Alfabeta - anno IX - n. 100 - settembre 1987

Grande cerimonia filosofica a Londra Nominalismeocontestualism ...... ...... I ncomincerò citando un passo di Habermas in Der philosophische Diskurs der Moderne che ha a che vedere con il titolo del nostro convegno. Habermas pensa che non vi sia alcun fenomeno chiamato «postmoderno»; direi che in sostanza ha ragione e che questo è uno dei grandi meriti del suo libro. In uno dei primi capitoli scrive: «Noi continuiamo ad essere contemporanei degli hegeliani di sinistra. Hegel inaugurò il discorso della modernità; la sinistra hegeliana lo istituzionalizzò in modo permanente, cioè liberò dal fardello del concetto hegeliano di ragione l'idea di una critica fondata sullo spirito della modernità». Mi pare che questa definizione di ciò che significa essere contemporanei della sinistra hegeliana - cioè il fatto di condurre una critica fondata sullo spirito della modernità, liberata dal fardello del concetto hegeliano di ragione - ben si adatti a ciò che Vattimo chiama «ermeneutica» e a ciò che chiamerei «antifondazionalismo» o «fine della metafisica» o «pensiero debole». Dal punto di vista della filosofia professionale, il nominalismo e il contestualismo sono i supporti dell'antifondazionalismo. Ritenere che queste siano le dottrine caratteristiche del movimento è in linea con il suggerimento di Vattimo che ci troviamo di fronte a una filosofia secolarizzata. Se si rinuncia a ciò che Hilary Putnam ha chiamato «il tentativo di porsi nella prospettiva dell'occhio di Dio», e se si rinuncia non soltanto a Dio, ma anche all'idea che possa esistere un qualsiasi punto di vista privilegiato, allora bisogna rinunciare anche all'idea che ci sia un solo linguaggio, un solo tipo di descrizioni privilegiato rispetto ad altre lingue; e questo significa che bisogna abbandonare l'idea che esista una descrizione di un oggetto in grado di coglierne la vera essenza, mentre le altre descrizioni potrebbero solo discuterne le caratteristiche relazionali, le sue relazioni con dei soggetti del pensiero o della percezione: le sue mere apparenze. La filosofia secolarizzata, il pensiero «debole» o «postmetafisico» derivano dalla sostituzione dell'idea di una distinzione apparenza/realtà, con la distinzione tra l'oggetto di discussione visto in un contesto e il medesimo oggetto visto in un altro contesto; oppure tra un oggetto descritto in relazione ad una serie di cose e in relazione ad una diversa serie di cose. Non è il caso di evocare Nietzsche e Heidegger per trovare questa posizione. La si trova, ad esempio, nella proposta di Cassirer di sostituire l'idea di sostanza con quella di funzione, oppure nei Principia Mathematica di 'Russe! e White- ~ head. [... ] Questo gruppo di dot- -~ trine nominaliste, contestualiste e :::, funfionaliste, è stato oggetto di di- ~ scussione in particolare da parte di ....., Quine e di Davidson per quel che ~ -e riguarda la filosofia del linguag- ~ gio, e da parte di Kuhn e Hesse t:: ~ per la filosofia della scienza. Il ~ motivo per cui la gente rifiuta que- ....., sta posizione non ha niente a che vedere con l'analisi del linguaggio ~ o con la descrizione dell'impresa ~ scientifica, ma è dettato dalla pau- ~ ra di possibili implicazioni morali. Il motivo per cui ci si preoccupa di questo tipo di pensiero (che sostiene che le cose cambiano se inserite in diversi contesti) deriva dal timore che prima o poi si incominci a considerare l'essere umano come puramente contestuale, un essere privo di una propria essenza e di propri diritti connaturati. L'essere umano diventa qualcosa che si può maneggiare come tavoli o sedie. In altre parole, ciò che viene messo in questione è la distinzione kantiana tra la dignità dell'agente morale e il semplice valore di tutte le altre cose dell'universo, e ciò fa vacillare l'equivalente illumm1sta della distinzione sacro/profano. Quando la gente sostiene che questa tendenza (nominalismo, contestualismo, antifondazionalismo ecc.) è «andata troppo in là», in realtà vuole dire: noi non vogliamo essere così secolarizzati. Vogliamo fermarci all'Illuminismo e conservare ciò che l'Illuminismo ha prodotto: una chiara visione della dignità dell'essere umano che si opponga al relativismo descrittivo. Tutti, dai marxisti a Habermas, da Ronald Dworkin ai seguaci di Strauss come Allen Bloom, sono convinti che il tipo di pensiero che gode delle simpatie di Vattimo e mie conduce al relativismo morale e quindi scherza col fuoco... I marxisti vorrebbero recuperare la distinzione illuminista tra dignità assoluta e relativismo assiologico, vale a dire la coscienza della classe operaia legata alle reali cose umane. Anche Foucault - come Habermas sostiene nel suo libro - cerca di fare qualcosa del genere . Spesso egli suggerisce che ciò che chiama «genealogia» significa parlare in nome degli oppressi o, come scrive Habermas, in nome delle donne, degli omosessuali, dei neri, di coloro sul corpo dei quali vengono inscritte le tecnologie del potere. Habermas ha ragione di sostenere che in questo Foucault ricorda Luckacs: entrambi sostenRichard Rorty gono che se riuscissimo a sottrarci a ciò che il potere ha fatto agli oppressi, potremmo trovare negli oppressi e nei reietti la dignità umana in una forma assolutamente non-relativa. Per cui il compito della filosofia è fare ciò che l'Illuminismo sperava di fare, vale a dire eliminare le distorsioni prodotte dalla società e recuperare ciò che l'uomo è capace di fare quando non è «distorto» in questo modo. Ma questa posizione non è solo tipica di Foucault; la si ritrova anche nella polemica di Ronald Dworkin contro il relativismo di Michael Walzer. Dworkin sostiene che la giustizia è una questione troppo seria perché sia lasciata alla tradizione delle culture individuali. Q uesta è anche la posizione di un movimento che in Italia e in Gran Bretagna non esiste, ma che in America ha assunto notevoli proporzioni. Si tratta dello «straussianesimo», cioè dell'idea per cui il razionalismo di Platone e Aristotele è il luogo in cui vanno ricercati la verità e i diritti dell'uomo. Tutti costoro sostengono che è necessario essere in grado di fornire una risposta ai «cattivi» e ai tiranni, a Hitler, a Stalin, al presidente Botha ecc. Tutti costoro vogliono affermare che il relativismo non ci permette di dare questa risposta. Ora mi pare che la grande divisione all'interno del pensiero filosofico contemporaneo si ponga proprio tra i pensatori «deboli» che ammettono che non esiste la possibilità di dare una risposta ai cattivi e che non avrebbe senso provare a dare una risposta a Hitler, Stalin e Botha - e i pensatori «forti» che sostengono che se fare ciò non ha senso, allora non esiste niente che abbia senso. Sotto questo aspetto, Habermas e Dworkin sono due pensatori forti. Come emerge dai miei due esempi, il pensiero forte attraversa il confine esistente tra la filosofia cosiddetta «analitica» e quella «continentale». Questo vale anche per il pensiero debole. A questo proposito vorrei leggere una citazione dalle Dewey Lectures di Rawls, un esempio di pensiero debole in un linguaggio di tipo analitico. Scrive Rawls: «Ciò che giustifica una concezione della giustizia non è il fatto di essere vera in relazione ad un ordine dato a noi precedente, ma è la sua consonanza con la comprensione più profonda di noi stessi e delle nostre aspirazioni, e la presa di coscienza che, data la nostra storia e le tradizioni inserite nella nostra vita pubblica, essa rimane per noi la dottrina più ragionevole». La recente svolta storicista di Rawls è un buon esempio di pensiero debole nella filosofia analiticopolitica. Un ,dtro esempio che proviene dal versante analitico è ciò che Ian Hacking chiama «il razionalismo anarchico» che dichiara di aver appreso da Feyerabend. Hacking lo definisce come «tolleranza verso gli altri e disciplinamento per i propri standard di verità e di ragione, standard forniti semplicemente dalla propria tradizione» e conclude citando da una delle ultime interviste rilasciate da Sartre: «Questa è la mia tradizione; non ne ho nessun'altra, né quella orientale, né quella ebraica. Sono estraneo a queste tradizioni per via della mia storicità». 'Questo ricorso alla storicità, che noi condividiamo con Rawls e Sartre, non mi pare lontano dalla posizione di Gadamer, Vattimo, e di tutti quelli che in Europa fanno parte del campo dell'ermeneutica. Mi pare che si possa individuare il legame tra questi pensatori deboli nel fatto che tutti hanno un medesimo modo di replicare alla domanda: «Come rispondere a Hitler e a Stalin? Che cosa dire ai tiranni?» Tutti sostengono che la risposta da dare presuppone l'esistenza di un terreno comune. In realtà, Hitler, Stalin, Botha ecc. non condividono con noi un terreno sufficiente per poter essere sconfitti dai nostri argomenti, cioè, non si può pensare di convincerli. La tradizione del pensiero «forte» afferma: noi sappiamo benissimo che questa gente non può essere convinta, sappiamo che non è praticamente possibile trovare un terreno comune, sappiamo che non saranno sconfitti dalla nostra risposta, ma costoro devono essere convinti perché essi condivido- / no con noi un terreno comune che lo sappiano o meno, possiedono una qualche «razionalità» o «umanità», o una qualche caratteristica sepolta nel profondo che essi condividono con tutti noi per il semplice fatto di essere degli umani. È compito della filosofia «forte», non relativista, scavare fino a quel punto ed indicare che c'è anche se essi non lo sanno. ·su questo punto vorrei citare da un'intervista ad Habermas: «Secondo me i filosofi dovrebbero spiegare il punto di vista morale e giustificare, per quanto è possibile, l'universalità di questa spiegazione, mostrando perché ciò non rifletta l'intuizione morale dell'individuo medio di una società occidentale. Ogni altra cosa al di là di questa è una questione che riguarda il discorso morale tra diversi partecipanti». A proposito della pos1Z1one di Rawls, Habermas scrive: «Quando Rawls difende la concezione della giustizia in senso proprio e originario, sta argomentando da filosofo; quando si mette a parlare dei due principi di giustizia parla invece da cittadino americano. Questo è un discorso morale per americani, è relativo ed è discutibile da più di un punto di vista, ma è preceduto da un buon discorso filosofico». Secondo me, è questa seconda parte del proprio discorso che Rawls ha abbandonato di recente. Vorrei perciò definire il «pensiero forte» come quello che ritiene che; sia compito della filosofia fornire ai «cattivi» una risposta non contestuale, non relativa, non legata alla tradizione, e il «pensiero debole» come la prospettiva in base alla quale possiamo fare qualsiasi cosa ma non riusciremo mai a dare una risposta ai cattivi. [ ... ] I pensatori forti come Dworkin, Habermas e Bloom, sono convinti che noi pensatori deboli siamo degli irrazionalisti, e che, come ci definisce Habermas, «crediamo in un'oscura .non-ragione dionisiaca», qualcosa che ha a che vedere con il potere nietzscheano, o l'essere heideggeriano, o il corpo foucaultiano, o l'archiécriture di Derrida, o qualcosa di molto vago, misterioso e potente, che rappresenta per noi ciò che la razionalità rappresentava per l'Illuminismo. Mi pare che l'espressione «pensiero debole» ben descriva la rinuncia esplicita della pretesa di avere una forza potente ed oscura dalla nostra parte. Mi pare che i pensatori deboli siano convinti di non avere questo grande potere altro, al posto di Dio una sorta dianti-Dio, al posto della ragione una sorta di altro della ragione. Noi non abbiamo nulla dalla nostra parte come successe a Weimar. Il futuro della democrazia dipende da poteri che non sono filosofici e il nostro ruolo di filosofi nel proteggere l'umanità contro queste forze è molto modesto. In questo senso la filosofia è sempre stata debole e dovrebbe riconoscerlo. Ma se la filosofia non è abbastanza forte per svolgere questo compito di dare una risposta ai cattivi, di confutare i relativisti e di ricondurci a ciò che l'Illuminismo riteneva che i filosofi dovessero fare, allora a che cosa serve? Vorrei dare un abbozzo di risposta. A partire da Hegel la filosofia non è stata un'area della cultura che abbia contribuito alla solidarietà umana. L'area della cultura che ha contribuito alla solidarietà umana, alla moralità politica, al rispetto dei diritti umani - anche se la parola «diritti» va messa tra virgolette per il suo carattere metafisico - è piuttosto quella del romanzo, del giornalismo, dell'antropologia. A partire da Hegel, il progetto illuminista di solidarietà umana è stato portato avanti non da filosofi che sono riusciti a trovare ciò che gli uomini condividono nel profondo - dignità, diritti ecc. - ma alla costruzione di una solidarietà umana, estendendo i confini della comprensione a individui precedentemente non contemplati. Negli ultimi 150-200 an-

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