Putnam, Reason, Truth and History, che introduce la nuova prospettiva di un realismo di tipo interno si trova di fronte a non minori difficoltà teoretiche; infatti, partendo dal presupposto che possiamo soltanto riferirci ad oggetti, fatti, stati di cose dall'interno di un sistema concettuale, Putnam deve allora affrontare il problema di evitare il rischio di relativismo concettuale. Nell'intento di sfuggire a questo pericolo egli postula alla fine un'oscura nozione di «un concetto-limite della verità ideale». Ma se la conoscenza dei fatti è relativa a schemi concettuali, a ciò che Putnam definisce an- ~ che come una intensa attività urna- .5 na consistente di procedure logi- ~ co-matematiche, osservazioni, va- ::: lori, modelli concettuali per suddi- ~ videre la nostra esperienzà in og- ....., ~ getti e fatti secondo la nostra idea ..ei dell'arredo del mondo, come pos- ! siamo giustificare la sua pretesa ~ che lo sviluppo degli schemj con- ~ cettuali si approssimi al concetto- ....., limite di una verità ideale? i:: Questa difficoltà risulta compii- ~ cata dalla circostanza che Putnam ;! respinge l'idea di ridurrela nozio- ~

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