Alfabeta - anno VIII - n. 91 - dicembre 1986

Sommario Antonio Faeti Il sangue del meticcio pagina II Carlo Branzaglia Il disegno riprodotto pagina III • Gino Frezza Il consumo e il futuro pagina V Supplemento ad Alfabeta n. 91 • Dicembre 1986 Renato Giovannoli Vertigine dei mondi pagina VII Giovanni Anceschi Narrativa per immagini pagina VIII Daniele Barbieri Il fumetto e l'estetica pagina XI Renato Calligaro Frontiere del fumetto pagina XIII Giancarlo Ascari e Franco Serra Due riviste pagina XV Si ringraziaper lacollaborazione MariellaMastride/l'Associazione CulturalePiccoloNemo Il fumetto.pueòsserearte? D a un certo tempo a questa parte si sente discutere sempre più spesso del seguente dilemma: il fumetto può essere arte? Ora, da un certo punto di vista la domanda è interessante. Ma è interessante proprio solo se non la si considera una domanda. Infatti, è un interrogativo puramente retorico e polemico. Un falso quesito che serve a obbligare coloro che rispondono a schierarsi. La posta in gioco è l'eterna frontiera che divide chi da un lato considera i fumetti una pratica «bassa», come la chiamerebbe l'amico Abruzzese, e perciò ghettizzabile in un universo di subcultura, e chi invece la pensa come una pratica comunicativa qualsiasi, che potrà essere artistica o meno a seconda di che cosa e come lo si dice, ma che in ogni caso contribuisce alla costruzione del nostro «immaginario» esattamente come la Venere .di Mi/o, la Divina Commedia, o Guerre stellari. Da un altro punto di vista, però, il problema non è interessante per nulla. Se infatti pensiamo che esso ormai costituisca una specie di rituale ideologico, all'interno del quale le posizioni sono sclerotizzate e senza possibilità di arricchimento reciproco, allora tanto vale lasciar perdere. Noi che crediamo che il fumetto sia una pratica comunicativa, da indagare al pari delle altre, possiamo anche abbandonare la polemica pretestuosa. E cominciare a chiederci qualcosa di più interessante. Porci delle vere domande. Ad esempio, questa. Data una certa sostanza dell'espressione (appunto, il fumetto) di cui ormai è più o meno noto il funzionamento, dopo tanti saggi in materia dei vari Caprettini, Fresnault-Deruel/e, Magli, Eco, Giovanna/i, Barbieri, e chi più ne ha più ne metta, è possibile stabilire un collegamento fra lo specifico espressivo dei fumetti (il loro «linguaggio») e invece una tipologia dei discorsi (persuasivo, estetico, scientifico, critico, e così via) che hanno strutture comuni indipendentemente dal modo di articolare l'espressione? In altri termini: non chiediamoci più, per favore, se il fumetto può essere arte. Interroghiamoci invece su come un «discorso artistico» si manifesti quando si usino dei fumetti per esprimer/o. Ed eventualmente esploriamo il corollario successivo, cioè domandiamoci perché storicamente questo avvenga di più adesso che non nel passato recente o lontano. lo non sono in grado, in questa sede, di fornire articolate risposte. Mi aspetto però di cominciare a leggerle, a partire da questo supplemento di «Alfabeta», che indaga le novità emerse oggi nel mondo dei fumetti, ivi comprese alcune novità estetiche. E butto lì, a mo' di introduzione, qualche idea preliminare, forse preconcetta, certamente un po' precostituita. Dunque, vediamo. Il semiologo è da sempre convinto, dopo le famose sei funzioni del linguaggio stabilite da Jakobson, dopo l'idea di «scarto dalla norma» dei formalisti russi, dopo il concetto di ostrannenje di Sk/ovskij, che un qualunque discorso estetico faccia puntare l'attenzione sulla propria forma interna. Detto altrimenti: il primo carattere di artisticità di un testo qualunque, anche a fumetti, sarà quello di evadere da una grammatica costituita e troppo «normale». Non vi sono dubbi, io credo, che questo primo carattere sia presente nei fumetti contemporanei. Basterà guardare l'insieme di «citazioni» formali prese a prestito ad esempio dalle avanguardie artistiche di tutto il Novecento per convincersene. Ma ancora non basta. Non basta strizzare l'occhio al futurismo o al dadaismo o ali'espressionismo per diventare artisti. C'è dell'altro. C'è il fatto, ad esempio, che senza citare avanguardie i fumettari di oggi segnalino la propria intenzione estetica. Con una operazione mirabile. Fase uno: sottopongo il fumetto ad un altissimo grado di grammaticalizzazione; rendo esplicita la sua possibile stereotipità; poi lavoro alla degenerazione, destabilizzazione, irregolarizzazione di quella grammatica. Rendo il fumetto una procedura per eccezioni. Spacco, coloro, strappo la striscia. Sventro, allargo, elasticizzo la vignetta. Ritmo, velocizzo, sonorizzo la pagina. Dipingo, architetto, anamorfizzo l'inquadratura. Cerco lo stile, studio l'effetto, progetto l'immagine. L'artisticità, insomma, riguarda la forma dell'espressione. Fase due: sottopongo il fumetto a un'altra grammaticalizzazione, quella narrativa e dei contenuti; rendo esplicite le sue «cento posizioni drammatiche»; poi lavoro alla distruzione, riformulazione, ricostituzione di nuova narratività. Combino motivi, scene, nuclei narrativi. Adatto contenuti, cornici, personaggi. Introduco fantasie, generi, effetti di realtà. Studio ,i caratteri, la psiche, le situazioni. Gioco sul raccontare e sul raccontato da un grado-zero che è l'eliminazione di qualsiasi storia a un limite massimo che è l'eccesso di storia. L'artisticità diventa la forma del contenuto. Ma non è finita, manca la fase tre. Forse la più importante. Anche qui si parte da una grammaticalizzazione di ciò che era implicito: la ricezione del pubblico; che consisteva in una certa forma di lettura, nella costruzione di contenitori con specifici sistemi di attese; anche questa la distruggo, la riformulo, la destabilizzo. Faccio entrare il fumetto nel museo; chiedo ospitalità ad «Alfabeta». Lo mando per televisione; ci faccio dei film. Faccio disegnare fumetti a Fellini, o ne faccio presentare a Bonito Oliva. Affido loro la presentazione di una scoperta scientifica; ci faccio propaganda elettorale. In altre parole: rendo il fumetto non un genere di comunicazione, ristretto ad un determinato rapporto di fruizione fra testo e lettore, ma comunico qualsiasi cosa col fumetto. Ergo: anche l'arte. Alla «sorpresa» formale dell'espressione o del contenuto, aggiungo l'accettabilità della marca estetica. E non è finita. Questa «accettabilità» posso poi nuovamente normalizzar/a, e degenerar- /a, producendo così anche una possibile estetica non solo del fumetto in sé, ma anche della sua ricezione. Si diceva, prima, che un corollario interessante alla domanda cui sopra davo qualche approssimativa risposta è quello di provare a spiegare perché proprio oggi stiamo assistendo al «nuovo» fenomeno de/l'integrazione della pratica dei fumetti ne/l'universo di discorso «arte». Premesso che tutto ciò non è così «nuovo» perché qualcosa in materia han fatto i vari Majakovskij, Léger, su fino a Lichtenstein, va detto che l'intensificarsi della cosa è effettivamente di attualità. Propongo, sempre nel modo frettoloso e schematico di prima, tre risposte possibili. Primo: il fumetto costituisce un materiale espressivo abbastanza inedito per l'arte. E come si sa, l'artista è sempre alla ricerca dei propri materiali. L'epoca contemporanea consuma le tavolozze degli artisti. E loro le rifanno nuove. Solo che, al poSJtJdei colori, oggi le tavolozze son fatte da pezzi di materiali eterogenei, trovati per ogni dove. Pezzi di «realtà» non selezionata per il contenuto, ma per la capacità espressiva. Non ready mades, come ali'epoca dei collages dadaisti: porzioni figurative. Insomma: è la pratica artistica stessa che impone l'uso di materiali poco esplorati come il fumetto. Secondo: il fumetto è una pratica da sempre narrativa o sostanzialmente tale. Ebbene, oggi in generale, dopo anni di sperimentazione d'avanguardia portata sul significante, sulla forma linguistica, a scapito e detrimento del contenuto, forse si sta facendo strada una nuova area di sperimentazione: appunto quella sulla forma del contenuto, a scapito e detrimento dell'espressione. Il fumetto, così come il romanzo e il cinema diegetico, è un terreno ideale di sperimentazione del racconto raccontato. Insomma: è l'orientamento sperimentale a produrre attenzione ad una pratica poco esplorata come il fumetto. Terzo: il fumetto è anche un'area professionale, che contiene degli addetti, un mercato, degli autori. E anche qui è ormai accaduto qualcosa, come nel campo dei fotografi, dei pubblicitari, degli stilisti. C'è stata una mutazione sociologica nell'universo della professione. Ciascuno di questi «creativi» oggi ha smesso di sentirsi un frustrato che faceva un mestiere artigiano per non aver potuto svolgere una «creatività» maggiore. Ciascuno di loro ha preteso di cominciare a dare contenuti estetici alla propria pratica di produzione di oggetti di consumo. Forse, l'estetica che ne deriva non è la stessa di cui parlavano una volta nelle accademie. Questa è un'estetica di massa (il che non vuol dire che sia meno «estetica»). Che forse ha sue caratteristiche proprie. Come si vede, ancora una volta non ha senso domandarsi se e come Altan possa stare a fianco di Dalì o di Picasso. Meglio chiedersi quali siano le marche dell'estetica di massa. E, rotti gli indugi, puntare al capolavoro. O meglio: alla possibilità di riconoscer/o. Omar Calabrese

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