sco) assurge subito a simbolo della «diversità» che esilia il protagonista dal mare e lo condanna alla terra - i due poli del sistema simbolico degli Ossi - e dunque a un destino di scacco e di privazione, mentre il miracoloso incontro col tasso avvenuto sulla spiaggia rinnova subito dopo quel circolo fra frustrazione e risarcimento, esilio e privilegio che caratterizzano la vicenda della moderna poesia lirica. Così si torna al punto: da un lato, da parte del poeta, la vanitàcrudeltà della vita si riscatta nel privilegio dell'epifania e nella sublimazione della forma che la rivela; dall'altro, da parte dell'interprete, la cronaca insignificante di un episodio biografico si converte nella storia sacra della genesi del- !'opera a cui la vita è vista interamente finalizzata nell'ambito di un'oleografia ormai laica e borghese. II circolo di complicità - o il «gioco di cooperazione», come oggi si preferisce dire - è davvero perfetto. A veder bene, il biografo e l'interprete, chiunque siano, non possono sottrarvisi: almeno nella misura in cui ogni ermeneutica riposa - direbbe Gadamer - su una «fusione di orizzonti», cioè su una comunanza di tradizione (e, si potrebbe aggiungere, di istituti e fors'anche di ceti). Ma a prescindere dal fatto che nella dialettica fra familiarità ed estraneità rispetto alla tradizione non è detto che debba comunque prevalere il primo termine, resta per me fermo che ogni critico degno di questo nome dovrà pur tentare di rompere l'identificazione che annulla il profano nel sacro e ripercorrere à rébours il tragitto dalla sublimazione simbolica alla datità materiale, dalla forma alla sua produzione. Allora le biografie e le fotobiografie possono ricordarci non solo che il volto «incredibile/meraviglioso» di Clizia, «severo nella sua dolcezza», è esistito davvero, con quella frangia di capelli sulla fronte e quegli occhi limpidi e fermi, e che il rapporto con Irma Brandeis ha avuto significati esistenziali e simbolici ben diversi - checché se ne dica - da quelli di Annetta, di Mosca o di Volpe, ma anche che il poeta Montale è stato anche l'uomo e l'intellettuale Montale, inserito in un contesto storicamente determinato da cui è impossibile prescindere. Nell'album di Contorbia le tre fotografie della visita di Hitler e di Mussolini a Firenze sono immediatamente precedute da una serie di interni delle «Giubbe rosse» e subito seguite da istantanee di un paese dell' Amiata assunto da Montale a temporanea ma emblematica sede della condizione intellettuale («e ti scrivo da qui, da questo tavolo I remoto»), dalle ville di campagna della Vivante e di Landolfi e infine dall'altro estremo rifugio umanistico di Bellosguardo. II nesso poesia-fogna, cultura-nazismo, non l'ha certo inventato Montale, che anzi l'ha dovuto subire e vivere. Ma troppo spesso ci dimentichiamo che i libri possono essere divorati dalle locuste piovute dalle pergole. «E domani ... » Parte di questo scritto è stata letta dall'Autore come introduzione alla «Tavola rotonda» del 13 ottobre 1986 per il Premio Montale e in occasione del 90" anniversario della nascita del poeta. Lanarrativanormalinata Giovanni Pascutto Strana la vita Milano, Mondadori, 1986 pp. 259, lire 20.000 Ferdinando Camon La donna dei fili Milano, Garzanti, 1986 pp. 209, lire 19.000 David Leavitt Ballodi famiglia Tr. di Delfina Vezzoli Milano, Mondadori, 1986 pp. 197, lire 18.000 M olti anni fa, ai tempi di gloria del Gruppo 63, mi capitò di proporre un termine senza dubbio carico di ambiguità e di rischi: normalizzazione. Intendevo dire che i giovani narratori di allora «normalizzavano» le tecniche rivoluzionarie dei grandi del primo Novecento, effettuandone una estensione capillare, sistematica, anche se ciò implicava che rimanevano nel solco aperto da quelli. Una innovazione, per così dire, più quantitativa che qualitativa, anche se è ben noto che a un certo punto uno scatto nella quantità ha anche un riscontro nella qualità. E dunque, davo al termine un valore positivo, benché di una positività quasi nascosta, sofferta, consapevole di reggere una difficile sfida, di assumersi una parte ingrata. Naturalmente, ai molti critici di quella formula (che stavano anche nella compagine dei «compagni di via») era agevole obiettare che la parola appariva troppo compromessa per se stessa, inficiata da un senso inevitabilmente nefasto. Evoco questo piccolo paragrafo di una storia semipersonale perché ho l'impressione che restiamo pur sempre dentro un vasto capitolo di normalizzazione, anche con molte prove recenti, dove, quasi per non decidere, per non dar torto a nessuno, il termine vale in entrambi i sensi, funzionando quindi, in qualche caso, come una trappola che porta alla rovina che vi resta coinvolto, consentendo in altri casi il raggruppamento di un esito felice, ma pur sempre entro un ristretto spazio di manovra e come sul filo del rasoio. II pollice verso, ovvero un referto di normalizzazione nel senso negativo della parola, deve essere rivolto a Strana la vita di Giovanni Pascutto, che pure dimostra come l'universo di Svevo abbia fatto scuola, ovvero sia divenuto, appunto, merce corrente: ma assunta con troppa disinvoltura, e con un tradimento finale delle intenzioni di partenza. Dario, il protagonista di questo romanzo, sembrerebbe il tipico inetto sveviano, un emulo di Alfonso Nitti, o di Emilio Brentani, di Zeno Cosini. Apprendiamo infatti che, qualche anno prima dell'inizio del romanzo, un compagno di scuola, un sanguigno e volgare Mario, gli aveva portato via la fidanzata del cuore, Anna, grazie alla propria intraprendenza, laddove il nostro eroe sostava nell'incertezza e nell'esitazione. Di riflesso, vengono in mente anche certe coppie alla Moravia, per esempio quella bellissima di Inverno di malato, tutte giocate sullo ·scontro tra i deboli (per troppa introspezione) e i forti, estroversi, gettati a conquistarsi il successo (economico, sessuale) con le unghie. Solo che questo erede dei personaggi sveviani si facilita troppo il compito: in fondo, non accetta per sé un destino di tormento, di difficoltà di rapporti, a vantaggio di un grado superiore di coscienza, ma al contrario è pieno di invidia verso i sani, i normali, e così, complice l'Autore, li fa fuori subdolamente, per intraprendere a sua volta la via del successo. Ecco infatti che già nelle primissime pagine il rivale fortunato (si fa per dire), Mario, stramazza al suolo, sgomberando il campo per la riconquista di Anna, che dal canto suo sembrava non aspettare altro, essersi preparata pazientemente al ritorno del compagno perplesso e tormentato (una volta). In realtà Dario, il protagonista, è deciso a mettersi nei panni di Mario, rinunciando definitivamente a presentarsi come sostenitore dell'«essere», preferendo un più attraente e confortante esercizio dell' «avere». II volgare Mario, ovviamente, oltre alla moglie, si era fatto pure l'amante, e dunque l'altro si affretta a riscuotere anche questo ulteriore frammento di eredità erotico-sentimentale, divenendo a sua volta amante di quella ragazza. E come se questo non bastasse, altre donne si gettano ai piedi del nostro ex-uomo-senza qualità, divenuto al contrario un seduttore di successo. Ne viene una galleria femminile abbastanza improbabile (soprattutto quando nel mazzo entra anche una terrorista, con facile omaggio alla cronaca dei nostri anni). Insomma, la «debolezza», il tormento introspettivo di partenza, la sottile consapevolezza del modello sveviano cedono il posto a una sicurezza di mosse, a una ritrovata «normalità», a un insediamento pacifico nella vita e nei suoi piaceri, benché tenuto prudentemente sui toni della mediocrità. Dario resta «uno come noi», dal principio alla fine, come d'altronde risulta anche a livello stilistico, in una prosa che si fa un punto d'onore nello scorrere via fluida, «in maniRenato Barilli che di camicia», accattivante e ammiccante. N ormalizzazione anche per l'ultimo romanzo di Ferdinando Camon, La donna dei fili, ma, in questo caso, almeno a livello tematico, sembrano scattare i coefficienti positivi del termine. Si tratta infatti di una psicoanalisi portata a livello comune e di massa, simile a un elettrodomestico dall'applicazione facile e quotidiana; il che presuppone che a sua volta anche la nevrosi sia ormai divenuta materia comune di vita, che tutti si trovino immersi in essa. La psicoanalisi di cui Camon ci offre un saggio è tanto quotidiana e capillare, che ci si può chiedere fino a c;hepunto resti tale. Forse gli esperti arriccerebbero il naso, dovrebbero dichiarare che non c'è più nulla di specifico, in essa, che siamo di fronte a una semplice introspezione, a un esercizio di autoanalisi, di confessione sommessa. Sta di fatto che lo psicoanalista si tiene totalmente in ombra, non prende forma, si limita a interventi ovvi e banali, di comune buon senso, in cui appunto invano si cercherebbe l'ombra di tecnicismi. Il che però non è un male, e quanto meno evita a Camon la caduta in un maschilismo ostentato, qual è quello che invece rende stucchevole il protagonista del romanzo di Pascutto, divenuto un tombeur de femmes in pantofole, in versione trasandata e corriva. Al contrario, Camon compie un apprezzabile sforzo per porsi nei panni di «lei», la «donna dei fili». Insomma, si vuole dire che in questo caso è addirittura il grande Freud a essere «normalizzato». Perfino il titolo dell'opera suona come un'aggiunta, ma sempre in minore, al dossier dei grandi casi clinici del maestro della psicoanalisi: La donna dei fili come una sommessa aggiunta a L'uomo dei lupi o al Piccolo Hans. I fili in questione sono il correlato oggettivo o la metafora ossessiva di un disperato bisogno, nella protagonista, di sentirsi legata ad altro o ad altri; e infatti, accanto ad essi, Camon riesce a costituire un esatto reticolo di altri oggetti e immagini: una sciarpa rossa con cui la donna si cinge, prima di iniziare il trattamento; l'intuizione che fili e sciarpa corrispondono al cordone ombelicale, e che al loro termine c'è la «voce amica» del telefono, lo strumento, l'elettrodomestico che polarizza con la sua presenza tutti i luoghi in cui Michela (la nostra eroina «bassa» e comune) viene a trovarsi. Ma soprattutto «normale» appare il cumulo di ordinarie nevrosi denunciate da Michela: i conflitti col marito (che giunge a picchiarla), il trauma mai superato delle mestruazioni, unito però al trauma opposto di vederle sparire, per l'incipiente menopausa (e di vederle trasferirsi nella figlia); dunque, paura di invecchiare, ma anche fascino della fine di una vita sessuale dominata dal maschilismo dell'uomo, paragonato, con metafora felice, a un geyser dall'attività erotica subitanea e imprevedibile, incapace di tener conto delle esigenze sessuali e affettive della compagna. E ancora: difficoltà sul lavoro (Michela è un'insegnante), in ogni altro episodio della vita di relazione (con un capitolo drammatico al super~arket dove la protagonista è sospettata di furto e spietatamente sottoposta a una perquisizione intima). Questa è ormai divenuta la tematica «normale» dell'uomo, e della donna dei nostri giorni, bisogna pur riconoscerlo, e si misura quindi l'enorme divario che ormai ci separa dall'universo ottocentesco, dominato da altri problemi e valori. Ma occorre d'altra parte che ci sia anche un corrispettivo stilistico a tutto ciò, ed è quanto manca alla prova di Camon, che come quella di Pascutto scorre via limpida, senza inceppi, in un linguaggio trasparente e comunicativo. O diciamo anche che Camon difetta di strutture drammatiche, non riesce a mettere in forma narrativa questo suo pur interessante materiale, affidandolo al ritmo del diario, del monologo rettilineo. S i disegna a questo punto lo spaz_iod~ll~ _«norm~lizzazio~ ne» mcm s1situano I racconti di David Leavitt, raccolti in Ballo di famiglia e giustamente acclamati. Il termine, anche in questo caso, vale in primo luogo a livello tematico. In fondo, è come se tante Michele continuassero a dirci i loro guai quotidiani, le loro nevrosi comuni e diffuse. C'è solo la variante che si aggiungono i guai della condizione omosessuale, ma la strada ad essa era aperta anche dalla «donna senza fili», posto che già lì, lo abbiamo notato, si rinunciava a un maschilismo trionfante, e i problemi sessuali erano visti dalla parte dei deboli, di quanti non ne traggono ragioni di vanto e di dominio (diversamente da quello che succede nel romanzo di Pascutto ). E dunque, a livello di contenuti, nulla ci sorprende, nei racconti di Leavitt, si tratta di una materia «nostra», che tutti stiamo sperimentando giorno per giorno, divulgata anche in quei grandi settori di narratologia applicata che sono ormai il cinema e la televisione. Ripetiamo: i traumi della vita matrimoniale, dei divorzi, dei figli che crescono, con le loro difficoltà di inserimento, e magari, appunto, con la deviazione omosessuale; l'orrida scoperta di sapersi colpiti da un tumore, o dalla minaccia strisciante della vecchiaia, del decadimento fisico, della morte. Contenuti, tutti questi, che agli albori del nostro secolo sembravano eccezionali (quando autori come Svevo e Pirandello cominciavano ad occuparsene) e che invece oggi sono divenuti pane comune per tutti, soggetti a una vasta opera di divulgazione. Ma Leavitt possiede la virtù che invece manca, almeno per ora e nella Donna dei fili, a Camon, vale a dire la capacità di drammatizzare tutta questa materia ormai divenuta «normale» e familiare. Invece che seguire il ritmo del diario, e quindi di una narrazione lineare, il giovane statunitense «taglia» i suoi racconti con grande abilità, facendoci entrare in medias res, an;,:i, sottoponendoci a delle specie di rebus, all'obbligo di decifrare con pazienza che cosa stia succedendo nelle storie, quali ne siano i protagonisti, quali le avventure, i «fatti» di cui sono vittime. Non c'è un narratore onnisciente, che poi, in realtà, nel caso di Camon, è sostituito da un attore onnisciente, vale a dire da un personaggio che ci scodella la sua storia, in modo un po' meccanico, cullando in noi una pigrizia simile a quella dell'analista, i cui interventi (Io notavamo sopra) si limitano a domande ovvie e banali. Leavitt si pone nella grande corrente del discorso indiretto libero, che concede una semi-autonomia a1 personaggi, li fa parlare ma sempre con un residuo di oggettività e di impersonalità, obbligandoci a intervenire per interpretarli, per integrare le loro oscurità e ignoranze. È una tecnica illustre, che si dipana da Flaubert a Joyce, per passare al mondo anglosassone (naturalmente il primo Joyce, quello dei Dubliners, non ancora persuaso ad avventurarsi nello stream of consciousness), e giunge magari fino a Salinger, il cui nome m effetti è stato ripetutamente pronunciato, tra i precedenti di Leavitt. Ma risulta, proprio dalla trafila di queste tappe consacrate, che il giovane narratore nordamericano ~ è ben interno a tecniche già note e -5 diffuse, e dunque «normalizza» r anche sul piano stilistico: in modo ~ eccellente, così che appunto nel ~ suo caso il termine ha una valenza ~ positiva; egli cioè si muove nell'ambito di quegli strumenti con perfetta disinvoltura, tenuta, con- -C) .§ "'I::! -. trailo. Ma si tratta pur sempre di °' una ripresa, di una estensione sistematica, di una variazione sul ~ -C) g c::s motivo.
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