Storia e narrazione Mario Vegetti I. Che cos'è la narrazione storica? Da sempre, il problema è consistito nel decidere se fosse essenziale il sostantivo oppure l'aggettivo, la differenza specifica. Ricoeur perviene, attraverso un confronto assiduo, talvolta estenuante, con le posizioni dell'epistemologia e della filosofia analitica anglosassone, a proporre la prima soluzione. In inglese, e brevemente, si potrebbe dire che the history is a story. In altri termini, la storia è essenzialmente racconto, mise en intrigue, mythos nel senso della Poetica aristotelica, cioè intreccio della tragedia. In quanto tale, essa non è né cronaca dispersa né scienza totalizzante, ma, al tempo stesso, configurazione attiva del corso degli eventi e costruzione del loro senso, ottenute, l'una e l'altra, nella forma del racconto interpretativo: «Grazie alle virtù dell'intreccio, fini, cause, casi, sono riuniti sotto l'unità temporale di un'azione totale e completa» (Ricoeur). La sintesi narrativa della storia è già spiegazione da un lato, donazione di senso dall'altro - non dimostrate, tuttavia, secondo un modello epistemologico «forte», ma esibite dall'ordine narrativo. Al pari di ogni racconto, la storia ha dunque bisogno di un principio e una fine, di una temporalità sua propria, di suoi personaggi o quasi-personaggi; essa produce un «mondo del testo», con una sua verità ed un suo senso - se si vuole, con una sua «morale della favola». A questa provvisoria conclusione Ricoeur perviene attraverso il constatato fallimento dell'epistemologia neopositivistica della storiografia, in particolare del modello nomologico proposto da Hempel nel 1942 e delle sue successive elaborazioni. Contro il tentativo neokantiano di garantire un rifugio epistemologico alle scienze dello spirito, cui veniva assegnato uno statuto «idiografico», ermeneutico, distinto da quello «nomotetico» riconosciuto alle scienze della natura, Hempel sosteneva che la spiegazione scientifica può soltanto essere nomologica. La storiografia dunque veniva posta di fronte ad un'alternativa secca: o spiegava i suoi fatti sussumendoli sotto leggi empiriche universalmente valide che esprimono regolarità dei rapporti causali fra eventi (e convalidava la sua capacità di spiegazione mostrando inoltre una funzione predittiva, resa possibile da queste leggi), o rinunciava a qualsiasi statuto di scientificità. Ma, di fatto, la storiografia non ha mai potuto adeguarsi a questo modello; né l'epistemologia neopositivistica ha potuto per contro negarle una potenzialità conoscitiva, pur mettendone in questione lo statuto di rigore. Da Veyne a White allo stesso Ricoeur, si è dunque articolata una linea di uscita da questa impasse epistemologica che ha condotto, sia pure problematicamente, alla prospettiva «narrati vista» che ho sommariamente riassunto. Una soluzione, va detto subito, che non propone tanto quel che la . storia dovrebbe essere ma piuttosto descrive quel che essa è semlr) c:::s pre stata - almeno in una sua parte -5 essenziale - anche se spesso mal- &° I::). grado le false immagini di sé che ....... °' ha cercato di proporre, per un'adeguazione mimetica alle epistemologie dominanti o nello sforzo di legittimare l'uso retorico-politico che ha spesso fatto delle sue verità, all'insegna della historia magistra vitae. ~ 2. Che la storia sia insieme narra- ~ zione e verità, e che tuttavia il se- ~ condo termine rechi in sé una tendenza violenta ad occultare il primo: anche questa è una storia, e come ogni storia ha un principio. Il principio è naturalmente la decisione epocale di Aristotele (Poetica 9) che la poesia è più «filosofica», cioè più ricca di capacità conoscitive, della storia, perché quest'ultima è registrazione e cronaca dei singoli eventi effettivamente accaduti (in tutta la loro particolarità e casualità), mentre la mimesis poetica è costruzione organica di un mondo possibile, secondo le figure universalizzanti del verosimile e del necessario. Il mythos tragico sta dunque alla cronaca storica come l'universale al particolare, il vero/verosimile all'effettivo, il necessario al casuale; esso produce situazioni dotate di valore paradigmatico capaci di illuminare conoscitivamente la sterminata variabilità dei casi individuali, la cui mera registrazione non è invece né generalizzabile né trasferibile. Non importa qui stabilire se Aristotele renda o meno giustizia ali' esperienza storiografica greca che lo precede (è piuttosto da credere che Erodoto e Tucidide avessero già risentito, nella compaginatura narrativa delle loro storie, precisamente di quel modello della poesia tragica che Aristotele contrappone alla historia). È cersul versante della spettacolarità a detrimento della costruzione sapiente dell'intreccio. Importa, invece, si diceva, il chiasma polibiano: la costruzione di una storia organica e necessaria la trasferisce sul terreno che Aristotele aveva assegnato alla verità della tragedia, e consente per contro di bandire quest'ultima e i suoi mythoi, ora solo verosimili, da quel terreno. L'effetto sulla autorappresentazione del lavoro storiografico sarà profondo e ambiguo: tanto più esso abbandona la cronaca dei fatti per costituirsi nella forma poetico-tragica dell'intreccio organico, del tempo coeso, del personaggio drammatico, tanto più rivendica a sé l'immagine di un'indagin.€ della verità, e abbandona la sua matrice nel terrain vague del verosimile, del mitologico, del falso. Salvo, naturalmente, a rendersi disponibile a ogni epistemologia della verità: da quella, positivistica, dell'adeguazione ai fatti-referenti della narrazione, a quella, neopositivistica, della spiegazione nomologica, causale e predittiva. 3. Ricoeur, e gli autori «narrativisti» con cui egli simpatizza, non fanno dunque che restituire il lavoro dello storico alle sue matrici originarie, alla consanguineità col viene assegnato nel momento dell'accadere e nella tradizione che concresce su di esso, perché le sue dimensioni temporali sono infinitamente variabili; perché, insomma, il fatto storico è un risultato, non una premessa, del lavoro dello storico, della sua configurazione narrativa, della mise en intrigue. Solo qualche esempio: la caduta dell'impero romano è un fatto storico? E si tratta di un fatto istantaneo, accaduto il 28 agosto del 476 quando Odoacre depone Romolo, o di un processo secolare dai contorni incerti e complessi? La «scoperta del!'America» coincide con il primo avvistamento di Colombo (che vede tuttavia, come racconta Todorov in un libro magistrale, l'India, l'oro, le grandi città, i cannibali), o con un lungo processo di trasformazione del mondo? Ancora: il 14 luglio 1789 viene distrutto a Parigi un castello fatiscente, difeso da una diecina d'uomini male armati, che alloggia tre prigionieri. È questa la «conquista della Bastiglia» oppure essa risulta da una concrezione di senso che matura lentamente nel fuoco di una battaglia ideologica destinata a durare decenni? Potrei naturalmente continuare a lungo, ma credo di aver mostrato come sia difficile pensare l'intenzione di vet.iNFE.flft,1iEPEARA GiA' AL suo PoSTQIN COQ.P.iooio, PRONTA A R.iCEV~ NEiJ.. /:RJOS,'10 CONrENi~ LACASSETTA. l' N>e.QTtJRA cn cui SAnEBBé SC.HiZ1ATAf:(JOR.i E.RA UNP<Y [3AS'SA E. CoSTai IJé:éYA L'ADDETT(ACHEN. ON EnA Ni&JTE:~. ) A T&-J&l.E. IA SfHi&.A. AE.GATA .COIIONEL ~ UE_ SlG(J€... s, DE.VEP. REoc - Nl.E. 1 CARO5:GNO il-JOLTfl.O ~ .St.!A 'cJ.JiliSTA,M ,,,. . . .·/.:~-.:::;:/-i r ;: <\·~-'.:}•:'·. ·, Massimo Giacon, Praticamente Natale, in «Linus», luglio 1983 to invece che la storiografia successiva tenterà di rimontare lo svantaggio epistemologico che pesava su di essa dopo la condanna aristotelica, fino allo straordinario chiasma concettuale operato da Polibio, che domina l'intero sviluppo successivo della vicenda - fino, probabilmente, .al dibattito ricostruito nelle pagine di Ricoeur. Polibio mira a costruire una storia che risulti, secondo la sua definizione memorabile, una «narrazione dimostrativa» (4.40.1); una storia «organica», che esibisca il principio e la fine/il fine degli eventi (Pr. 3-4), la loro concatenazione necessaria e universale; una storia, dunque, che si collochi dalla parte della «rigorosa verità», non solo nel senso della fedeltà ai fatti, ma soprattutto in quello del loro ordine e del loro senso. Questa storia può aspirare al riconoscimento aristotelico di «filosoficità», respingendo per contro la ve- , rosimiglianza della tragedia sul versante dell'illusione spettacolare e della falsità (2.56). Anche qui, non importa quanto abbia agito su Polibio l'immagine di una fabulazione tragica degenerata, rispetto ai tempi «classici» di Aristotele, mythos poetico-tragico sperimentata già in modo più o meno consapevole da Tucidide e da Polibio e al tempo stesso negata, per l'ambiguo effetto del verdetto aristotelico, in nome della verità che appare d'ora in poi la posta in palio fra le due forme di narrazione. Una volta riconosciuta questa consanguineità, si tratta tuttavia di distinguere la narrazione storica dalla fiction propriamente detta. Ricoeur, da narrativista moderato, ha ragione di impegnarsi in questo sforzo: ma i criteri che egli propone per fondare la distinzione appaionò deboli o almeno poco convincenti. Il primo di essi consiste in un'evidenza offerta dalla fenomenologia del lavoro storico: la coscienza storica è orientata da un'essenziale intenzione di verità. Che cosa significa però «verità» in questo contesto? Se la si intende, positivisticamente, nel senso di adeguazione al «fatto», ci si scontra subito con le aporie insormontabili dell'epistemologia del fatto storico. Il quale appare, come è ben noto, inafferrabile: perché è strettamente vincolato al testimone o al documento che lo attesta, perché è inseparabile dal senso che gli rità dello storico come il semplice sforzo di adeguazione a fatti che sarebbero già là, prima del suo lavoro di costruzione del senso. Se per intenzione di verità si intende invece la configurazione di un mondo possibile dotato di senso e di ordine, allora questa intenzione non può certamente venir negata all'autore della fiction: aveva certamente ragione Aristotele nel ritenere «filosofica» la grande fiction poetica, e Dante, Shakespeare o Mann l'avrebbero confermato nella sua convinzione. Il secondo criterio di distinzione proposto da Ricoeur è l'aggancio strutturale della narrazione storica ai documenti, tracce del passato e luogo della sua permanenza nel presente. Ma l'epistemologia del documento non è meno problematica di quella del fatto. Il documento, che sia scritto sulla pietra degli obelischi faraonici o nei registri parrocchiali, è anche e sempre un testo, un messaggio di qualcuno per qualcun altro ( i sudditi, l'autorità, i posteri, la divinità ... ). La natura comunicativa e interattiva del documento impedisce sicuramente di considerarlo una positiva attestazione di fatti: ogni faraone si attribuisce l'asservimento di Negri e Semiti nonché una spedizione alla Terra di Punt, anche se ha regnato in modo pavido e inglorioso. Al tempo stesso, proprio questa natura comunicativa costituisce un vantaggio epistemologico del documento, perché esso non può di norma superare quei limiti di verosimiglianza (in un senso retorico largo) che lo rendono attendibile e persuasivo per il pubblico cui è destinato. In ogni caso, il rapporto del racconto storico con i suoi documenti non può venir pensato come un'epistemologia un po' vecchiotta pensava quello intercorrente fra teoria scientifica ed esperimento; piuttosto, si tratta di una relazione di intertestualità, dell'interazione fra due livelli di messaggio, quello del documento (con il suo emittente e il suo destinatario), e quello dello storico che ne parla ristrutturandone il senso con una strategia diversa e per un pubblico diverso. Se né il fatto né il documento offrono dunque una garanzia di oggettività referenziale per la storia, si perde qualsiasi possibilità di fondarne la differenza rispetto alla fiction? Credo di no, anche se qui posso soltanto indicare sommariamente una via per venire a capo del problema. Si può partire, credo, proprio da una reinterpretazione dei caratteri che Aristotele assegna al mythos tragico: quello, retorico, della verosimiglianza, e quello, teorico, della necessità. Una storia - proprio come i suoi documenti - dovrà essere verosimile se vorrà rendersi plausibile, per l'intreccio narrato e per il senso costruito, al suo pubblico; in questo senso, si può dire che l'orizzonte della verosimiglianza del racconto e del senso è trascendentale rispetto ad ogni possibile verità. E, più importante ancora, una storia dovrà essere «necessaria», sia pure in un'accezione debole del termine: dovrà cioè accettare i vincoli della teoria sociale che costituisce il necessario orizzonte di pensabilità del mondo raccontato e del senso del racconto. Se si accetta, per esempio, la teoria marxista dei modi di produzione, nessuno potrà raccontare una storia del mondo antico senza tener conto della schiavitù: qui il «fatto duro» non è tanto l'esistenza degli schiavi - un fatto che, come è noto agli specialisti, può venire indefinitamente sfumato fin quasi a dissolversi - ma proprio la teoria del modo di produzione schiavistico, il quale, naturalmente, è un concetto e non una cosa. Certo, l'orizzonte della verosimiglianza è lar- 'go, e le teorie sociali implicate possono essere più d'una, sicché le storie possibili e plausibili saranno certamente una pluralità, tuttavia limitata. E si apre a questo punto il problema del criterio di preferibilità. Ma questo è il principio di un altro discorso, che ci porterebbe - ancora, del resto, in compagnia di Ricoeur - sui cammini difficili dell'interpretazione. 1 Nota (1) Ho sviluppato più ampiamente questi temi in una conferenza,tenuta a Locarno nel maggio 1986. Oltre alla letteratura discussa da Ricoeur, segnalo l'ottima antologia a cura di P. Rossi, La teoria della storiografia oggi, Milano, Il Saggiatore, 1986, e il libro di G. ·Iggers, Nuove tendenze della storiografia contemporanea, introduzione di M. Mazza, Catania, Prisma, 1981. Il libro di T. Todorov cui mi riferisco è La conquista dell'America, tr. it. Torino, Einaudi, 1984. Ho proposto qualche riflessione su teoria marxiana e storia in Marx e l'antico: una storia impossibile, «Materiali filosofici», 8, 1983. Le aporie del tempo Fulvio Papi Tra i vari tracciati che si possono scegliere per parlare dell'opera di Paul Ricoeur priviligerò quello
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